Pochi migranti arrivano nel nostro Paese con questa malattia, mentre i casi più frequenti riguardano persone che tornano da viaggi temporanei nelle zone a rischio. Ne parliamo con l’infettivologo Federico Gobbi in occasione del World Malaria Day 2018

Nel mondo la malaria continua a colpire milioni di persone provocando molte vittime, mentre in Italia la situazione è pressoché stazionaria su numeri molto bassi (circa 700 casi all’anno secondo l’Istituto Superiore di Sanità). La quasi totalità dei casi di malaria diagnosticati in Italia è di origine importata e al momento non vi sono segnali di allarme epidemico. Sul territorio permangono zanzare del genere Anopheles capaci di trasmettere alcuni plasmodi, ma le conoscenze attuali indicano che esse non sono più in grado di trasmettere il Plasmodium falciparum di origine africana, responsabile delle forme più gravi di malaria. Raramente sono stati documentati casi di malaria, cosiddetta autoctona perchè trasmessa da una zanzara indigena, dovuti a Plasmodium vivax. Non è invece possibile la trasmissione da persona a persona, a meno che non ci sia una qualche forma di scambio ematico.

 

In realtà è un quadro fatto di luci e ombre quello che emerge in occasione del World Malaria Day, che si celebra il 25 aprile in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità i casi di malaria sono in calo costante, seppure su numeri ancora assai elevati. Nel 2016 si calcola che gli ammalati siano stati 216 milioni,distribuiti in 91 Paesi, con un calo del 18% nel tasso di incidenza rispetto al 2010. Tuttavia i decessi sono ancora moltissimi: 445mila, di cui il 70% costituito da bambini con meno di cinque anni. La situazione è particolarmente critica nell’Africa sub-Sahariana.

 

In Italia uno dei punti di riferimento nella prevenzione, diagnosi e cura della malaria è il Centro per le Malattie Tropicali del Sacro Cuore, diretto dal professor Zeno Bisoffi, che è in attesa dell’ufficializzazione del riconoscimento come IRCSS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico). Nel corso del 2017 qui sono stati visti 27 casi di malaria, che vanno ad aggiungersi agli oltre 1500 casi trattati negli anni scorsi. “Gli ammalati che vediamo sono di tre tipi – dice il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Centro (vedi foto) – anzitutto ci sono i cosiddetti VFRs (“Visiting Friends and Relatives”), cioè migranti che abitano in Italia da molto tempo e tornano per un periodo nella loro patria d’origine, dove contraggono la malaria perché non effettuano la profilassi. Poi ci sono gli espatriati che vivono e lavorano all’estero sempre in luoghi dove la malaria è endemica ed infine i turisti di ritorno da Paesi a rischio. Sono pochissimi, invece, i casi che riguardano migranti appena arrivati in Italia”.

 

L’anno scorso si è registrato l’allarme malaria nell’opinione pubblica in seguito alla tragica vicenda della piccola Sofia, la bambina trentina deceduta all’ospedale di Brescia nel settembre 2017 dopo aver sviluppato la malaria cerebrale senza essere mai stata all’estero. In questo caso proprio la perizia effettuata dalle biologhe del Centro per le Malattie Tropicali di Negrar e dell’ISS ha evidenziato che la malaria della bambina era dello stesso ceppo della malaria di una delle due piccole pazienti burkinabè ricoverate in una stanza vicina e da poco rientrate dall’Africa, dimostrando che si è trattato di un contagio avvenuto per via ematica.

 

Se in Italia la situazione appare dunque sotto controllo, resta molto grande la sfida a livello globale. “La lotta alla malaria ha fatto notevoli progressi combinando tre strategie – prosegue il dottor Gobbi – anzitutto c’è la prevenzione con la distribuzione capillare di zanzariere impregnate che proteggono dalle zanzare Anopheles durante la notte. Poi c’è la diagnosi più accurata grazie all’implementazione di test diagnostici rapidi. Infine i progressi nella cura, con l’utilizzo su larga scala dei farmaci che utilizzano il principio attivo dell’artemisinina, particolarmente efficace nel combattere il plasmodio della malaria. Anche se da questo punto di vista c’è un campanello d’allarme, in quanto nel Sud-Est asiatico sono stati segnalati dei focolai di resistenza a questi farmaci, focolai che se arrivassero in Africa creerebbero grossi problemi“. E il vaccino? “Ce n’è uno in fase di sperimentazione ma non è risolutivo, in quanto permette solo di ridurre il tasso di morbilità e mortalità nel breve termine e comunque non ci sono sufficienti studi sugli effetti nel lungo periodo”.

 

Il miglioramento nella lotta alla malaria si riflette infine sulle raccomandazioni per i viaggiatori internazionali. Sono infatti sempre meno i Paesi per i quali è consigliato di fare la profilassi antimalarica, specie se la permanenza nelle zone a rischio è di pochi giorni o qualche settimana. “Ormai consigliamo la profilassi quasi solo per chi va nei Paesi dell’Africa sub-Sahariana. Piuttosto è importante che il viaggiatore venga a farsi vedere e a fare il test per la malaria se sviluppa febbre sopra 38° dopo essere tornato da un viaggio in zone dove la malattia è endemica, anche in quei Paesi con basso rischio di trasmissione”, conclude Federico Gobbi.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.it