Per togliere il "tappo al naso" ci vuole un po' di calore

L’Orl di Negrar vanta una delle più ampie casistiche italiane sulla chirurgia mini-invasiva dei turbinati, i “filtri del naso” che quando si gonfiano cronicamente creano difficoltà respiratorie
E’ uno dei sintomi più fastidiosi che si presentano quando ci aggredisce un raffreddore o una crisi allergica: il naso si chiude improvvisamente e soprattutto durante la notte respirare diventa una fatica.
I responsabili di questo “tappo al naso” sono molto spesso i turbinati (Photo Gallery 1), strutture spugnose all’interno delle cavità nasali, in grado di gonfiarsi e sgonfiarsi fisiologicamente regolando finemente il flusso d’aria e di proteggere i nostri polmoni dall’infiltrarsi di batteri o inquinanti.
Non di rado a causa di ripetuti raffreddori, di crisi allergiche o per esposizione lavorativa a fumi o polveri sottili, l’ipertrofia dei turbinati si trasforma in una condizione cronica.
All’inizio l’ostruzione del naso avviene in maniera incostante, poi sempre più continua peggiorando notevolmente la sera, al momento di coricarsi poiché la posizione supina favorisce un ristagno di sangue nei turbinati che si gonfiano a dismisura.
Gli spray decongestionanti se all’inizio danno un immediato sollievo, a lungo andare hanno un effetto di durata sempre più breve e, a fronte di un uso eccessivo, provocano una ostruzione stabile.
L’ipertrofia dei turbinati può essere affrontata chirurgicamente. Nel corso del tempo si è passati dall’asportazione dei “filtri nasali” (anni Settanta) a un intervento di riduzione, la cosiddetta turbinoplastica. Quest’ultima veniva praticata in forma classica con la resezione di una parte del turbinato, poi si è passati alla chirurgia a radiofrequenze e recentemente alla risonanza quantica molecolare, con l’uso di apparecchiature tecnologicamente più avanzate.
Dal 2003 allo scorso anno, l‘Unità operativa di Otorinolaringoiatria dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Sergio Albanese, ha svolto 2.869 interventi di chirurgia dei turbinati, registrando una delle casistiche più ampie d’Italia. (foto équipe)
“La turbinoplastica con radiofrequenza e con risonanza quantica molecolare sono interventi mini-invasivi (Photo Gallery 2) che consentono in day hospital, senza ricorrere all’anestesia generale e ai tamponi nasali, di risolvere problemi di respirazione dovuti all’ipertrofia dei turbinati“, spiega il dottor Albanese.
“Entrambe le tecniche si servono di un elettrodo che viene introdotto all’interno del turbinato e si basano sulla denaturazione termica del fibrogeno che si trasforma in fibrina dando via al processo di coagulazione del sangue e quindi alla riduzione del volume del turbinato. A differenza della turbinoplastica a radiofrequenze, la risonanza quantica molecolare sottopone i turbinati a temperature inferiori scindendo i legami molecolari in modo atermico, per cui gli effetti collaterali del riscaldamento (edema, iperemia e necrosi tessutale) sono marcatamente ridotti“, sottolinea il dottor Alberto Fraccaroli, responsabile dell’Orl pediatrica.
L’intervento ha una durata di circa 20 minuti e viene effettuato in anestesia generale solo per i bambini. “All’inizio per gli adulti somministravamo per via endovenosa il Paracetamolo combinato con il Tramadolo, ma li abbiamo sospesi perché i pazienti lamentavano nausea – prosegue il dottor Albanese -. Pertanto abbiamo optato per la Petidina, che ha il grande vantaggio di ridurre in modo consistente il dolore medio-alto”. Il paziente può lasciare l’ospedale poche ore dopo l’intervento e riprendere le normali attività quotidiane nei giorni immediatamente seguenti.
“L’intervento dà risultati eccellenti – sottolinea il dottor Fraccaroli -. Abbiamo effettuato uno studio sui pazienti sottoposti a turbinoplastica a radiofrequenze: il 70% è ritornato a respirare bene. La percentuale sale all’80% con la risonanza quantica molecolare”.
Non rimuovendo le cause dell’ipertrofia, l’intervento non garantisce un risultato definitivo. “La nostra casistica rileva che nel 33% dei casi si verificano delle recidive a distanza in media di quattro anni – precisa di direttore dell’Orl -. Ma abbiamo il vantaggio che l’intervento può essere ripetuto più volte senza che venga danneggiato il tessuto“.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Da temere è il morbillo non il vaccino

Cala la copertura vaccinale e inevitabilmente aumentano i casi di morbillo, una malattia infettiva che può avere gravi complicanze come la polmonite interstiziale e l’encefalite. Ecco perché è doveroso sottoporre i bambini alla vaccinazione
I numeri parlano da soli. Nei primi mesi del 2017 sono stati registrati in Italia la quasi totalità dei casi di morbillo rilevati durante tutto il 2016. Lo scorso anno sono state infatti 884 le persone che si sono ammalate, più di 700 quelle che invece si sono infettate da gennaio a marzo, con un incremento del 230% nel primo trimestre di quest’anno.
Un gigantesco passo indietro sulla strada della scomparsa nel nostro Paese di un virus che nel mondo, là dove non viene praticata la vaccinazione di massa, provoca ancora 158mila morti all’anno.
“E’ l’inevitabile conseguenza del calo della copertura vaccinale”, afferma il dottor Antonio Deganello (nella foto), direttore della Pediatria dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, dove nel corso del 2017 sono stati ricoverati due bambini per morbillo. “Quando ci si allontana dalla percentuale del 95% che garantisce la non circolazione del virus proteggendo anche coloro che non possono vaccinarsi, le infezioni aumentano. Soprattutto se si tratta di un virus altamente contagioso come quello del morbillo”. Da quel 95% l’Italia si è allontanata di molto toccando nel 2015 la media, secondo l’Istituto superiore della Sanità, dell’82,29%. Oggi sono in atto campagne d’informazione, con l’obiettivo di contrastare un’ideologia anti-vaccini priva di qualsiasi base scientifica e ricca di leggende metropolitane. La bufala più grande finora diffusa è la correlazione tra il vaccino trivalente o Mpr (Morbillo, Parotite e Rosolia) e l’autismo.
Un falso scientifico che ha origine da uno studio inglese pubblicato nel 1998 sulla prestigiosa rivista medica “The Lancet”. L’ipotesi emersa è stata successivamente valutata da numerosi studi in Europa e negli Stati Uniti, nessuno dei quali ha confermato un rapporto di causa-effetto tra il vaccino Mpr e l’autismo, tanto che la rivista “The Lancet” ha ritirato lo studio nel 2010 scusandosi per l’abbaglio. La ricerca non solo presentava errori di natura epidemiologica, ma è stato provato che uno degli autori, Andrew Wakefield, aveva falsificato la storia medica dei pazienti per supportare i dati e che l’intero studio era stato alterato per interessi economici. Wakefield è stato radiato dall’Ordine dei medici inglesi, ma un documentario che lo vede protagonista viene ancora proiettato creando danni enormi.
“Grazie ai vaccini abbiamo dimenticato le malattie che i vaccini stessi hanno fatto scomparire e insieme ad esse anche le gravi complicanze di queste patologie – prosegue il dottor Deganello -. E’ legittimo e doveroso che i genitori s’informino prima di sottoporre il loro figlio ad un atto medico. Ma devono farlo attraverso i giusti canali: rivolgendosi al pediatra di fiducia e consultando sul web i siti di realtà scientifiche credibili“.
Dottor Deganello, cos’è il morbillo?
E’ forse la malattia infettiva più contagiosa, tra tutte le malattie infettive cosiddette infantili. Colpisce in genere i bambini tra 1 e 3 anni. La sua alta trasmissibilità è dovuta al fatto che il contagio avviene per via aerea, tramite le goccioline respiratorie che si diffondono nell’aria quando il malato tossisce o starnutisce.
Quali sono i sintomi?
La malattia esordisce in genere come un raffreddore (tosse, catarro, starnuti) a cui si aggiunge la febbre che può raggiungere anche il 40°. Può presentarsi anche una congiuntivite, con occhi rossi e lacrimanti e naturalmente l’esantema maculo-papulare, i classici puntini rosso vivo, prima dietro le orecchie e sul viso e poi su tutto il resto del corpo. La malattia persiste tra i 10 e i 20 giorni.
Quando sorgono questi sintomi è necessario portare il bambino in ospedale o è possibile curarlo anche a casa? Ci sono farmaci specifici da somministrare?
Il bambino può essere curato anche a domicilio isolandolo da eventuali familiari che non hanno passato il morbillo. Non ci sono farmaci specifici, ma solo sintomatici, come gli antipiretici per far abbassare la febbre”.
Quali sono le complicanze?
Si va dalla bronchite alla polmonite fino alla polmonite interstiziale. Si tratta di una polmonite che colpisce l’interstizio, cioè il tessuto di rivestimento degli alveoli polmonari. La polmonite interstiziale può presentarsi nel 6% dei casi di morbillo, ma il 15% può avere esiti mortali. La complicanza più grave resta l’encefalite, l’infiammazione dell’encefalo. L’incidenza dell’encefalite è un caso ogni mille di morbillo, ma nel 15% dei casi comporta delle sequele neurologiche e può portare anche alla morte.
A quale età si devono vaccinare i bambini?
Il vaccino viene somministrato tramite un’iniezione sul deltoide o sulla coscia tra i 12 e i 15 mesi di vita, insieme al vaccino anti rosolia e parotite (trivalente). E’ un vaccino molto efficace e già alla prima somministrazione ha un’ottima copertura. Tuttavia è consigliabile il richiamo dopo dieci anni.
Anche gli adulti si possono vaccinare?
Certamente. Il vaccino è altamente consigliabile anche per gli adulti che non hanno potuto (perché il vaccino non era ancora in commercio) o non hanno voluto vaccinarsi in passato. Le complicanze della malattia sono le stesse sia per i bambini sia per gli adulti. Naturalmente parliamo di adulti che non sono mai stati contagiati, chi ha già passato la malattia è immune”.
Il vaccino dà effetti collaterali?
Essendo realizzato con un virus vivo attenuato può avere effetti imprevisti. Tuttavia per gravità e per frequenza, le complicanze sono trascurabili rispetto ai vantaggi dati dal vaccino”.
I genitori che non sottopongono i figli alla vaccinazione oltre a manifestare timori verso il vaccino, si giustificano dicendo che da bambini si sono ammalati ed è stata una banale malattia infettiva…
“La loro esperienza può anche essere vera, ma non viene meno la realtà dei fatti: le complicanze gravi del morbillo, come di altre malattie per cui anni fa non c’erano i vaccini, sono le stesse oggi come 30 anni fa. Io ero già un pediatra quando non era stato ancora introdotto il vaccino anti-morbillo e ho visto tante polmoniti interstiziali ed encefaliti. E purtroppo anche decessi”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Un decalogo per riconoscere le malattie reumatiche ai primi sintomi

Sabato 8 aprile si terrà al “Sacro Cuore” il X Simposio di Reumatologia della Valpolicella. Sotto la lente di ingrandimento alcune delle più diffuse malattie reumatiche per le quali rimane fondamentale un trattamento precoce e mirata
Sono circa 150, dai nomi più disparati e occupano il secondo posto, dopo le malattie cardiovascolari, quali causa di invalidità. Sono le malattie reumatiche di cui in Italia soffrono oltre 5 milioni e mezzo di persone e più di 300 milioni nel mondo. Nel nostro Paese circa il 27% delle pensioni di invalidità è dovuto a queste malattie.
Proprio alle più comuni di queste patologie è dedicato il X Seminario di Reumatologia della Valpolicella (in allegato il programma), promosso dal Servizio di Reumatologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di cui è responsabile il dottor Antonio Marchetta.(foto nella Gallery)
L’incontro si terrà sabato 8 aprile a partire dalle 8.30 nella sala convegni “Fr. Perez” ed è rivolto in particolare ai medici di medicina generale, primi interlocutori dei pazienti quando insorgono i sintomi.
“Faremo il punto sugli straordinari progressi che la Reumatologia ha fatto nell’ultimo decennio – afferma il dottor Marchetta – Sia nell’ambito diagnostico ma soprattutto in quello terapeutico con l’avvento di nuovi e rivoluzionari farmaci (i biotecnologici) che hanno radicalmente modificato la prognosi delle malattie reumatiche e cambiato in meglio la qualità della vita dei pazienti”.
Il simposio si soffermerà in particolare sull’osteoporosi, l’osteoartrosi, la gotta e l’iperuricemia, infine la polimialgia reumatica. Interverranno come relatori i reumatologi (tra cui Leonardo Punzi, titolare della cattedra di Reumatologia dell’Università di Padova), immunologi, fisiatri e gli stessi medici di medicina generale.
Quelle reumatiche si possono distinguere in patologie di tipo degenerativo (come l’artrosi), infiammatorio (per esempio l’artrite reumatoide o quella psoriasica) o dismetabolico, cioè legate a disturbi metabolici (acido urico, diabete, dislipidemia, obesità). Poi vi è un capitolo importante delle connettiviti (Lupus erimatoso sistemico, sclerodermia, sindrome di Sjogren) e delle vasculiti sistemiche.
Un aspetto fondamentale da sottolineare è che le malattie reumatiche non sono esclusivamente patologie delle ossa e delle articolazioni, ma possono frequentemente interessare tutti gli organi e gli apparati (pelle, cuore, reni, polmoni, sistema nervoso cemtrale e periferico, sistema circolatorio, occhi…). Hanno tutte in comune un andamento evolutivo cronico e possono comparire a qualunque età.
Ma come riconoscere i primi sintomi delle malattie reumatiche?Ecco il decalogo della Società italiana di Reumatologia, uno strumento concreto per arrivare a una diagnosi precoce di queste patologie che, se non curate, possono portare progressivamente all’invalidità.
- Dolore e gonfiore alle articolazioni delle mani e/o dei polsi che persiste più di tre settimane
- Rigidità articolare che dura da più di un’ora al mattino, dopo il risveglio
- Gonfiore improvviso, associato o meno a dolore ed arrossamento locale, di una o più articolazioni in assenza di trauma
- Nel giovane: dolore di tipo sciatico fino al ginocchio che va e viene, cambiando anche di lato, che aumenta durante il riposo notturno e si attenua con l’attività fisica.
- Sbiancamento delle dita delle mani all’esposizione al freddo o per variazioni climatiche o per emozioni.
- Sensazione di secchezza o di sabbia negli occhi, associata a secchezza della bocca e a dolori articolari o muscolari.
- Arrossamento al viso, sul naso e guance o attorno agli occhi, che peggiora con l’esposizione solare anche lieve e associato a dolori articolari.
- Nelle persone che hanno oltre 50 anni: improvvisa comparsa di dolore ad entrambe le spalle, con impossibilità di pettinarsi o allacciarsi il reggiseno e anche con difficoltà ad alzarsi da una poltrona, specie se accompagnato da mal di testa e calo di peso.
- Nella donna in post-menopausa o nel paziente che assume cortisone: dolore improvviso alla schiena particolarmente dopo uno sforzo o un sollevamento di peso.
- Nei soggetti affetti da psoriasi o con familiari affetti dalla stessa malattia: comparsa di dolore alle articolazioni o alla colonna vertebrale o al tallone.
La salute del nostro cuore vien mangiando... bene

Il professor Enrico Barbieri, direttore della Cardiologia del “Sacro Cuore Don Calabria”, spiega perché è importante per la salute del cuore inserire nella nostra dieta determinati alimenti che hanno la proprietà di proteggere le nostre arterie.
Le malattie cardiovascolari sono la principale causa di morte in Italia, essendo responsabili del 44% di tutti i decessi. Sono chiamate le “patologie del benessere”, perché hanno una notevole incidenza nei Paesi ad alto tenore di vita.
Quindi un’alimentazione ricca di grassi saturi e di zuccheri, il fumo e uno stile di vita in cui la sedentarietà e lo stress hanno un ruolo non marginale, sono gli alleati principali per fare ammalare il cuore.
La prevenzione delle malattie cardiovascolari inizia dallo stile di vita e dalla tavola. In quali alimenti si celano i grassi saturi? Perché la frutta e la verdura ma anche il cioccolato proteggono il cuore? Qual è il valore ottimale del colesterolo e il livello del famigerato LDL dipende sempre da cosa si mangia? Infine le statine si possono assumere senza temere effetti collaterali?
A tutte queste domande risponde il professor Enrico Barbieri, direttore della Cardiologia del “Sacro Cuore Don Calabria”, ospite della trasmissione di Telepace “Il medico a casa tua”.
"Cotti in fragranza": arrivano al Sacro Cuore i biscotti "anti-mafia"

I frollini “Buonicore”, ora in vendita al bar dell’ospedale, sono realizzati dai ragazzi detenuti nel carcere minorile di Palermo, nell’ambito di un progetto ideato dall’Opera Don Calabria e sostenuto dall’Associazione Nazionale Magistrati
Buccia di mandarino di Ciaculli proveniente da un terreno confiscato alla mafia, farina bio molita a pietra, latte e burro a chilometri 0, zucchero integrale di canna Muscovado, lievito biologico… Sono gli ingredienti di alta qualità dei biscotti Buonicore, un frollino secco tipico della tradizione siciliana. Ma soprattutto, da alcuni mesi questi sono gli ingredienti che stanno cambiando la vita a un gruppo di ragazzi detenuti nel carcere minorile di Palermo (vedi foto). Tutto grazie al progetto “Cotti in fragranza”, nato nell’area sociale dell’Opera Don Calabria e realizzato attraverso la cooperativa sociale Rigenerazioni Onlus, con la collaborazione dell’Associazione Nazionale Magistrati di Palermo, che ha donato il forno, e della Fondazione San Zeno (vedi sito del progetto).
Ora i biscotti Buonicore sono in vendita anche al bar dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, dopo che durante le festività natalizie sono stati donati a tutto il personale ospedaliero. Si tratta di un gesto di solidarietà e vicinanza per un progetto “buono” in tutti i sensi, nel quale l’Opera calabriana si propone di promuovere un riscatto sociale che passa dalla formazione, dal lavoro di qualità e dall’attenzione alla persona: valori che valgono tanto per le attività sociali quanto per quelle sanitarie gestite dalla Congregazione (vedi scheda sull’area sociale dell’Opera Don Calabria).
L’idea di partenza del progetto “Cotti in fragranza” è anche una sfida. È possibile impiantare un’impresa dentro un carcere minorile, insegnare ai ragazzi un mestiere, pagare gli stipendi e fare un prodotto di qualità che permetta di stare sul mercato?
Al momento i risultati sono sbalorditivi. Il laboratorio di pasticceria è stato inaugurato dentro il carcere minorile Malaspina di Palermo nel settembre 2016 e ad oggi vi lavorano cinque ragazzi detenuti, assunti dopo essersi specializzati con un corso di formazione professionale in carcere. Ogni mattina escono dalla cella, percorrono i trenta metri per arrivare al laboratorio e iniziano il loro turno di 7 ore di lavoro. A guidarli c’è Nicola, un abile maestro pasticcere che con la sua professionalità è anche un vero e proprio educatore (all’inaugurazione era presente anche il presidente del Senato on. Pietro Grasso).
Attualmente il forno produce circa 300kg di biscotti al mandarino ogni settimana e di fatto l’intera produzione viene venduta. La start-up “calabriana” ha sviluppato accordi commerciali con vari locali e punti vendita anche prestigiosi. Da alcuni mesi, inoltre, è partito un importante accordo con Conad che sta distribuendo i biscotti nei suoi megastore in Sicilia, con la prospettiva di estendere l’offerta a livello nazionale.
“L’obiettivo principale del progetto è riempire la pena dei ragazzi, cioè fare in modo che quando usciranno abbiano imparato un mestiere vero e possano quindi avere una possibilità concreta di scegliere una vita onesta”, dice Alessandro Padovani, responsabile dell’area sociale dell’Opera calabriana in Europa. “Questa è un’attività vera – aggiunge – ed è anche per questo che i ragazzi seguono insieme a noi tutte le fasi del lavoro, compresi gli accordi commerciali e i rapporti con i clienti. L’idea è che l’impresa stia in piedi perché lavora bene e non perché la gente fa beneficienza”.
Una storia, quella di “Cotti in fragranza”, che è l’intreccio di tante storie. Per prima cosa ci sono i mandarini, anzi le bucce di mandarino di Ciaculli, che arrivano da un terreno confiscato alla mafia, grazie a un accordo con l’associazione Jus Vitae che su quel terreno ha realizzato un fattoria didattica. Poi c’è Nicola, il pasticcere-educatore del laboratorio. Da qualche anno è sulla sedia a rotelle a causa di un incidente che lo ha allontanato dal suo bar pasticceria. Le vie della Provvidenza lo hanno portato a insegnare in un corso promosso dall’Inail nella comunità per tossicodipendenti gestita a Trabia dall’Opera Don Calabria. Da qui il salto per il laboratorio di “Cotti in fragranza” è stato breve. Infine ci sono loro, i giovani pasticceri detenuti. Ci sono le loro storie di ragazzi che stanno imparando un mestiere per il “dopo”. Qualcuno ha già figli e con lo stipendio guadagnato può pagare l’asilo per loro. Piccole grandi conquiste che fanno intravedere una vita diversa, una possibilità di riscatto.
“Visto il successo di questi primi mesi abbiamo in mente alcune idee per ampliare il progetto – prosegue Padovani – In particolare stiamo progettando di realizzare un laboratorio esterno al carcere, con l’idea di aumentare la produzione e permettere a qualche ragazzo di uscire dal carcere per il tempo del lavoro, naturalmente se verranno accordati i permessi dal giudice”. In questo modo sarà possibile vendere direttamente i biscotti al pubblico, cosa attualmente impossibile in carcere. Inoltre si sta progettando il lancio di nuovi prodotti di pasticceria dolce e salata.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
La Chirurgia mini-invasiva che libera le "gambe" dall'endometriosi

Il “Sacro Cuore” è uno dei pochi centri a livello internazionale ad effettuare interventi di neurochirurgia laparoscopica dell’endometriosi, malattia per cui il 25 marzo ricorre la quarta Giornata mondiale di sensibilizzazione
Il dolore alla gamba spesso è insopportabile, nemmeno i farmaci riescono a controllarlo. Sembra una sciatalgia che si acuisce durante il ciclo mestruale, talmente forte da impedire di guidare l’auto o da rendere necessario l’uso della stampella.
Sono i racconti di molte donne che giungono all’Unità operativa di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Marcello Ceccaroni (foto), dopo essere state rimpallate da medico a medico per un problema dai falsi connotati ortopedici, non sapendo invece che il loro calvario era causato dall’endometriosi, patologia ginecologica di cui il 25 marzo ricorre la quarta Giornata mondiale di sensibilizzazione.
Quello di Negrar è un Centro di riferimento internazionale per la cura dell’endometriosi e primo Centro al mondo per numero di interventi chirurgici per endometriosi severa (cioè con la resezione dei legamenti uterini, dell’intestino o della vescica), circa 1.500 all’anno. (vedi articolo e video)
Le pazienti con problemi agli arti inferiori sono fortunatamente una piccola percentuale dei 3 milioni di donne che in Italia soffrono di endometriosi, 175 milioni nel mondo, con un’incidenza pari a quella del diabete.
Per loro l’endometrio (cioè il tessuto che si sfalda durante la mestruazione e che ha come sede naturale l’utero) non ha invaso solo le ovaie, le tube, l’intestino o l’apparato urinario, ma preme sui nervi che hanno origine nella parte terminale della colonna vertebrale, come il nervo sciatico, il plesso sacrale o il nervo pudendo, causando dolore e per questo una limitata mobilità dell’arto inferiore.
“Seguendo gli insegnamenti del professor Marc Possover, pioniere di queste tecniche, sette anni fa abbiamo iniziato i primi interventi di neurochirurgia laparoscopica dell’endometriosi e a breve pubblicheremo i risultati di uno studio scientifico che ha coinvolto 300 pazienti – spiega il dottor Ceccaroni -. Insieme al suo centro di Zurigo, siamo uno dei pochissimi centri al mondo a praticare questi interventi con tecniche mini-invasive. In genere questo tipo di chirurgia è tradizionalmente affrontata dal neurochirurgo ma con metodi non laparoscopici e senza curare contestualmente anche l’endometriosi infiltrante gli organi pelvici circostanti. A questo si aggiunge che sono pochissimi i centri al mondo, dove il neurochirurgo opera i nervi periferici e ancora meno quelli che si occupano dei nervi della pelvi. L’esperienza acquisita nel tempo a Negrar, riguardo la diagnosi e la cura dell’endometriosi, è stata arricchita dall’approfondimento della neuroanatomia pelvica, per cui il nostro è riconosciuto, come uno dei centri di eccellenza, che è stato in grado di trasformare il vecchio concetto di ‘anatomia chirurgica’ in quello più moderno di ‘chirurgia anatomica'”.
Dallo studio è emerso che esistono una serie di patologie infiltranti che creano una distorsione dei tessuti della pelvi. “L’effetto è quello di una colata di colla che si indurisce”, semplifica il primario. Oltre all’endometriosi, che rappresenta circa l’80% delle pazienti sintomatiche, a Negrar abbiamo operato anche donne con esiti da trattamento di radioterapia per tumore al retto o affette da alcuni tumori dei nervi periferici, considerate non operabili in altri ospedali. Alcune pazienti erano affette da malformazioni vascolari che intrappolano il nervo, dando vita alla cosiddetta sindrome del muscolo piriforme. E’ una tecnica che noi abbiamo iniziato ad applicare per l’endometriosi, ma che si è verificata valida anche per altre problematiche”.
La neurochirurgia laparoscopica dell’endometriosi prevede due tipi di intervento. “In genere procediamo con una decompressione nervosa laparascopica che mettiamo in atto quando il nervo viene compresso da un nodulo endometriosico – spiega Ceccaroni -. Se invece il nervo è anche infiltrato dal tessuto effettuiamo la neurolisi, una sorta di pulizia profonda del nervo stesso”.
I risultati sono sorprendenti: “Già dal giorno seguente all’intervento la paziente avverte di aver migliorato la mobilità dell’arto. Per alcune è necessario un lungo percorso riabilitativo, con fisiatri, fisioterapisti e terapisti del dolore, per restituire al muscolo il ripristino della sua forza e del suo tono e alla gamba la sua funzionalità“.
Nonostante siano interventi complessi, le complicanze sono trascurabili rispetto ai vantaggi: solo il 25% sviluppa una neurite (infiammazione del nervo), ma è un problema che si risolve in poco tempo, con le adeguate terapie. D’altro canto, l’aggravamento della patologia ed il suo progredire, possono in alcuni casi determinare lesioni irreversibili che portano alla perdita dell’uso di un arto inferiore o dolori cronici invalidanti, refrattari a qualsiasi tipo di terapia “.
Mentre il tasso di recidiva è del 7% , lo stesso per qualsiasi intervento di endometriosi. “Non è detto che la malattia si ripresenti a livello dei nervi – chiarisce il medico – E non è neppure automatico che si debba procedere dopo anni con un altro intervento. In molti casi l’endometriosi è curabile farmacologicamente, con una terapia ormonale”.
(Potrebbe interessare:”Il calore che cura l’adenomiosi“)
elena.zuppini@sacrocuore.it
La tubercolosi al tempo dei grandi flussi migratori

Venerdì 24 marzo si celebra la Giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi che ancora oggi miete quasi due milioni di vittime all’anno. Una malattia contro la quale è impegnato in prima linea anche il Centro per le Malattie Tropicali di Negrar
Esiste un rischio che la tubercolosi torni a diffondersi in Italia dopo oltre 60 anni in cui la sua incidenza è costantemente calata? Quali sono i legami tra questa malattia e l’aumento dei migranti che percorrono la rotta del Mediterraneo? E ancora: sono giustificati gli allarmismi che di tanto in tanto rimbalzano sui media per la scoperta di qualche nuovo caso di TB? L’occasione per fare il punto della situazione è la giornata mondiale contro questa malattia, che si celebra venerdì 24 marzo.
La tubercolosi è tuttora considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno dei “big killer”, ovvero una delle malattie che fanno più vittime al mondo. Secondo le stime dell’OMS, nel 2015 più di dieci milioni di persone si sono ammalate, mentre quasi due milioni sono morte di TB, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo in Asia e Africa. In Italia i dati parlano di 3700 nuovi casi notificati, vale a dire una media di dieci al giorno, con oltre 350 decessi. Alcuni casi di tubercolosi sono trattati anche al Sacro Cuore presso il Centro per le Malattie Tropicali, dove nel 2016 ci sono stati 38 ricoveri per questa patologia.
“L’Italia è fra i Paesi a più bassa incidenza di TB, con circa 5 casi ogni 100mila abitanti – dice la dottoressa Paola Rodari (vedi foto), medico infettivologo e ricercatrice presso il CMT, diretto dal dottor Zeno Bisoffi – Le diagnosi di TB sono equamente distribuite tra i migranti e gli italiani. Nel primo caso si tratta di persone che hanno contratto l’infezione nel loro Paese di origine e che sviluppano la malattia da noi, anche a causa dello sradicamento sociale a cui sono sottoposte; tra gli italiani si ammalano soprattutto gli anziani, che sono entrati in contatto con i micobatteri quando erano giovani e ora sviluppano la malattia perché le difese immunitarie tendono ad indebolirsi con l’avanzare dell’età”.
Le possibilità che la tubercolosi possa diffondersi di pari passo con l’aumento dei migranti sono invece considerate molto basse. “La TB può interessare qualsiasi organo, ma è contagiosa solo se sono colpiti i polmoni – prosegue Rodari – tuttavia, anche in questo caso, il contagio può avvenire solo a seguito di un contatto stretto con una persona malata, come condividere una stanza non ventilata per almeno 8 ore. Tra l’altro già negli scorsi anni sono stati pubblicati in Europa degli studi che dimostrano che i ceppi di micobatteri che causano la malattia nella popolazione locale sono diversi da quelli dei migranti, a conferma del fatto che spesso la paura di alcune malattie non ha un fondamento logico”.
In realtà solo il 10% delle persone che contraggono l’infezione tubercolare sviluppano la malattia attiva nel corso della vita. Il restante 90% non ha nessun sintomo e non è contagioso. In entrambi i casi, infezione latente o malattia attiva, risulta comunque fondamentale una diagnosi precoce, in quanto esistono trattamenti che permettono di curare e tenere sotto controllo la TB. Per questo si dovrebbe attuare una politica di screening capillare sulla popolazione a rischio, a cominciare dai migranti richiedenti asilo, che al loro arrivo in Italia vengono sottoposti a controlli nelle strutture specializzate tra le quali anche il Sacro Cuore.
Qualora ad un paziente venga diagnosticata la malattia attiva a localizzazione polmonare, si procede al ricovero in regime di isolamento. In tal senso il reparto di Malattie Tropicali del Sacro Cuore, da poco rinnovato, dispone di 7 stanze doppie a medio isolamento e due stanze singole ad alto isolamento per un totale di 16 posti letto. L’isolamento respiratorio è garantito dalla pressione controllata nelle stanze: in sostanza la pressione all’interno è negativa (ovvero più bassa nella stanza del paziente rispetto ai locali adiacenti) impedendo così all’agente patogeno di diffondersi all’esterno della stanza stessa. Inoltre ogni stanza è dotata di un’anticamera-filtro che separa l’esterno dall’accesso al locale. Anche le porte sono controllate elettronicamente (vedi presentazione del nuovo reparto).
“La terapia nella fase acuta della malattia consiste in un cocktail di quattro farmaci somministrati per due mesi. In seguito la cura prosegue per almeno quattro mesi con due farmaci. Per contro, l’infezione latente viene individuata con un esame del sangue: in questo caso la terapia consiste in un solo farmaco e permette di prevenire il successivo sviluppo della malattia”, aggiunge la dottoressa Rodari.
Allargando lo sguardo al problema TB a livello mondiale, nel 2015 l’OMS ha varato il piano “End TB”, che viene rilanciato anche in occasione della giornata mondiale di quest’anno. Tale piano si pone l’obiettivo di diminuire del 95% i decessi e del 90% il numero di ammalati entro il 2035. Risultati che l’OMS vuole raggiungere principalmente garantendo l’accesso alla diagnosi e alla cura per milioni di persone nei Paesi poveri. Non a caso la tubercolosi è considerata una malattia strettamente legata alla povertà, perché diversamente sarebbe stata già sconfitta grazie all’efficacia delle cure disponibili.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Alla Pediatria la maglia della Tezenis: un canestro di generosità

Giorgio Boscagin, capitano della Tezenis Scaligera Basket, ha consegnato al reparto di Pediatria la maglia autografata da tutta la squadra, dono della storica famiglia dell’Amarone, Quintarelli
Questa mattina l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria ha avuto un visita speciale: quella del capitano della Tezenis Scaligera Basket, Giorgio Boscagin che ha consegnato al reparto di Pediatria la maglia con gli autografi dei giocatori, dono della famiglia Quintarelli, storica produttrice dell’Amarone.
Il capitano l’ha affidata ad Andrea in rappresentanza di tutti i piccoli ospiti presenti al quarto piano del “Sacro Cuore”, diretto dal dottor Antonio Deganello.
Boscagin, originario di Caldiero, in questi giorni è stato un assiduo visitatore dell’ospedale di Negrar: infatti lo scorso 2 marzo nel reparto di Ginecologia e Ostetricia è nato Leonardo, primogenito del cestista veronese.
La consegna della maglia è l’ultimo anello di una catena di generosità. Infatti la famiglia Quintarelli l’ha avuta in premio per aver staccato l’assegno più alto all’asta di beneficenza che si è svolta sabato scorso a Villa Mosconi Bertani in occasione della seconda edizione della “Vetrina Amarone”.
Grazie alla manifestazione, promossa dal Comune di Negrar e dalla Pro Loco Salgari, sono stati raccolti oltre 5mila euro che andranno a finanziare alcuni progetti a Cittareale, a pochi chilometri da Amatrice, colpita duramente dal terremoto.
Alla famiglia Quintarelli e all'”ambasciatore” Giorgio Boscagin un grazie di cuore da parte di tutto l’ospedale e dai piccoli ospiti del reparto di Pediatria.
Sempre più vicina la sperimentazione sull'uomo della retina artificiale

Pubblicati sulla rivista “Nature Materials” gli eccellenti risultati dell’impianto del dispositivo sui ratti ciechi. A breve la sperimentazione preclinica sull’uomo che sarà effettuata dalla dottoressa Grazia Pertile all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria
Un recupero funzionale efficace per oltre 10 mesi, senza infiammazione e senza degradazione del materiale della protesi. Sono i risultati dell’impianto della prima retina artificiale organica tutta made in Italy su ratti ciechi, pubblicati sulla rivista internazionale “Nature Materials”. Risultati che avvicinano ulteriormente la sperimentazione sull’uomo, prevista entro la seconda metà di quest’anno, al Sacro Cuore Don Calabria, nel Dipartimento di Oftalmologia, diretto dalla dottoressa Grazia Pertile (vedi foto della dottoressa Pertile e della sua equipe).
Allo studio multidisciplinare partecipano oltre all’Oculistica di Negrar, l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova – con il Centro di Neuroscienze e Tecnologie Sinaptiche (NSYN) e Centro di Nanoscienze e Tecnologie (CNST) Innovhub-SSI Milano e l’Università dell’Aquila (vedi video della partecipazione della dottoressa Pertile a Telethon su Raiuno lo scorso 16 dicembre).
La retina artificiale è stata impiantata in ratti ciechi del ceppo RCS, portatore di una mutazione spontanea in uno dei geni implicati nella Retinite pigmentosa umana, una malattia degenerativa della retina che porta alla cecità in età giovanile.
La retina artificiale è stata in grado di ripristinare il riflesso pupillare, le risposte corticali elettriche e metaboliche agli stimoli luminosi, la capacità di discriminazione spaziale (acuità visiva) e l’orientamento degli animali nell’ambiente guidato dalla luce. Questo importante recupero funzionale è rimasto efficace per oltre 10 mesi dopo l’impianto del dispositivo, senza causare infiammazione dei tessuti retinici o a degradazione dei materiali costituenti la protesi.
“Questo approccio – precisa il professor Fabio Benfenati, direttore del Centro IIT-NSYN di Genova- rappresenta un’importante alternativa ai metodi utilizzati fino ad oggi per ripristinare la capacità fotorecettiva dei neuroni. Rispetto ai due modelli di retina artificiale attualmente disponibili basati sulla tecnica del silicio, il nostro prototipo presenta indubbi vantaggi quali la spiccata tollerabilità, la lunga durata e totale autonomia di funzionamento, senza avere la necessità di una sorgente esterna di energia. Questi vantaggi ‘strutturali’ sono accompagnati da un ripristino della funzione visiva non solo per quanto riguarda la sensibilità alla luce, ma anche l’acuità visiva e l’attività metabolica della corteccia visiva.”
La retina artificiale è un polimero semiconduttore organico che si comporta in modo simile ai coni e bastoncelli, le cellule retiniche che naturalmente rispondono agli stimoli luminosi della retina. Si chiama P3HT ed è un semiconduttore utilizzato comunemente nelle celle solari, con una struttura a base di carbonio che risulta essere molto biocompatibile. Una volta impiantato sotto la retina, il polimero è in grado di catturare il segnale luminoso e trasformarlo in impulso elettrico, per poi inviarlo al cervello dove viene codificato in immagine.
Negli animali in cui è stata sperimentata, la retina con degenerazione dei fotorecettori, una volta a contatto con il polimero, recupera la sua fotosensibilità a livelli di luminosità paragonabili alla luce diurna e genera segnali elettrici che vengono inviati al nervo ottico in modo molto simile a quanto si verifica in una retina normale.
“L’utilizzo di questo materiale organico semiconduttore è stato decisivo nel superare diversi problemi – afferma il professor Guglielmo Lanzani, direttore del Centro IIT-CNST di Milano – Il fatto di essere organico lo rende soffice, leggero e flessibile, garantendo un’ottima biocompatibilità ed evitando complicazioni ai tessuti circostanti a garanzia di una lunga durata di funzionamento. Inoltre, i polimeri organici hanno la capacità di trasmettere impulsi elettronici e ionici senza grande dispersione di calore, che potrebbe causare ulteriori danni in una retina già oggetto di un processo degenerativo.”
“Speriamo di riuscire a replicare sull’uomo gli eccellenti risultati ottenuti su modelli animali – afferma la dottoressa Grazia Pertile, direttore del Dipartimento di Oftalmologia dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria – L’obiettivo è quello di ripristinare parzialmente la vista in pazienti resi ciechi dalla degenerazione dei fotorecettori che si verifica in numerose malattie genetiche della retina come ad esempio la retinite pigmentosa. Contiamo di poter effettuare la prima sperimentazione sull’uomo nella seconda metà di quest’anno e raccogliere i risultati preliminari nel corso del 2018. Questo impianto potrebbe rappresentare una svolta nel trattamento di patologie retiniche estremamente invalidanti”.
Lo studio è stato reso possibile grazie al finanziamento dell’IIT, della Fondazione Telethon, del Ministero della Salute e di Fondazioni private.
Ipertrofia prostatica: intervento più sicuro con il laser

E’ indicato in particolare per coloro che assumono farmaci anticoagulanti o antiaggreganti in quanto il laser diminuisce notevolmente il rischio di sanguinamento, come spiega il direttore dell’Urologia, Stefano Cavalleri
Grazie al laser, l’ipertrofia prostatica benigna può essere trattata in piena sicurezza anche in pazienti che assumono anticoagulanti.
Finora sono una ventina gli uomini che si sono sottoposti a enucleazione endoscopica di prostata con laser presso l’Urologia, diretta dal professor Stefano Cavalleri. Un intervento eseguito in anestesia spinale con dimissioni entro le 24-48 ore.
“L‘ipertrofia prostatica benigna è di certo la malattia urologica più diffusa e lo sarà sempre di più visto l’aumento della vita media – prosegue il professor Cavalleri -. Colpisce l’80% degli uomini che hanno superato i 50 anni e consiste nell’ingrossamento (adenoma) della parte centrale della prostata a causa di modificazioni ormonali. Il paziente manifesta difficoltà a svuotare la vescica fino al blocco della minzione con il ricorso urgente all’applicazione del catetere“.
Proprio a causa dell’età, molti pazienti che soffrono di ipertrofia benigna sono affetti da malattie cardiovascolari, patologie del sangue o sono portatori di stent coronarici, quindi costretti ad assumere farmaci anticoagulanti o antiaggreganti. Essendo la prostata un organo molto vascolarizzato, l’intervento tradizionale, in laparoscopia o in endoscopia, comporta per queste persone il rischio di forte sanguinamento.
“Il laser al Tullio consente d’intervenire senza che il paziente debba sospendere la terapia – prosegue l’urologo – e sostituirla con farmaci in grado di migliorare il sanguinamento senza però garantire una completa copertura sul fronte cardiaco”.
Il trattamento con il laser avviene sempre per via endoscopica“risalendo attraverso il pene e l’uretra fino alla prostata – descrive l’urologo.- Qui vengono visualizzati i lobi prostatici ingrossati che possono essere enucleati e quindi asportati oppure vaporizzati grazie alla elevata energia del laser. Riducendo al massimo il sanguinamento. Infatti il laser ha una grande capacità di coagulare sia il tessuto che i vasi sanguigni”.
Il decorso post operatorio del trattamento con il laser è migliore rispetto alla resezione endoscopica: il paziente, che durante l’intervento è completamente sveglio, può lasciare l’ospedale dopo una sola notte di degenza, acquista immediatamente le normali funzioni urinarie e viene lasciato libero dal catetere dopo 12 ore anziché 48 come avviene per i trattamenti tradizionali.
elena.zuppini@sacrocuore.it