Stop al reflusso gastrico con la chirurgia robotica

Il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale, illustra in un video l’intervento con il Robot chirurgico Da Vinci Xi per eliminare l’ernia iatale, una delle cause del reflusso gastrico di cui soffre il 20% della popolazione occidentale
Si stima che il 20% della popolazione dei Paesi occidentali soffra di reflusso esofageo, che si verifica quando i succhi gastrici dello stomaco, risalendo, vengono a contatto con la parete dell’esofago provocando bruciore dietro lo sterno e rigurgito acido.
Sono questi i sintomi più comuni riferiti dai pazienti che si rivolgono al gastroenterologo per eliminare un disturbo a volte sopportabile e rimediabile con un antiacido, ma in alcuni casi tale da trasformarsi in un dolore simile a quello dell’infarto. L’importante è non sottovalutare i sintomi, perché un reflusso cronico può causare l’esofagite che può svilupparsi in cancro all’esofago.
Una delle cause del reflusso è l’ernia iatale, cioè lo scivolamento dello stomaco in torace attraverso il diaframma. Il trattamento di solito è farmacologico ed implica anche un cambiamento di stili di vita che comprende una dieta equilibrata, la perdita di peso e attività fisica giornaliera.
Quando però le “armi” terapeutiche del gastroenterologo falliscono entra in campo il chirurgo con un intervento risolutivo dell’ernia iatale.
Il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, illustra in un video come avviene l’intervento utilizzando il Robot chirurgico Da Vinci Xi, che consente un ritorno più rapido del paziente alle normali attività quotidiane.
Potrebbero interessarti:
L'estate vista dal Pronto Soccorso pediatrico

Al “Sacro Cuore Don Calabria” è stato studiato un accesso privilegiato per le urgenze dei bambini che parte dal Pronto Soccorso generico, dove il minore ha la precedenza al triage, e continua in Pediatria. I consigli per la salute dei bambini in estate
L’estate non sempre è sinonimo di bella stagione. Basta entrare in un Pronto Soccorso per toccare con mano che se l’inverno ha i suoi mali, l’estate non è da meno, anche per i bambini.
Il bel tempo e le giornate più lunghe sono l’ideale per giocare all’aperto e cimentarsi in attività che il freddo e la pioggia non consentono, ma anche per i traumi, provocati soprattutto dalle cadute in bicicletta o da arrampicate non proprio salutari sugli alberi.
Per non parlare delle gastroenteriti batteriche da intossicazione alimentare dovute al mancato rispetto della catena del freddo nella conservazione degli alimenti. E poi l’asma bronchiale o le orticarie allergiche per i tanti allergeni che madre natura ci dona nei mesi estivi. Per finire con le punture di vari insetti e quelle più meritevoli di attenzione delle zecche.
“L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria dispone di un Pronto Soccorso pediatrico – spiega il dottor Antonio Deganello, direttore della Pediatria – riservato ai pazienti da zero a 17 anni. E’ stato concepito per ridurre i tempi di attesa del bambino o del ragazzo e perché il minore fin dall’ingresso in ospedale sia preso in carico da una équipe e da un ambiente adeguato alla sua età”.
Il primo accesso è al Pronto Soccorso generale, dove il bambino effettua subito il triage senza attendere il suo turno. Dopo una prima valutazione delle condizioni, il minore viene inviato al reparto di Pediatria (quarto piano ingresso F) dove è preso in carico dal pediatra che quel giorno è in staff al Pronto Soccorso o, nei giorni festivi e durante la notte, dal pediatra di guardia. Per i casi per cui non è indicato un ricovero immediato è stato previsto anche uno spazio per l’Osservazione breve intensiva.
“Il Pronto Soccorso pediatrico si occupa di tutte le patologie – spiega il primario – ad eccezione di traumi di lieve entità (come le ferite da taglio) che vengono curate direttamente dai colleghi del Pronto Soccorso generale”.
All’anno il Pronto Soccorso pediatrico registra circa 4mila accessi, il 10% di tutte le urgenze che afferiscono al “Sacro Cuore Don Calabria” e proprio le urgenze che hanno come soggetti i bambini costituiscono il 60% dei ricoveri in Pediatria.
“I Pronto Soccorso pediatrici soffrono della stessa patologia di quelli generali – commenta il dottor Deganello -. Molto spesso gli utenti abusano di una struttura che dovrebbe essere riservata solo alle urgenze. Nell’ambito pediatrico – prosegue il medico – l’accesso improprio risente sicuramente dell’ansia del genitore che di fronte al malessere o all’incidente del figlio cerca una soluzione immediata in una struttura meritevole di fiducia come è considerato l’ospedale“.
Tuttavia in moltissimi casi dovrebbero prevalere la calma e il buon senso. “La gravità di un trauma, per esempio, dovrebbe essere valutata dalle modalità con cui è avvenuto e dall’evidenza delle condizioni del bambino – sottolinea il dottor Deganello -. E non sempre l’esordio di una febbre alta merita una corsa al Pronto Soccorso, spesso è sufficiente una telefonata al pediatra di riferimento.
Buon senso significa anche prevenzione: i colpi di calore sono evitabili non esponendo il bambino al sole nelle ore più calde, coprendogli il capo, dandogli molto da bere. Come si possono evitare le intossicazioni alimentari non mangiando cibi ad alto rischio di deterioramento se non si sa come sono stati conservati”. E’ più difficile impedire a un bambino di giocare e di correre in bicicletta, ma la regola di indossare il caschetto prima di inforcare la bici è sempre valida per i piccoli e per i grandi.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Ti potrebbe interessare
- Da temere è il morbillo non il vaccino
- Alla Pediatria la maglia della Tezenis: un canestro di generosità
- Strabismo e bambini: bisogna intervenire per tempo
- Bimbi adottati in Congo a Negrar per le visite
- Sacro Cuore: un ospedale a misura di mamma
- Retinopatia del pretermine: a Negrar centro chirurgica d’eccellenza
- La sindrome del bambino maltrattato
Da Negrar a Luanda: 25 anni di cooperazione sanitaria in Angola

Nel 1992 a Luanda partiva un progetto di assistenza sanitaria su iniziativa dell’Opera Don Calabria e dell’Unione Medico Missionaria Italiana. Nasceva così una rete di servizi che tuttora è un punto di riferimento per quasi due milioni di persone
Una rete di servizi sanitari e territoriali per quasi due milioni di persone in un quartiere molto povero di Luanda, capitale dell’Angola. Al centro della rete c’è l’ospedale Divina Providência, con 134 posti letto, che nel 2016 ha visto 6.646 ricoveri (dati da gennaio a ottobre), di cui 3.938 in Pediatria, 743 nel Centro Nutrizionale Terapeutico, 1.572 in Medicina Generale e 393 al Centro anti tubercolosi. E poi cinque Centri di salute periferici, dove nel corso del 2016 sono state effettuate 169.545 visite ambulatoriali e 85.649 vaccinazioni a bambini e adulti.
I numeri non dicono tutto, ma certamente aiutano a inquadrare la rilevanza di un progetto di sviluppo sanitario che ebbe inizio esattamente 25 anni fa, nel 1992, nella missione angolana dell’Opera Don Calabria. I missionari calabriani erano presenti nel Paese africano già dal 1982, quando nel pieno di una cruenta guerra civile avevano avviato attività in campo pastorale, sociale ed educativo. Ben presto, però, risultò chiaro che una delle grandi emergenze dell’Angola, in modo particolare nella capitale Luanda, era legata alla mancanza di una dignitosa assistenza sanitaria per i milioni di poveri e rifugiati che di giorno in giorno andavano ad affollare le baraccopoli della città per sfuggire alla guerra.
Fu così che nel 1992 si decise di avviare un progetto sanitario con la collaborazione dell’Unione Medico Missionaria Italiana – UMMI, organizzazione non governativa che ha sede all’interno della Cittadella della Carità di Negrar e che fin dalla sua fondazione nel 1933 ha sempre avuto un rapporto molto stretto di collaborazione con l’Opera Don Calabria e con l’ospedale Sacro Cuore (vedi scheda di approfondimento). E proprio l’ospedale Sacro Cuore è uno degli attori che hanno dato e continuano a dare un contributo allo sviluppo di questa rete sanitaria nel cuore di Luanda, attraverso la formazione di personale volontario, confermando una vocazione alla cooperazione internazionale che si verifica anche in altri progetti in Brasile, Filippine, Ucraina e Bielorussia (vedi link alla fine di questo articolo).
UN PO’ DI STORIA
Nel 1992 l’Angola viveva un momento di pace transitoria nel bel mezzo di un conflitto che poi sarebbe proseguito ancora per molto tempo. Fu proprio allora che l’UMMI fece un primo sopralluogo nella capitale Luanda, su invito dell’Opera Don Calabria che era presente da 10 anni nel Paese e aveva già avviato un’attività di assistenza sanitaria per iniziativa di don Mario Castagnini, religioso calabriano e medico.
La missione si trovava, e si trova tuttora, nel “bairro do Golf”, un quartiere abitato da quasi due milioni di poveri, in prevalenza rifugiati della guerra civile, nel municipio di Kilamba Kiaxi vicino all’aeroporto della capitale. Da quel sopralluogo risultò subito evidente la drammatica situazione sanitaria vissuta dalla popolazione, aggravata dall’assenza di infrastrutture e servizi igienico-sanitari, con indicatori tra i peggiori al mondo, tra cui una mortalità infantile, da 0 a 5 anni, pari nel 1992 al 330 per mille.
L’obiettivo della visita dell’UMMI era di arrivare a realizzare un progetto più strutturato di assistenza sanitaria nella missione. E il progetto venne effettivamente redatto nel corso della visita, prevedendo in sintesi l’avvio di attività territoriali in quattro “Centri di Salute” e la creazione di un Centro Diagnostico e Materno-Infantile presso l’area utilizzata dall’Opera alla periferia di Luanda.
I CENTRI DI SALUTE E L’OSPEDALE
Il progetto prese avvio immediatamente con la realizzazione dei quattro Centri periferici. Nel tempo questi centri si sono dotati di strumenti e percorsi diagnostici per le patologie a maggior rischio di mortalità – malaria in primis – e della presenza del medico. Oltre ad una grande mole di attività ambulatoriale, presso i Centri vengono svolte attività di diagnosi precoce, prevenzione, in particolare per la fascia materno-infantile, e di formazione. Il numero di tali presìdi sanitari è salito recentemente a cinque, grazie all’inaugurazione di un ampio Centro Medico – con sezione di ostetricia e maternità – in una nuova zona dell’area urbana (vedi mappa).
L’altra parte del progetto, ovvero il Centro Diagnostico e Materno Infantile, realizzato nel 1993 e oggi divenuto Hospital Divina Providência, ha iniziato la sua attività puntando principalmente sulla capacità diagnostica di laboratorio e per immagini e su un’attività ambulatoriale specialistica diversificata, svolta in buona parte dietro l’azione di filtro promossa dai Centri Medici.Con il tempo è stato perfezionato il sistema dei trasferimenti interni ed esterni alla rete sanitaria e sono stati attivati nuovi settori di intervento.
Nel 2001 è stata aperta la Divisione di Pediatria, con 55 posti letto, e sono state costruite dai Volontari dell’UMMI la Divisione di Medicina, con 54 posti letto, e il Centro per il controllo della Tubercolosi, che oggi ha in trattamento circa 1.700 persone. Negli anni successivi è stato inoltre creato un Centro per diagnosi e cura dell’HIV, che oggi provvede all’accompagnamento di quasi 6.000 ammalati. Quello che nel frattempo era diventato l’HDP – Hospital Divina Providência – è oggi ufficialmente riconosciuto dal governo angolano come parte del servizio sanitario locale (vedi ampia galleria fotografica dell’ospedale e dei centri di salute).
LA LOTTA ALLA MALNUTRIZIONE
Negli ultimi quindici anni è stato sviluppato anche un altro fondamentale settore di attività, che si può ricondurre al più generale tema della “lotta alla malnutrizione”. Visto il rilievo che la problematica assume, anche rispetto alla vulnerabilità verso le patologie emergenti, si è articolata l’attività di lotta alla malnutrizione con interventi dedicati presso l’Ospedale, con la prevenzione, la formazione e l’integrazione alimentare presso i Centri Medici, e con la costruzione di un Centro Nutrizionale Terapeutico con 22 posti letto presso il quale i bambini colpiti da malnutrizione severa possono risiedere con le mamme per il tempo necessario anche alla gestione della nutrizione una volta completata la dimissione. In questi mesi è infine allo studio un progetto per la creazione di una Divisione di Malattie Infettive.
VOLONTARI DA NEGRAR E DA TUTTA ITALIA
Questo progetto, così essenziale per centinaia di migliaia di persone e così difficile da immaginare 25 anni fa in quel contesto, si è gradualmente realizzato. Ciò grazie innanzitutto ai Religiosi dell’Obra da Divina Providencia, che hanno scelto di stare accanto a questa popolazione dal 1982, quando cadevano le bombe e spostarsi sulle strade era un rischio quotidiano, che hanno creduto e partecipato alle diverse fasi dell’intervento sanitario e che hanno sostenuto l’azione dell’UMMI e dei suoi Volontari.
Proprio i Volontari rappresentano un’altra grande risorsa di questo progetto. In questi anni l’UMMI ha inviato 253 persone a Luanda, che con diverse professionalità e periodi di permanenza hanno garantito – sia nelle strutture che nella qualità sanitaria dei servizi – la crescita di questa rete sanitaria. Tra di loro c’è anche chi sta per “compiere” 20 anni di presenza. E tra loro ci sono anche medici e personale sanitario dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar (vedi articolo sui volontari dell’ospedale partiti a gennaio 2016).
Il progetto si è realizzato inoltre – consentendo all’UMMI un impegno economico di oltre 16 milioni di euro in 25 anni – grazie alle persone fisiche, agli enti privati e agli enti pubblici che ne hanno sostenuto, con contributi ed erogazioni, i singoli passi, consentendo all’intero programma un percorso sicuro di sviluppo a beneficio di un altissimo numero di persone. Il ruolo di ciascuno, così come ricordato in queste poche righe, ha avuto un peso determinante e ha rappresentato concretamente il volto della Provvidenza che – dall’altra parte del mondo – si è manifestato come risposta viva e vera a ciascuno di quei poveri che – incolpevoli del loro bisogno e in maniera inattesa – hanno potuto ritrovare la salute e il conforto umano.
Altri articoli sulla cooperazione sanitaria internazionale del Sacro Cuore:
Chirurgia della spalla: l'innovazione è "biologica"

Esperti da tutta Europa a confronto sulle più moderne tecniche chirurgiche per intervenire in caso di rottura irreparabile del maggior tendine della spalla. Se ne parla il 7 e 8 luglio in un corso che vede tra gli organizzatori l’Ortopedia del Sacro Cuore
Tecniche chirurgiche innovative e mini-invasive, tra cui l’utilizzo di protesi biologiche, per intervenire sulle lesioni irreparabili della cuffia dei rotatori della spalla. Il confronto tra queste tecniche, in relazione al tipo di lesione e al tipo di paziente, sarà al centro di un corso in programma il 7 luglio all’ospedale Sacro Cuore di Negrar e il giorno successivo all’ICLO Teaching Center di Verona, con la partecipazione dei maggiori esperti a livello italiano ed europeo (vedi programma).
La cuffia dei rotatori è un grosso tendine della spalla, formato in realtà dalla confluenza di quattro diversi muscoli, di fondamentale importanza per effettuare i vari movimenti dell’articolazione. In alcuni casi i tendini della cuffia sono soggetti a lesioni, dovute a eventi traumatici oppure di tipo degenerativo a causa dell’usura e dell’invecchiamento. Nelle situazioni più compromesse, tali lesioni sono definite irreparabili proprio perché la rottura è massiva, con dolori anche forti e crescente difficoltà nei movimenti (vedi foto). In questi casi il recupero della funzionalità della spalla è possibile attraverso particolari tecniche chirurgiche, alcune delle quali molto recenti e innovative, che possono rappresentare una valida alternativa alla protesi inversa della spalla, che è un intervento più invasivo per il paziente.
“Attualmente ci sono tre tecniche possibili per intervenire quando la lesione della cuffia è irreparabile: il transfer del gran dorsale, il balloon e la ricostruzione della capsula superiore”, dice il dottor Paolo Avanzi, presidente del corso in programma il 7 e 8 luglio e chirurgo in forza all’Unità di Ortopedia e Traumatologia del Sacro Cuore, diretta dal dottor Claudio Zorzi. Proprio il dottor Zorzi introdurrà il corso nella prima parte che si svolgerà a Negrar. “Metteremo a confronto queste tre tecniche – prosegue Avanzi – con l’obiettivo di chiarire in quali casi è preferibile usare l’una o l’altra. L’idea di fondo, infatti, è di arrivare ad una chirurgia che si adatta al paziente e non viceversa” (vedi foto con dottor Zorzi e dottor Avanzi).
Fra le tre tecniche citate, il transfer è quella meno recente e più usata. Consiste nel distacco del tendine del muscolo gran dorsale, che si trova sul tronco e si inserisce sull’omero, con successivo trasferimento del tendine stesso in artroscopia all’interno della spalla sulla testa omerale, in modo da sopperire alla lesione della cuffia. Viceversa la tecnica del balloon prevede l’inserimento all’interno della cuffia, sempre in artroscopia, di un palloncino riassorbibile che viene gonfiato con soluzione fisiologica. Tale dispositivo funge da spaziatore biologico e permette, in sede di fisioterapia, di ricentrare la testa dell’omero che spesso in caso di lesione importante risulta spostata dalla sua sede naturale. In questo modo si migliora la biomeccanica della spalla e si recupera la funzionalità del muscolo deltoide.
Infine la tecnica più recente e innovativa è rappresentata dalla ricostruzione della capsula superiore. La dinamica è simile a quella del balloon, solo che come spaziatore biologico viene usata una membrana di cute suina, inserita in artroscopia tra la glena e la testa dell’omero. Questa patch permette il ritensionamento del tendine e il recupero della funzionalità della cuffia, tra l’altro con un follow up che spesso risulta più breve.
“Al Sacro Cuore pratichiamo da tempo tutte queste tecniche. In particolare per il balloon e la ricostruzione con cute suina siamo stati tra i primi a livello nazionale – dice il dottor Avanzi – Gli interventi con balloon sono stati un centinaio dal 2009 in avanti, mentre le ricostruzioni con materiale biologico sono state circa duecento, di cui una decina con la cute suina che è di recente introduzione, prima invece si usavano altre patch”. Un’attenzione al biologico, quella dell’Ortopedia del Sacro Cuore, che prosegue da tempo e vede il dottor Zorzi e la sua equipe tra i pionieri non solo per la spalla ma anche per il ginocchio (vedi articolo sulla chirurgia rigenerativa della cartilagine).
Ma le tre tecniche illustrate vanno bene per tutti i pazienti e per tutte le lesioni irreparabili della cuffia? “In realtà è fondamentale una valutazione caso per caso – conclude Paolo Avanzi – Ad esempio nel paziente giovane e attivo, con lesione superiore e postero-superiore della cuffia, è indicato il transfer del gran dorsale. Viceversa nell’anziano con un inizio di artrosi sono più indicati il balloon o la ricostruzione. Ma ogni caso fa storia a sé e da parte del chirurgo ci vuole uno sforzo di analisi personalizzata del paziente, con la disponibilità ad usare ognuna di queste tecniche. Proprio questo sarà il messaggio di fondo al centro del corso del 7-8 luglio. Tanto più che l’uso di una tecnica non esclude l’altra, e se una non ha dato i risultati sperati dopo qualche anno se ne può provare un’altra”.
La prima parte del corso, in programma al Sacro Cuore in Sala Perez, prevede una serie di interventi frontali e un collegamento in diretta con la sala operatoria dove verranno mostrati tre interventi, uno per ogni tecnica illustrata. Questa parte è rivolta non solo ai chirurghi della spalla ma anche a fisiatri, medici sportivi, fisioterapisti e in generale tutti coloro che possono aver a che fare con pazienti affetti da questa patologia anche in sede di riabilitazione. Infatti la riabilitazione è fondamentale e varia a seconda dell’intervento che viene fatto in sede chirurgica.
La seconda parte, a numero chiuso, si svolgerà presso la sede dell’Iclo a Verona, con una dimostrazione pratica di transfer del gran dorsale realizzata su un cadavere. Il corso ha il patrocinio dell’ESA (European Shoulder Associates) e dell’ESSKA (European Society for Sports Traumatology, Knee Surgery and Arthroscopy).
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Sclerodermia: la malattia dalle mani bianche

l 29 giugno è la Giornata mondiale della sclerodermia, la malattia reumatica autoimmune di cui non si conoscono le cause e per cui non esistono farmaci. A Negrar un Ambulatorio per la diagnosi e il trattamento precoce al fine di evitare gravi complicanze
La parola è uno di quei termini medici difficili da pronunciare, ma il suo significato descrive immediatamente come si presenta questa patologia cronica ed evolutiva che fa parte delle malattie reumatiche autoimmuni. Infatti chi è affetto da sclerodermia, soffre molto spesso di un ispessimento della cute, di “pelle dura” (questo il significato del termine) soprattutto delle dita delle mani, ma non solo.
Il 29 giugno è la Giornata mondiale dedicata alla malattia, la cui frequenza nella popolazione generale (prevalenza) è compresa tra 10-20 casi per 100mila persone, con la comparsa di 1-2 nuovi casi all’anno ogni 100mila abitanti. La sclerodermia è più frequente nelle donne, in genere inizia tra i 15 e i 45 anni, ma può manifestarsi a qualsiasi età.
Non si conoscono le cause
La sclerodermia si verifica a partire da un processo infiammatorio, di cui non si conoscono le cause, che inizia dalle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni. Questo processo provoca un’alterazione della microcircolazione e dell’irrorazione sanguigna nella cute e negli altri organi che a sua volta porta ad un’esagerata produzione di collagene, di cui è ricco il tessuto connettivo, con conseguente fibrosi progressiva.
Non ci sono farmaci specifici
Rimanendo sconosciuti i meccanismi patogenitici per la sclerodermia, a differenza delle altre malattie reumatiche, non sono a disposizione terapie mirate. I farmaci disponibili oggi si limitano a rallentare l’evoluzione della malattia e la comparsa delle complicanze, anche molto gravi che possono interessare perfino gli organi interni.
La forma limitata e quella diffusa
Infatti tenendo distinta la sclerodermia localizzata – che si cura dermatologicamente – la sclerosi sistemica o sclerodermia viene distinta, in base all’interessamento cutaneo, in forma limitata e forma diffusa. La prima, che è la più frequente, ha un esordio graduale e si limita alla cute delle estremità degli arti inferiori e superiori. Mentre la seconda si presenta spesso con indurimento e fibrosi della pelle estesi a tutto il corpo e può comparire anche un interessamento cardiopolmonare e renale di difficile gestione e trattamento.
Fondamentale è la diagnosi precoce
“Pertanto diventa imperativo giungere ad una diagnosi tempestiva e precoce della malattia sclerodermica – spiega il dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria – riconoscendo il sintomo di esordio più precoce che è il Fenomeno di Raynaud. Esso consiste in un marcato vasospasmo delle arteriole terminali delle mani o dei piedi per lo più scatenato dall’esposizione al freddo, da situazioni di stress emotivo, dal fumo, dall’assunzione di taluni farmaci vasocostrittori (betabloccanti) e da attività lavorative che richiedono l’uso di attrezzi che vibrano, come i martelli pneumatici”.
Quelle mani bianche
Classicamente il Fenomeno di Raynaud si manifesta con il pallore intenso delle mani, seguito da cianosi (colore violaceo della pelle) e da un’ultima fase di vasodilatazione. La persona che ne soffre avverte una sensazione dolorosa intensa con formicolio, perdita temporanea della sensibilità all’estremità delle mani e dei piedi , ma talora anche a livello del naso e della lingua.
Il Morbo e il Fenomeno di Raynaud
“Di fronte al fenomeno delle dita bianche e blu nei giovani e adulti – riprende il dottor Marchetta – è necessario fare diagnosi differenziale tra Morbo di Raynaud (sintomo clinico senza segni di connettivite) e Fenomeno di Raynaud (quando si accompagna alla presenza di autoanticorpi e alterazioni del microcircolo). Tuttavia in presenza di un Morbo di Raynaud intenso e ripetuto è opportuno attivare un trattamento farmacologico adeguato per prevenire possibili fatti ischemici acuti e ulcere digitali”.
La diagnosi: la videocapillaroscopia
L’esame diagnostico per eccellenza è la videocapillaroscopia, che viene effettuato presso il Servizio di Reumatologia tutti i lunedì mattina. Si tratta di una procedura non invasiva e completamente indolore che si basa sull’osservazione diretta della zona attorno alle unghie delle dita delle mani per mezzo di una lente di ingrandimento immersa in olio di cedro. Nelle persone sane i capillari hanno una forma ordinata e regolare, mentre in presenza del Morbo o del Fenomeno di Raynaud, si rilevano delle caratteristiche alterazioni dei capillari che viene definito “scleroderma pattern” . In questo caso vengono ricercati gli autoanticorpi specifici (ANA, ENA) e a seguire si fa la valutazione Reumatologica. All’anno il Servizio effettua circa 300 videocapillaroscopie.
L’Ambulatorio per la sclerodermia e disturbi del microcircolo
Il paziente con sclerodermia e disturbi del microcircolo viene poi preso in carico a Negrar dall’Ambulatorio divisionale gestito dalla dottoressa Cinzia Scambi (nella foto con il dottor Marchetta) ogni martedì mattina. Nell’Ambulatorio viene effettuato il completamento diagnostico volto alla stadiazione della malattia e al follow-up delle complicanze con videocapillaroscopia, Rx del torace, ecocardio, spirometria, esame del tubo digerente, ecografia osteoarticolare e funzionalità renale. La dottoressa Scambi è anche responsabile del Day Hospital terapeutico della Reumatologia che dispone di 10 postazioni infusive in cui vengono somministrati anche i farmaci per la sclerodermia. L’Ambulatorio segue circa 200 pazienti e sono una ventina i nuovi casi all’anno di sclerodermia.
“L’esperienza in questo ambito ci permette di poter affermare che la diagnosi precoce della sclerodermia è possibile con indagini semplici e mirate. L’utilizzo precoce di prostanoidi (forti farmaci vasodilatatori) in infusione ci ha consentito di ottenere ottimi risultati e di scongiurare la comparsa delle temibili ulcere cutanee alle dita delle mani e dei piedi oltre che rallentare la comparsa delle complicanze della sclerodermia”, conclude il dottor Marchetta.
Ti potrebbe interessare:
Il "Sacro Cuore" mette sotto esame il sonno degli autotrasportatori della A22

Il Centro di Medicina del sonno dell’ospedale di Negrar è partner della campagna #nonmoriredisonno dell’Autostrada del Brennero per la prevenzione degli incidenti causati dalla sonnolenza diurna
L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) partner della campagna #nonmoriredisonno, promossa dall’Autostrada del Brennero nell’ambito delle iniziative sulla sicurezza alla guida.
L’obiettivo è quello di sensibilizzare chi si mette al volante, ma soprattutto gli autisti professionali, sui rischi della sonnolenza diurna e dei colpi di sonno che ne possono conseguire, causa di incidenti stradali devastanti.
La campagna, che partirà mercoledì 28 giugno su tutto il percorso dell’A22, vede protagonisti oltre all’Autobrennero e all’ospedale veronese anche l’associazione Informasonno, la Croce Bianca/Weisses Kreuz sudtirolese, le associazioni di categoria degli autotrasportatori e Sadobre S. p. A., la società che gestisce l’Autoporto a Vipiteno, a pochi chilometri dall’ingresso in Austria (vedi interviste ai protagonisti dell’iniziativa).
Nell’area attrezzata a pochi chilometri dall’ingresso in Austria, ogni notte sostano per il riposo obbligatorio circa 300 autotrasportatori. Qui i volontari della Croce Bianca offriranno la possibilità ai camionisti di sottoporsi a controlli sanitari completamente gratuiti come la misurazione della pressione del sangue, della frequenza cardiaca, della pressione parziale dell’ossigeno nel sangue e dell’Indice di Massa Corporea, per la prevenzione dell’obesità.
Inoltre grazie alla formazione dei medici e dei tecnici del Centro di Medicina del Sonno di Negrar, la Croce Bianca allestirà – nelle sere di mercoledì, giovedì e venerdì – dieci postazioni di polisonnografia, l’esame strumentale per la diagnosi della Sindrome delle apnee ostruttive del sonno, una delle principali cause dell’eccessiva sonnolenza diurna.
“I dati delle polisonnografie – spiega il dottor Gianluca Rossato, responsabile del Centro di Medicina del Sonno di Negrar e presidente di Informasonno – saranno inviati in telemedicina al nostro Centro, analizzati, refertati e consegnati ai diretti interessati. Si tratta di un’iniziativa di prevenzione molto importante – prosegue il neurologo -. Le apnee del sonno comportano la sospensione del respiro per numerose volte durante la notte a cui il corpo reagisce con dei micro-risvegli. Chi ne soffre ha l’impressione di aver dormito, ma in realtà durante il giorno è tormentato da una pesante sonnolenza ed è a forte rischio di colpi di sonno che si possono manifestare anche durante la guida”.
Si stima che il rischio di incidenti stradali aumenta del 400% in caso di Sindrome della apnee ostruttive del sonno e che il 22% degli incidenti sia causato proprio dalla sonnolenza diurna. Gli incidenti direttamente dipendenti dalla Sindrome delle apnee ostruttive nel sonno causano oltre 200 morti all’anno e 12mila feriti.
La campagna #nonmoriredisonno ha scelto come target principale gli autotrasportatori, in quanto, assieme gli autisti di pullman, sono le categorie più a rischio di colpi di sonno avendo un ritmo sogno-veglia spesso alterato dai turni lavorativi. Inoltre conducono una vita sedentaria e spesso soffrono di obesità, fattori di rischio per lo sviluppo della Sindrome delle apnee ostruttive nel sonno.
Tuttavia accanto alle iniziative per gli autotrasportatori (tra cui anche un corso di Primo Soccorso), la campagna #nonmoriredisonno si rivolge anche alla popolazione generale, con la distribuzione di materiale informativo sulla Sindrome delle apnee notturne in tutti gli autogrill dell’asse dell’A22.
nella Photo Gallery: i protagonisti della campagna #nonmoriredisonno di A22
Ti potrebbe interessare:
Festa del Sacro Cuore: inaugurata la rinnovata Cardiologia

Questa mattina alla presenza dell’assessore regionale alla Sanità è stata inaugurata la Cardiologia, completamente rinnovata nella parte delle degenze. L’eccellenza dell’attività si accompagna così al comfort alberghiero per il paziente
Era sempre il giorno della Festa patronale, quando nel 2012 è stato tagliato il nastro delle due nuove sale di Emodinamica dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal professor Enrico Barbieri. Questa mattina, Festa liturgica del Sacro Cuore, al rinnovamento tecnologico si è affiancato quello strutturale con la benedizione inaugurale del reparto completamente ridisegnato.
A fare gli onori di casa il presidente della struttura calabriana, fratel Gedovar Nazzari, l’amministratore delegato Mario Piccinini, il direttore sanitario, Fabrizio Nicolis, il direttore amministrativo, Claudio Cracco, il vicepresidente don Waldemar Longo e il vicario generale dell’Opera Don Calabria, don Luciano Squizzato, che ha impartito la benedizione.
All’evento erano presenti l’assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, il sindaco di Negrar, Roberto Grison il direttore generale dell’Ulss 9, Claudio Girardi, e l’avvocato Lucia Poli in rappresentanza dell’Azienda Ospedaliera (vedi video e interviste dell’inaugurazione).
Alle 12 il vescovo di Verona Giuseppe Zenti ha celebrato la Messa nella Cappella del Sacro Cuore.
Dopo l’intervento iniziale del presidente Nazzari, che ha sottolineato l’importanza per un ospedale di una festa come quella del Sacro Cuore che celebra la tenerezza di Dio, ha preso la parola il professor Enrico Barbieri che ha descritto la totale ristrutturazione del reparto composto da nove stanze, otto riservate a due pazienti e una singola per i casi di maggiore difficoltà ed emergenza. Quattro letti (a breve saranno sei) sono dotati di un sistema di monitoraggio elettrocardiografico.
La ristrutturazione ha cambiato completamente il volto del reparto con la demolizione dell’esistente, il rifacimento dei pavimenti e l’installazione di impianti di condizionamento con ricambio d’aria di ultima generazione. Anche l’arredamento è stato totalmente rinnovato ed è stato scelto un impianto di illuminazione a basso consumo. Inoltre è stato ricavato un nuovo spazio, prima mancante, dedicato al soggiorno-sala di attesa per i pazienti che sono in regime di pre-ricovero. Completano il reparto la stanza del medico di guardia, l’ambulatorio infermieristico e l’ambulatorio medico.
“La posizione del reparto è ottimale – ha spiegato il primario – in quanto siamo solo due piani sopra il Pronto Soccorso e sullo stesso piano delle degenze sono presenti le sale di emodinamica. Questo consente una presa in carico estremamente rapida dei pazienti più critici, come quelli colpiti da infarto miocardico”.
La situazione logistica unitamente “alla competenza dei miei collaboratori – ha proseguito il cardiologo – ci ha consentito di raggiungere risultati più che soddisfacenti. L’anno scorso abbiamo effettuato oltre 1.200 ricoveri e abbiamo eseguito 350 angioplastiche (il trattamento utilizzato per dilatare il restringimento dell’arteria coronarica responsabile dell’infarto ndr) di cui 150 in urgenza”.
Ad attestare l’eccellenza della Cardiologia di Negrar sono stati anche i dati Agenas 2016 (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) che pongono l‘Unità Operativa Complessa di Negrar al primo posto in regione per numero di infarti trattati con angioplastica coronarica entro due giorni dal ricovero (76% contro la media nazionale del 43,32%). Sempre per quanto riguarda il trattamento dell’infarto miocardico si distingue per un ulteriore risultato positivo, registrando una mortalità a 30 giorni del 7,96% contro la media nazionale del 9,03%. Inoltre, insieme ad altri reparti come la Geriatria e la Medicina Generale, concorre ad ottenere il terzo miglior risultato del Veneto quanto a minor numero di decessi (5%) a 30 giorni dal ricovero per scompenso cardiaco congestizio.
“La provincia di Verona è in una posizione aurea per quanto riguarda la Sanità in una regione la cui popolazione, sostiene l’Oms, è la più longeva d’Europa – ha sottolineato l’assessore Coletto -. L’Azienda ospedaliera universitaria integrata, gli ospedali di rete, l’ospedale di Negrar e la clinica di Peschiera formano un tetraedro che nel tempo si consolida sempre di più a servizio dei cittadini del territorio. La presenza di di Cardiologie H24 (operative tutto il giorno e per tutti giorni dell’anno per il trattamento dell’infarto miocardico) di Verona, Negrar e Peschiera sono una garanzia di rapidità d’intervento con risultati eccellenti sulla mortalità come dimostrano i dati del ‘Sacro Cuore Don Calabria‘”.
In occasione della Festa, nel giardino dell’ospedale Don Calabria sono stati esposti i quadri di Luigi Zardini, allievo del corso di pittura della Scuola d’Arte “Paolo Brenzoni” di Sant’Ambrogio di Valpolicella e da qualche tempo paziente dell’Oncologia di Negrar. Attraverso le sue opere, Zardini esprime le emozioni suscitate dalla malattia: soggetti e colori felici nei momenti buoni, colori e soggetti cupi quando la speranza vacilla. Luigi Zardini è l’esempio di quanto l’arte, la pittura in questo caso, sia durante la malattia una forma di cura e di prendersi cura, oltre a una risorsa per combattere.
Nelle foto Ennevi la cronaca dell’evento. In copertina l’équipe di Cardiologia
Ti potrebbe interessare anche:
- Infarto miocardico acuto: il “Sacro Cuore” tra i migliori d’Italia
- Il piccolo “proiettile” che fa battere il cuore
- Quando il cuore è a corto d’ossigeno
- Risonanza magnetia cardiaca: video-interviste sul convegno
- Un intervento per riparare la valavola aortica
- Giornata mondiale dell’ictus: lo stroke center del Sacro Cuore
Assistenza di qualità e attenzione agli ospiti: Casa Nogarè compie 21 anni

Il 14 giugno 1996 veniva inaugurata Casa “Fr. Pietro Nogarè”, completando così le strutture che compongono l’area socio-sanitaria della Cittadella della Carità di Negrar. Oggi la Casa ospita vari servizi, rivolti soprattutto agli anziani ma non solo
Era il 14 giugno 1996, esattamente 21 anni fa, quando alla Cittadella della Carità veniva inaugurata Casa “Fr. Pietro Nogarè”.Si andavano così a completare le strutture che ancora oggi compongono l’area socio-sanitaria della Cittadella: oltre a Casa Nogarè, infatti, erano già operative Casa “Fr. Francesco Perez” e Casa Clero (vedi articolo de “L’Amico” del 1996 relativo all’inaugurazione).
“Ricordo bene quando si decise la costruzione della nuova Casa – racconta fr. Mario Bonora, religioso dell’Opera Don Calabria, al tempo Presidente dell’ospedale di Negrar – era l’inizio degli anni Novanta e la Congregazione ci aveva chiesto di potenziare l’intervento socio-sanitario, in particolare a favore degli anziani, anche perché c’era l’esigenza di convertire alcuni posti letto ospedalieri in extraospedalieri per essere in linea con la programmazione sanitaria della Regione Veneto”. Nacque così un progetto ambizioso e lungimirante, che per molti aspetti fu un’esperienza pilota a livello veneto e nazionale per quanto riguarda l’integrazione tra ospedale e attività socio-sanitaria extraospedaliera. La Casa fu dedicata a fr. Pietro Nogarè, un religioso di don Calabria che aveva speso tanti anni di servizio alla Cittadella della Carità (vedi scheda su fr. Nogarè).
Oggi Casa “Fr. Pietro Nogarè” è una struttura residenziale autorizzata al funzionamento ed in possesso dell’accreditamento istituzionale, convenzionata con l’Azienda ULSS 9 di Verona (vedi foto). Comprende vari tipi di attività, che si rivolgono in maggioranza a persone anziane e in alcuni casi richiedono un alto impegno sanitario. In particolare ci sono un Centro di Servizi che ospita anziani autosufficienti con 26 posti letto; un Centro di Servizi per anziani non autosufficienti con 80 posti letto; una Residenza Sanitaria Assistenziale ad indirizzo Riabilitativo Funzionale, che ospita a tempo determinato persone che necessitano di alto impegno sanitario e riabilitativo con 55 posti letto; una Speciale Unità di Accoglienza Permanente “Stati Vegetativi Permanenti” con 12 posti letto (vedi articolo e video sul SUAP). Inoltre all’ultimo piano della Casa c’è una foresteria dedicata ai parenti provenienti da lontano che abbiano bisogno di una sistemazione temporanea per seguire i loro cari nel percorso di cura.
“Il valore aggiunto della nostra struttura è l’integrazione con gli altri servizi della Cittadella della Carità, compreso l’ospedale, e quindi la possibilità di offrire ai nostri ospiti la migliore continuità assistenziale”, dice Paolo Ferrari, direttore della Casa. “Altro aspetto importante è la presenza di una guardia medica h24, che rappresenta una garanzia di tempestività e qualità nell’assistenza”.
Ogni reparto di Casa Nogarè ha un medico responsabile e un coordinatore infermieristico per la presa in carico degli ospiti. Tra le altre professionalità presenti, oltre appunto ai medici ed infermieri, ci sono gli operatori socio-sanitari, i fisioterapisti, gli educatori, i volontari del Servizio civile nazionale ed europeo e gli assistenti sociali. “La qualità dell’assistenza per noi è molto importante, sia a livello sanitario sia a livello umano – dice la dottoressa Rosalba Dall’Olio, dirigente dei servizi socio-sanitari – per questo la nostra équipe multidisciplinare ha messo in campo molte iniziative volte non solo alla cura dei pazienti, ma anche per riattivare e valorizzare le loro potenzialità, cercando di promuovere una collaborazione virtuosa con le famiglie”.
Tra le iniziative portate avanti a Casa Nogarè ci sono numerosi momenti di animazione, con incontri comunitari nell’area del bar al piano terra che è utilizzato anche come zona ricreativa. Poi sono previsti laboratori di arteterapia e di artigianato con la produzione di oggetti che vengono venduti per beneficienza, realizzati in genere dagli ospiti autosufficienti del terzo piano. Nella Casa ci sono due palestre a disposizione dei degenti, al primo e secondo piano. Come nelle altre strutture della Cittadella, inoltre, anche a Casa Nogarè c’è un’assistenza religiosa continua, con la presenza di un cappellano e la celebrazione quotidiana delle Lodi mattutine, oltre alle S. Messe domenicali e nei momenti liturgici di maggior rilievo.
“Un progetto molto importante è quello sulle storie di vita degli ospiti – prosegue Dall’Olio -. Si tratta di un’attività con la quale gli educatori accompagnano gli anziani nel racconto delle loro esperienze passate, un racconto che poi in forma anonima viene pubblicato sul giornalino della nostra Casa. Conoscere la storia degli ospiti permette a loro di sentirsi valorizzati e agli operatori di prendersi cura meglio dei pazienti, in linea con l’obiettivo di fornire un’assistenza di qualità e il più possibile su misura per ogni singola persona che si rivolge a noii”.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Indagini e trattamenti mirati per l'ipertensione

All’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è attivo un ambulatorio dedicato e gestito dalla Medicina Generale che indaga le cause dell’ipertensione offrendo un trattamento personalizzato in base all’anamnesi e allo studio completo del paziente
E’ uno dei fattori di rischio più diffusi, e se non curata può portare a conseguenze anche gravi a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’encefalo, del sistema renale e visivo.
Stiamo parlando dell‘ipertensione arteriosa a cui, da circa 20 anni, l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria riserva un ambulatorio specialistico.
Se all’inizio era dedicato ai pazienti ipertesi (sistolica e diastolica rispettivamente superiori a 140 e 90) che venivano ricoverati, anche per altre patologie, e dimessi dalla Medicina Generale, con gli anni l‘ambulatorio, sempre tenuto dai medici del reparto di Medicina Generale, è stato aperto anche ai pazienti esterni, inviati dal territorio, o dal Pronto Soccorso, o da altri specialisti dell’ospedale.
“L’obiettivo è di offrire un trattamento personalizzato, in base a un’anamnesi e uno studio completo del paziente”, sottolinea il dottor Guido Arcaro, direttore della Medicina Generale.
La prima visita avviene presso l’ambulatorio divisionale dedicato. Ulteriori accertamenti possono essere invece effettuati in reparto. “Oltre al monitoraggio delle 24 ore della pressione – prosegue il medico – in reparto è possibile effettuare l’ecocolordoppler cardiaco, l’ecografia vascolare, l’Holter cardiaco, esami che ci consentono di eseguire una buona parte della ricerca del danno d’organo e di effettuare studi di fisiopatologia dell’ipertensione”.
Proprio l’ipertensione arteriosa nei suoi aspetti fisiopatologici e di studio delle complicanze cardio-vascolari è oggetto da anni dell’attività scientifica dell’Unità Operativa Complessa di Medicina Generale, in collaborazione con altri reparti dell’Ospedale e con Centri italiani ed esteri, studi che hanno dato vita a numerose pubblicazioni su riviste scientifiche.
“La decisione di intraprendere una terapia antiipertensiva – spiega il dottor Luca Scala, che assieme ai dottori Filippo Valbusa e Davide Agnoletti condivide la gestione dell’ambulatorio per l’ipertensione – si base sull’entità dei valori pressori, ma anche sulla presenza o meno di un danno agli organi bersaglio (cuore, arterie, occhio, rene), e dal risultato dello screening di altri fattori di rischio cardiovascolare, come diabete, ipercolesterolemia…“.
Circa il 95% degli ipertesi soffre di un’ipertensione essenziale, sostanzialmente su base genetica. L’altra piccola percentuale è affetta da ipertensione secondaria, generalmente dovuta ad un malfunzionamento ghiandolare (tiroide, surrene), che se curato comporta un miglioramento netto dei valori pressori. L’ipertensione essenziale, invece, viene trattata con i farmaci specifici, accompagnati da modificazioni di stile di vita.
“L’ipertensione può essere asintomatica – riprende il dottor Valbusa – o i sintomi avvertiti dal paziente possono non essere specifici: come alterazioni della vista, ‘cerchio alla testa’, stanchezza e affaticabilità. Tra i fattori che influenzano in modo determinante i valori pressori, va ricordata una diretta proporzione tra peso corporeo ed ipertensione. Inoltre una dieta ricca di sodio favorisce la pressione alta in quanto comporta ritenzione di liquidi. Un fattore di rischio è anche la vita sedentaria: un’attività aerobica costante aiuta a mantenere la pressione nei giusti limiti”.
Altro capitolo importante è l’ipertensione in gravidanza. “In collaborazione con i colleghi ginecologi – spiega il dottor Scala – seguiamo, ambulatorialmente o direttamente nel reparto di Ginecologia ed Ostetricia, le donne in gravidanza che già soffrivano di pressione alta o con ipertensione insorta durate la gravidanza stessa. La presa in carico continua anche dopo il parto, e durante il periodo di allattamento. Sappiamo quanto sia importante monitorare la pressione durante la gestazione per prevenire l’insorgenza di preeclampsia, pericolosa sia per la vita della mamma che del nascituro”.
L’ambulatorio per l’ipertensione arteriosa è collocato nell’area dei Poliambulatori di Casa Nogarè e si tiene ogni giovedì. Per informazioni e prenotazioni (con impegnativa): 045.6013257.
elena.zuppini@sacrocuore.it
(Nella foto: da sinistra il dottori Luca Scala, Filippo Valbusa, Davide Agnoletti e Guido Arcaro)
Al "Sacro Cuore" il test genetico per la prevenzione dei tumori ereditari femminili

L’Anatomia Patologica effettua il test, dopo consulenza genetica, per la ricerca delle mutazioni a carico dei due principali geni coinvolti nelle forme ereditarie dei tumori al seno e alle ovaie, BRCA1 e BRCA2: un potente strumento preventivo
L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar offre un ulteriore servizio alle donne affette da tumore al seno e all’ovaio. Recentemente l’Anatomia Patologica ha avviato il test per la ricerca delle mutazioni a carico dei due principali geni coinvolti nell’ereditarietà dei tumori al seno e alle ovaie, BRCA1 e BRCA2, che il grande pubblico ha imparato a conoscere dopo la vicenda di Angelina Jolie.
L’attrice americana avendo scoperto di essere portatrice di questa mutazione, si è sottoposta all’asportazione delle tube e delle ovaie e a mastectomia bilaterale, pur essendo sana, per ridurre drasticamente il rischio di ammalarsi di cancro in quelle sedi come è avvenuto per alcune donne della sua famiglia (vedi anche articolo).
Infatti per le donne portatrici di una mutazione ereditaria dei geni BRCA1 e/o BRCA2, il rischio di ammalarsi di carcinoma mammario durante la vita è del 50-80%, e del 20-40% per il carcinoma ovarico a seconda dei casi.
Da circa due anni all’ospedale di Negrar è attivo un Servizio di consulenza genetica in oncologia che identifica le pazienti e le donne ad aumentato rischio di mutazione, ma fino allo scorso aprile l’esame genetico del campione di sangue delle donne con sospetta mutazione veniva effettuata all’Istituto Oncologico Veneto di Padova.
“Con l’acquisizione di tecnologie di sequenziamento del DNA di nuova generazione (definite Next Generation Sequencing-NGS) ora il test viene realizzato in ospedale – sottolinea il professor Giuseppe Zamboni (nella foto con l’équipe), direttore dell’Anatomia Patologica -. Offriamo così alle pazienti la possibilità di conoscere il risultato in poche settimane. Un vantaggio che permette così di pianificare in breve tempo con il medico di riferimento il percorso più adeguato (terapeutico o preventivo) e di estendere l’indagine genetica anche alle parenti più prossime” (per ogni informazione numero verde del Cancer Care Center 800143143).
Ma per chi è indicato questo test?
Solo il 5-10% delle neoplasie al seno sono di carattere ereditario. Di queste il 50% presenta una mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2. I tumori ovarici ereditari sono circa il 10-20% e la maggior parte di essi presenta questa mutazione genetica.
“Di fronte a queste statistiche non avrebbe senso sottoporre l’intera popolazione femminile al test – sottolinea il professor Zamboni -. Diventa invece importantissimo offrire l’esame a tutte le donne che appartengono per storia familiare e personale a categorie ad elevato rischio, in quanto esso rappresenta un potentissimo strumento di prevenzione. Scoprire che una donna è mutata significa anche iniziare un attento controllo nelle sue figlie, sorelle e nipoti e permettere quindi in queste una diagnosi precoce di tumore mammario oppure evitar loro, con adeguati interventi chirurgici, di ammalarsi di carcinoma ovarico”.
Ma quali donne appartengono alle categorie a rischio?
Nelle pazienti con diagnosi di carcinoma mammario il test genetico viene proposto valutando diverse caratteristiche personali e familiari: numero di persone in famiglia affette da neoplasia mammaria, l’età all’esordio del tumore, la frequenza di neoplasia mammaria bilaterale, la associazione con il carcinoma ovarico, la presenza di casi carcinoma mammario maschile.
Per quanto riguarda il carcinoma ovarico, invece, è consigliabile considerare l’invio al test BRCA sin dal momento della diagnosi per tutte le pazienti con carcinoma epiteliale ovarico di alto grado, con carcinoma delle tube di Fallopio e con carcinoma peritoneale primitivo. Questo non solo per valutare la predisposizione a sviluppare malattia nei familiari sani ma soprattutto per un eventuale utilizzo terapeutico di peculiari farmaci per cui la mutazione BRCA rappresenta un fattore predittivo di risposta al trattamento.
“Nel nostro ospedale è l’oncologo insieme al genetista oncologo a consegnare il referto – precisa la dottoressa Stefania Gori, direttore dell’Oncologia Medica (nella foto) – perché il risultato deve essere interpretato nel suo esatto significato. Avere una mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2 significa avere un’elevata possibilità di ammalarsi durante il corso della vita, ma non la certezza di ammalarsi. Ciò che si eredita è il rischio, non il tumore. Infatti – prosegue – il rischio di contrarre la patologia è determinato sì dalla presenza di una delle due copie del gene mutato, ma la malattia tumorale non si sviluppa fino a quando, nel corso della vita, non si verifica un’altra mutazione nella copia normale del gene: ecco perché non tutte le donne mutate sviluppano un tumore”.
Come, sottolinea il professor Zamboni, “il test diventa quindi non solo un mezzo di prevenzione, ma anche un’opportunità per escludere preoccupazioni inutili per i familiari che non risultano portatori della mutazione ereditaria”.
Cosa succede se il test identifica la mutazione genetica?
“Le pazienti con diagnosi di carcinoma mammario e/o ovarico –risponde la dottoressa Gori – sono valutate nell’ambito dei Gruppi multidisciplinari di patologia senologica e ginecologica, al fine di proporre trattamenti adeguati e personalizzati condivisi con la paziente stessa. Le donne sane nelle quali viene identificata una mutazione sono valutate per iniziare percorsi di sorveglianza o di chirurgia profilattica”.
I Gruppi multidisciplinari sono composti da specialisti in Oncologia, Radiologia, Ginecologia, Medicina Nucleare, Anatomia Patologica, Radiologia, Radioterapia, Chirurgia Generale, Chirurgia Senologia, Chirurgia Plastica, Urologia, Medicina Generale e Psiconcologia.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Nella foto di copertina lo staff del Laboratorio di Biologia Molecolare dell’Anatomia Patologica: le patologhe Anna Pesci e Laura Bortesi, il professor Zamboni, la tecnica di Laboratorio Marcella Marconi, il biologo Giulio Settanni e le tecniche di Laboratorio Silvia Sandrini e Sara Lonardi