I protoni, come "proiettili" per curare il cancro

Giovedì 5 ottobre il “Sacro Cuore Don Calabria” ospita un convegno sugli sviluppi clinici futuri della protonterapia, una particolare terapia che usa i protoni per “colpire” il cancro. Interverranno i maggiori esperti italiani del settore

Si parlerà di protonterapia, giovedì 5 ottobre (dalle 15) all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, in un convegno che vedrà la partecipazione di alcuni fra i maggiori esperti di questa forma particolare di radioterapia per la cura dei tumori, presente ancora in pochi centri in Italia.

Interverranno infatti specialisti provenienti dall’Istituto Nazionale dei Tumori e dall’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) di Milano, dal Centro Nazionale di Adroterapia Oncologica-CNAO di Pavia e dell’Istituto Oncologico Veneto di Padova. Tra i relatori anche Adriano Garonna, fisico e ricercatore del CERN di Ginevra e Roberto Orecchia, Direttore Scientifico Fondazione CNAO e Direttore Scientifico dello IEO.

L’appuntamento scientifico è promosso dalla dottoressa Stefania Gori, direttore dell’Oncologia Medica dell’Ospedale di Negrar e presidente eletto dell’Aiom (Associazione italiana oncologi medici).

“La protonterapia rappresenta una forma di radioterapia che utilizza particelle pesanti, nello specifico protoni, per la cura dei tumori”, spiega il professor Filippo Alongi, direttore della Radioterapia Oncologica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e professore associato di Radioterapia all’Università di Brescia.

“Specificamente, rispetto ai fotoni utilizzati nella radioterapia tradizionale, i protoni presentano caratteristiche ‘balistiche e biologiche’ diverse – prosegue -. Dal punto di vista del potere di penetrazione dei tessuti, i protoni hanno la capacità di raggiungere la massa tumorale e cedere gran parte della loro energia distruttiva antitumorale ad una specifica profondità, come un proiettile che esplode esclusivamente quando arriva dentro il bersaglio. Con poche possibilità di errore, sopratutto se il bersaglio è immobile. Dal punto di vista biologico, inoltre, i protoni, a parità di dose erogata presentano rispetto ai fotoni della radioterapia a raggi X, un’efficacia maggiore nel danneggiare le cellule tumorali“.

I protoni sono infatti utilizzati per i tumori pediatrici dove, grazie alla possibilità balistica selettiva di risparmiare gli organi sani, possono ridurre le problematiche di sviluppo dei tessuti in crescita o il rischio di secondi tumori. La protonterapia viene inoltre proposta per i tumori radioresistenti e nei ritrattamenti per escludere il più possibile i tessuti già irradiati.

“Ogni giorno in Italia vengono diagnosticati oltre mille casi di tumore maligno – spiega la dottoressa Gori – ma grazie ai miglioramenti diagnostici e terapeutici è comunque aumentata negli ultimi decenni la sopravvivenza a 5 anni. Inoltre oggi in Italia vivono 3.300mila persone che hanno avuto nella loro vita una diagnosi di cancro e molte delle quali possono essere considerate guarite. Questi “numeri” indicano i progressi ottenuti nella lotta al cancro, ma sottolineano anche la necessità di utilizzare nel prossimo futuro trattamenti molto efficaci e tuttavia associati a minor tossicità, anche a lungo termine, al fine di salvaguardare la qualità di vita dei pazienti oncologici. Tra questi c’è anche la protonterapia”.

L’impiego clinico dei protoni è limitato alla presenza di pochi centri al mondo anche a causa dei costi, in passato proibitivi, per la costruzione e la manutenzione dei Centri. In Italia sono attive tre strutture dedicate: CNAO di Pavia, il Centro di Protonterapia di Trento ed una terza, a Catania, dedicata alle patologie dell’occhio, disponibile tuttavia solo per pochi mesi all’anno, perché riservata alla ricerca della fisica delle particelle.

“La recente evoluzione tecnologica e ingegneristica dei macchinari oggi consente la realizzazione di Centri di protonterapia con costi meno onerosi – conclude il professor Alongi – tanto da rendere plausibile la creazione di nuove strutture anche in Italia, non dimenticando che i trattamenti di protonterapia sono stati inseriti dal ministero della Salute nei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza“.


Festa di Don Calabria con la posa della prima pietra del "nuovo" Ospedale

Il 4 ottobre, in occasione della Festa del Santo fondatore dell’Ospedale, il presidente della Regione del Veneto, Luca Zaia, poserà la prima pietra del grande progetto di riqualificazione strutturale del “Sacro Cuore Don Calabria”

La migliore accoglienza del paziente è al centro della Festa di Don Calabria, che il 4 ottobre vedrà il presidente della Regione del Veneto, Luca Zaia, posare la prima pietra del progetto di riqualificazione dell’ospedale di Negrar.

La riorganizzazione complessiva, migliorando l’accesso a tutti i Servizi, ha l’obiettivo di adeguare la struttura all’esponenziale sviluppo medico-scientifico e tecnologico che il nosocomio ha avuto negli ultimi decenni.

Il primo step dei lavori, che coinvolgeranno la Cittadella della Carità per cinque anni, sarà la realizzazione della palazzina d’ingresso dell’Ospedale di cui il Presidente Zaia poserà la prima pietra.

La cerimonia avrà inizio alle 11 davanti a Casa Nogarè. Il Casante, padre Miguel Tofful, impartirà la benedizione.

Successivamente il Presidente Zaia visiterà le nuove acquisizioni tecnologiche dell’ospedale. In particolare l’innovativo sistema di radiochirurgia per il trattamento delle metastasi cerebrali multiple in una sola seduta (HyperArc) e la nuova TAC a doppia energia, il modello di ultima generazioni della Tomografia Computerizzata, particolarmente indicata per le indagini cardiovascolari.

La cerimonia della posa della prima pietra sarà preceduta dalla Messa presieduta da padre Tofful nella cappella dell’Ospedale Don Calabria. (ore 10)


Cancro: aumentano i casi ma anche le persone che guariscono

Sono più di mille le diagnosi di tumore al giorno, ma il 40% dei tumori potrebbe essere evitato con un sano stile di vita. La dottoressa Stefania Gori, presidente eletto AIOM, commenta i dati emersi dal censimento annuale della malattia oncologica

Sono più di mille al giorno, le diagnosi di tumore stimate per il 2017. Ma sono anche 3 milioni e trecentomila le persone che oggi vivono in Italia dopo una diagnosi di tumore, il 24% in più rispetto al 2010. Un bicchiere mezzo pieno, ma che fa sperare per il futuro anche grazie all’avvento di nuovi trattamenti farmacologici come l’immunoterapia. E’ quanto riporta “I numeri del cancro in Italia 2107”, il “censimento” della malattia oncologica nel nostro Paese, frutto del lavoro dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), dell’Associazione Italiana Registri Tumori (ARTIUM) e della Fondazione AIOM.

“La mortalità, – sottolinea la dottoressa Stefania Gori (nella foto con il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin), presidente eletto AIOM e direttore dell’Oncologia Medica dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria -, continua a diminuire in maniera significativa in entrambi i sessi. Si tratta del risultato di più fattori: la prevenzione primaria (in particolare la lotta al tabagismo), la diffusione degli screening su base nazionale e il miglioramento diffuso delle terapie in termini di efficacia e di qualità di vita in un ambito sempre più multidisciplinare e integrato. Più pazienti hanno lunghe sopravvivenze e più persone guariscono dal cancro: e questo è un importante risultato di sanità pubblica“.

Tuttavia si stima che nel 2017 le diagnosi saranno 369mila, 3.200 in più rispetto al 2016. Si muore di meno, ma ci si ammala di più.

Un incremento delle neoplasie è dovuto certamente all’invecchiamento della popolazione. Ma non solo. Seppur sia ancora non sufficiente a livello nazionale e diversificata da regione a regione, l’adesione alle campagne di screening (mammella, colon retto e cervice uterina) ha consentito un maggior numero di diagnosi in una fase precoce del tumore, quindi una migliore prognosi. Un esempio è il tumore al seno: sono 51mila i casi nel 2017, ma in crescita solo nelle fasce di età dove si è avuto un ampliamento dello screening, cioè fra i 45-49 anni e nelle over 70. E sempre grazie ai programmi di screening è in diminuzione il tumore al colon-retto: tramite l’esame del sangue occulto nelle feci e, se è positivo, la colonscopia possiamo diagnosticare lesioni ancora in fase precancerosa. Resta tuttavia ancora molto da fare nell’ambito della prevenzione primaria: il 40% dei tumori potrebbe essere evitato adottando uno stile di vita salutare (niente fumo di sigaretta, dieta corretta e attività fisica). E aderendo alle campagne di vaccinazioni che comprendono anche i vaccini contro alcuni tumori”.

Quanto incidono gli agenti infettivi?

“Si stima che l’8,5% dei casi di tumori sia dovuto a virus. Nel nostro Paese è stato calcolato che l’Helicobacter pylori è causa del 42% dei tumori dello stomaco; il virus dell’epatite B e C del 35% dei tumori del fegato; il virus del papilloma umano (HPV) del 20% dei casi di cancro alla cervice, del pene, dell’ano e del cavo orale. Nel complesso quasi 4.400 casi ogni anno sono riconducibili all’HPV, ma oggi è disponibile un’arma fondamentale per combatterlo, la vaccinazione. Dal 2007-2008 in ogni regione è offerta gratuitamente e attivamente alle dodicenni. Inoltre, tra le vaccinazioni previste nei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza e nel Piano Nazionale Vaccini 2017-2019 ora è compresa anche quella contro l’HPV nei maschi undicenni”.

Nel rapporto si legge che l’incidenza dei tumori è in netto calo negli uomini (-1,8% per anno nel 2003-2017), legato principalmente alla riduzione dei casi di cancro del polmone e della prostata, mentre è stabile nelle donne che invece registrano un notevole aumento della neoplasia polmonare. Sembra che le campagne contro il tabagismo abbiano avuto effetto solo nel mondo maschile…

“I numeri parlano chiaro: nel 2017 saranno 13.600 le diagnosi di neoplasia polmonare nella popolazione femminile, un incremento del 49% in 10 anni. E la responsabilità è sempre nel consumo di sigarette, una pratica che pochi anni fa era di prevalenza maschile”.

Dal punto di vista dei trattamenti oggi si sta assistendo a una vera e propria rivoluzione: l’immunoterapia, cioè una serie di farmaci capaci di “risvegliare” il sistema immunitario nei confronti del cancro. Siamo ad una svolta nell’ambito della lotta contro i tumori?

“L’immunoterapia si sta senza dubbio dimostrando un’arma molto efficace contro il melanoma anche in fase avanzata, ma l’indicazione si è estesa anche per altri tumori, come quello polmonare e del rene. Ma l’immunoterapia è solo uno dei trattamenti, che va ad aggiungersi alle terapie target, alla chemioterapia, alla chirurgia oncologica e alla radioterapia. Oggi disponendo di tante terapie e conoscendo molto dei meccanismi biologici di diverse forme tumorali possiamo offrire a ciascun paziente un trattamento personalizzato. Un’opportunità che sta portando progressivamente alla cronicizzazione della malattia neoplastica“.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Ti potrebbe interessare


Lesioni spinali: la riabilitazione esce dalla palestra

Venerdì 22 settembre si svolgerà negli ambienti dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria una gara di orienteering con protagonisti i pazienti dell’Unità Spinale, accompagnati da volontari e fisioterapisti

La riabilitazione, anche nei casi di gravi lesioni spinali, non si fa solo nella palestra dell’ospedale. Invece per un recupero più rapido e completo è opportuno guardare fuori, alla vita di tutti i giorni, già durante il ricovero. Ne è convinto il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento di Riabilitazione dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, e ne è convinto tutto il personale che giornalmente lavora a contatto con i pazienti. Ed è proprio questo il senso di una originale iniziativa che si terrà venerdì 22 settembre presso il nosocomio della Valpolicella, ovvero una gara di orienteering che vedrà come concorrenti i pazienti dell’Unità Spinale dell’ospedale.

 

La gara è l’occasione per concludere con un momento di festa il programma delle attività sportive e delle uscite fatte con i nostri pazienti durante l’estate – dice Avesani – un programma molto ricco grazie soprattutto all’impegno e alla grande disponibilità dei nostri fisioterapisti e dei volontari”.

 

L’Unità Spinale del Sacro Cuore, diretta dal Dr. G. Armani, può accogliere fino a 15 degenti che hanno subito lesioni midollari in seguito a trauma o patologia. In genere il ricovero a fini riabilitativi dura da 2 a 8 mesi, per cui in un anno le degenze sono mediamente comprese tra le 20 e le 30 unità. Per questi pazienti, oltre alla normale attività di palestra per il recupero delle funzionalità motorie, c’è ormai una tradizione consolidata di attività sportive “extraospedaliere”, rese possibili grazie alla collaborazione con l’area Polisportiva del Centro Polifunzionale Don Calabria di via San Marco a Verona: si va dalla canoa al basket, dal nuoto all’handbike, dal tiro con l’arco fino allo sci. E poi ci sono le uscite, fatte con cadenza settimanale negli ambienti della quotidianità, come ad esempio al supermercato o al parco.

 

Durante l’evento del 22 settembre, gli utenti in carrozzella saranno impegnati su un percorso disegnato appositamente all’interno dell’ospedale dai volontari dell’Asd Orient Express di Verona, associazione che da 30 anni si occupa di orienteering sportivo. La gara, con inizio alle ore 13, si svolgerà su 15 punti distribuiti tra spazi comuni interni e parco esterno del nosocomio. La partecipazione sarà a coppie, in quanto ogni utente sarà affiancato da un volontario, anch’egli in carrozzella, del Galm Verona (Gruppo di Animazione dei Lesionati Midollari), associazione che da molti anni collabora con l’Ospedale e che, proprio all’interno del Servizio di Riabilitazione, ha uno sportello settimanale con presenza del suo Presidente. Con questa presenza ed altre iniziative si occupa di dare supporto a coloro che sono affetti da lesione al midollo spinale a Verona e provincia.

 

“Il senso di questa iniziativa è anche quello di far conoscere i vari ambienti dell’ospedale ai nostri utenti – conclude il dottor Avesani – e allo stesso tempo vogliamo farci conoscere dalle altre persone che frequentano la Cittadella della Carità. Credo sia un bel modo per “uscire” dalla palestra e apprezzare anche il costante sforzo della direzione dell’ospedale per superare ogni forma di barriera architettonica e rendere agevole la possibilità di vivere tutti gli spazi per coloro che sono sulla sedia a rotelle“.

matteo.cavejari@sacrocuore.it

Può interessare anche:

Tutte le risposte sulle mielolesioni in un Blue Book


Quando la dipendenza da fumo e da alcol si declina al femminile

Scarica l'allegato PDF

Tre incontri all’ospedale di Negrar mettono sotto la lente di ingrandimento i danni fisici e psichici, ma anche le conseguenze sociali, del consumo di alcol e di fumo nella popolazione femminile

Sono 829 le persone che dal 2009 al 2016 si sono rivolte al Servizio di Alcologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Paolo Bocus, per problemi alcol-correlati. La grande maggioranza sono uomini (619 uomini contro 210 donne). Ma, affermano le dottoresse Egle Ceschi, educatrice del Servizio di Alcologia, e Francesca Martinelli, assistente sociale dell’ospedale(nella Photo Gallery), i dati non sono esaustivi, perché “quello dell’uso di alcol nella popolazione femminile è un problema sommerso, poco conosciuto e poco considerato soprattutto nella fasce più giovani”.

Perfino la letteratura scientifica tende a sottovalutarlo, non riportando dati sui danni specifici provocati sulla salute delle donne. La conferma di questa lacuna Ceschi e Martinelli l’hanno avuta proprio preparando l’iniziativa “Trilogia d’incontri: alcol e fumo… vissuti al femminile” (in allegato la brochure con il programma).


Si tratta di tre appuntamenti nel pomeriggio (con inizio alle 14) del 22 settembre, 6 ottobre e 20 ottobre all’ospedale di Negrar. Il primo degli incontri riguarderà l’età della crescita, il secondo quella adulta e il terzo la maturità. Interverranno medici specialisti, educatori anche di strada, ostetriche, psicoterapeuti e assistenti sociali.

“I tre appuntamenti sono un momento formativo per gli addetti ai lavori – spiega la dottoressa Martinelli – ma abbiamo voluto aprirli anche alle scuole, agli insegnanti e ai genitori proprio per l’interesse collettivo del problema”. Ogni incontro si concluderà con una testimonianza di persone che hanno vissuto gli esiti dell’uso di sostanze.

“Abbiamo voluto approfondire l’addiction al femminile – spiegano le organizzatrici – con l’obiettivo di coinvolgere la popolazione su un problema che ha un impatto pesante sulla collettività, in quanto la donna è promotrice di vita e perno della famiglia. Rispetto al passato – proseguono – il nostro Servizio registra un aumento degli accessi femminili, non tanto nel numero, quanto di donne che decidono di chiedere aiuto quando non sono ancora emerse importanti patologie alcol-correlate. Oggi arrivano ragazze anche ventenni, perché sono state riscontrate positive all’alcol-test o perché hanno avuto comportamenti a rischio in famiglia, nel gruppo o semplicemente perché riconoscono di avere un problema legato all’alcol”.

Ma perché un confronto in tre momenti? “L’uso di alcol e il consumo di sigarette – risponde la dottoressa Martinelli – viene vissuto in maniera differente a seconda dell’età. Nell’adolescenza non è visto come un problema, ma come il raggiungimento dell’emancipazione. Eppure le ragazze, come i ragazzi d’altronde, assumono comportamenti sociali ad altissimo rischio (pensiamo al famigerato “rito dell’aperitivo” ripetuto ogni sera) sottovalutati anche dagli adulti. Senza contare che nell’età dello sviluppo sia nei ragazzi sia nelle ragazze, i danni organici possono essere irreparabili”.

La questione alcol, fumo e gravidanza sarà affrontata invece il 6 ottobre quando si parlerà dell’età adulta. “Il principio del consumo moderato di alcol non vale per la gravidanza e l’allattamento, periodi in cui il bere deve essere escluso – sottolinea la dottoressa Ceschi -. Due ginecologhe tratteranno il tema del perché l’alcol e il fumo non favoriscono la generazione della vita e di come si riconosce la sindrome feto-alcolica. Ci sono studi che dimostrano i danni fisici provocati dall’alcol sul nascituro, ma anche che una mamma bevitrice e fumatrice può predisporre il nascituro alla dipendenza da sostanze”. Verranno inoltre analizzate le ricadute fisiologiche dell’abuso alcolico e le difficoltà di reperire un posto di lavoro.

Infine l’età matura. “E’ l’età della dipendenza vissuta come vergogna, all’interno della casa, magari per porre rimedio alla solitudine. E l’età in cui le patologie alcol e fumo correlate emergono spesso gravemente, come emerge la triste consapevolezza di non aver posto rimedio alla dipendenza negli anni precedenti – afferma Ceschi -. In base alla mia esperienza c’è una cosa che differenzia il bere maschile da quello femminile, in tutte le età. Mentre il primo è legato al gruppo e alla cultura, al bere femminile si aggiunge una sofferenza profonda che si cerca di soffocare dentro a un bicchiere. Spesso si dice: bevo perché ho dei problemi. E’ il contrario: i problemi arrivano con il bere e si risolvono solo smettendo“.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Quali sono i bisogni dei malati oncologici? I pazienti lo raccontano

Scarica l'allegato PDF

Il 20 settembre, nell’ambito della II Giornata della Società italiana di Psiconcologia, Verona ospita un evento aperto alla cittadinanza: un confronto tra pazienti, psiconcologi e oncologi sui bisogni della persona affetta da tumore

Fanno tappa anche a Verona le iniziative per la seconda Giornata nazionale della Società Italiana di Psiconcologia (SIPO), promosse in tutta Italia.

Per la provincia scaligera l’appuntamento rivolto alla cittadinanza si terrà mercoledì 20 settembre con inizio alle 15, al Circolo Ufficiali di Castelvecchio, sul tema “I bisogni psico-sociali dei pazienti e dei loro caregivers” (in allegato i programma).

L’evento è organizzato dalla SIPO Sezione Veneto-Trentino Alto Adige, in collaborazione con il Servizio di Psicologia Clinica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar e l’Unità dipartimentale Psicologia Clinica sede di Borgo Trento dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona, assieme all’Ordine degli Psicologi del Veneto.

“E’ un pomeriggio rivolto a tutti, non necessariamente solo a coloro che sono coinvolti nella malattia oncologica. Si tratta di un momento di confronto tra psiconcologi, oncologi, altri operatori e pazienti che ha l’obiettivo di approfondire i bisogni psico-sociali delle persone colpite da cancro e dei loro familiari”, spiega il dottor Giuseppe Deledda, coordinatore della SIPO Veneto-Trentino Alto Adige e responsabile del Servizio di Psicologia Clinica di Negrar.

La Psiconcologia nacque trent’anni fa per dare risposte adeguate a pazienti affetti da una patologia di cui si taceva il nome e veniva definita ‛il brutto male’. Oggi grazie ai progressi della medicina è aumentata notevolmente la sopravvivenza da tumore, ma il cancro resta una malattia che segna profondamente la vita delle persone e nello stesso tempo sono nati altri bisogni dovuti, per esempio, alla cronicizzazione delle neoplasie. Molte persone convivono per lunghi anni con il cancro e con la necessità di sottoporsi periodicamente alle cure e con conseguenze sul piano familiare e lavorativo.

“Nel Veneto la sezione di SIPO è attiva da decenni – continua la dottoressa Luisa Nadalini, responsabile dell’Unità Semplice Dipartimentale di Psicologia Clinica Borgo Trento e già componente del direttivo di SIPO Veneto dal 2002 al 2016 -. Nella nostra realtà regionale oltre ai Servizi di Psicologia Clinica, che si occupano specificamente di malati oncologici, operano psicologi inseriti in vari reparti soprattutto di Oncologia ed Ematologia, molti con una formazione specifica”.

Il pomeriggio (dalle ore 14.45) al Circolo Ufficiali sarà scandito da vari interventi legati dal “filo rosso” del vissuto della malattia narrato da parte del paziente e degli operatori.

La narrazione attraverso le parole, strumento di cura privilegiato per gli psiconcologi: in proposito sarà presentato in anteprima un racconto letterario di cura psiconcologica. Ma saranno sottolineate altre modalità espressive riguardo l’esperienza della malattia: come i disegni dell’album illustrato “Il Vaso di fiori”, dedicato alle mamme che devono intraprendere un trattamento chemioterapico e ai loro bambini. Sarà dato spazio anche alla fotografia, come strumento per riprendere contatto con il proprio corpo modificato a causa del cancro, attraverso le foto realizzate da una paziente di 23 anni che ha ritratto le donne operate al seno, le quali tramite quelle immagini hanno riscoperto una bellezza che pensavano perduta. Proprio l’attenzione al corpo, tramite l’alimentazione e la riabilitazione, riguarderà l’ultimo intervento del pomeriggio, durante il quale sarà presentata l’esperienza del Progetto Convivio dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata.

Ti potrebbe interessare


Laser e sclerosanti: le terapie senza dolore delle vene varicose

Scarica l'allegato PDF

Una patologia antica, le cui terapie sono in continua evoluzione come spiega il chirurgo vascolare Paolo Tamellini, promotore del convegno che si terrà il 22 settembre al “Sacro Cuore”

Già Hippocrate (460-377 a. C.), proprio quello del giuramento, parlava di gambe congestionate, violacee, edematose. Mentre la più antica documentazione scritta di un trattamento chirurgico delle varici porta la firma di Aulo Cornelio Celso (25 a.C. – 50 d.C.).

Pochi accenni storici per una malattia, quella varicosa, con cui l’uomo ha dovuto sempre convivere e che oggi può essere definita “sociale”, visto che colpisce il 25-30% della popolazione. Ma se le origini si perdono nel tempo, le tecniche, chirurgiche e non, per curare questa patologia sono costantemente in evoluzione.

Di “Malattia varicosa oggi: nuove frontiere per un problema antico” si parlerà infatti venerdì 22 settembre all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, in un convegno promosso dal dottor Paolo Tamellini (foto in Photo Gallery), dell’Unità operativa complessa di Chirurgia Vascolare, diretta dal dottor Antonio Janello, e rivolto a specialisti e medici di medicina generale (in allegato il programma del convegno).

Oggi abbiamo diverse modalità d’intervento – spiega il medico – dalla chirurgia, alla terapia con il laser o con la radiofrequenza a microonde e anche con farmaci sclerosanti. A seconda dei casi possiamo utilizzare separatamente i trattamenti oppure combinandoli fra loro per raggiungere il miglior risultato clinico ed estetico”.

Dottor Tamellini, in cosa consiste la patologia che comunemente viene chiamata “vene varicose”?

“Si tratta di una malattia funzionale, perché comporta un sovvertimento della circolazione venosa degli arti inferiori. Le vene sono dotate di valvole che hanno il compito di rinviare il sangue verso il cuore e di impedire che il sangue ricada verso il basso, seguendo la legge di gravità. Se per una debolezza congenita queste valvole si ‘allentano’ e diventano incontinenti, le vene, invece di essere ‘autostrade’ che portano il sangue al muscolo cardiaco, di dilatano, assumono una forma tortuosa e il sangue ricade verso il basso. I sintomi infatti sono gambe gonfie, pelle pigmentata di rosso, a causa di uno stravaso di globuli rossi, comparsa di dermatiti ed eczemi varicosi e negli stadi più avanzati formazione di ulcere. Infine possono manifestarsi anche flebiti, perché dove il sangue ristagna, facilmente coagula“.

Quali vene sono interessate?

“Quelle della circolazione superficiale: la safena grande, la safena piccola e i rami collaterali. L’arrivo del sangue agli arti inferiori è riservato a un solo canale, le arterie. Il ritorno, invece, è affidato alle vene in superficie e quelle profonde, cioè all’interno dei muscoli. Ma i due sistemi, superficiale e profondo, sono in comunicazione. Pertanto se è presente un danno cronico alle vene superficiali a risentirne è anche il circolo profondo, con conseguenze più serie. Infatti mentre le due safene si possono togliere, non si può fare altrettanto per le vene profonde”.

Quella varicosa può essere chiamata una malattia sociale…

“Colpisce una ampia fetta di popolazione (25-30%), in ugual misura uomini e donne, di qualsiasi età. Le donne sono più sensibili al problema sia per le gravidanze, che rappresentano uno stress per la circolazione degli arti inferiori, sia per una questione estetica: non fa piacere avere le vene superficiali, magari a forma bitorzoluta. Può essere un problema solamente di natura estetica, ma è solo l’esame dell’EcoColorDoppler che può escludere un deficit funzionale della circolazione”.

Una volta diagnosticata la malattia, quali sono le terapie?

“La vera innovazione terapeutica risale agli inizi del 1900, con l’intervento chirurgico di stripping, ancora maggiormente utilizzato. La vena viene incannulata da cima a fondo con catetere e viene ‘strappata’ con i suoi rami. Non è un intervento banale per i paziente, che deve sottostare a circa un mese di convalescenza. Per questo, quando è possibile, vengono preferite le tecniche chirurgiche mini-invasive“.

Di cosa si tratta?

La nostra Chirurgia Vascolare utilizza il laser, ma è utilizzabile anche la radiofrequenza (microonde). In ambulatorio (non più in sala operatoria come per la chirurgia tradizionale) e in anestesia locale, viene punta la vena e inserito un catetere che all’estremità emette un raggio laser che emana energia termica. Il tutto avviene sotto guida ecografica. La vena si surriscalda e cicatrizzandosi si chiude, tanto che a distanza di due anni non è più visibile all’ecografia”.

Quali sono i vantaggi rispetto alla chirurgia tradizionale?

“Studi internazionali, finora disponibili, riportano per il laser e la radiofrequenza risultati analoghi per efficacia, sovrapponibili alla chirurgia tradizionale. La differenza sostanziale è il post operatorio. Il trattamento è solo circoscritto alla vena. Non sono coinvolti i tessuti circostanti, quindi non compaiono ematomi. Non essendoci sanguinamento, il laser è indicato anche per coloro che assumono farmaci anticoagulanti. Non vengono applicati punti di sutura e il paziente senza dolore, può ritornare a casa dopo un’ora. Ho avuto pazienti che nel pomeriggio si sono recati al lavoro”.

Per quanto riguarda la terapia con farmaci sclerosanti?

“La scleroterapia è un terapia antichissima in flebologia. Negli ultimi anni, tuttavia, il sclerosante liquido viene sostituito da una schiuma, che si ottiene lavorando il farmaco con l’aria. Mentre il farmaco liquido si fluidifica nel sangue e scorre via con lo stesso, la schiuma ristagna e sposta per così dire il sangue, restando più a lungo vicino alla parete della vena. Di conseguenza con farmaci a concentrazione più bassa e in volumi molto minori, si riesce a trattare tratti molto lunghi. La schiuma inoltre è visibile all’ecografia, pertanto si riesce a monitorare in tempo reale il percorso del farmaco stesso”.

Quando è indicata la scleroterapia e quando il laser?

“La terapia con sclerosanti viene utilizzata quando si è in presenza di vene dal percorso tortuoso, perché la fibra del laser è rettilinea e poco flessibile. Inoltre il laser risulta dannoso se le vene sono troppo superficiali, si rischierebbe di bruciare la pelle. Le tre tecniche – chirurgia, laser e sclerosanti – possono essere associate nello stesso trattamento, sempre in un contesto ambulatoriale, al fine di ottenere il migliore risultato anche su situazioni complicate”.

Nell’ambito della malattia varicosa possiamo attenderci altre novità?

“Siamo solo agli inizi: sono allo studio metodiche non termiche, tali da non richiedere nemmeno l’anestesia locale (ad esempio colle). Certamente la cura delle varici oggi è possibile in un contesto assolutamente ambulatoriale con un minimo impatto sulla qualità di vita e sulla ripresa delle ordinarie attività. Questo si traduce in un vantaggio per il paziente oltre che in un sensibile risparmio economico per la collettività”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Visite gratuite per la diagnosi precoce di tumori del cavo orale

Anche l’Orl di Negrar partecipa alla Settimana per la diagnosi precoce dei tumori del cavo orale con visite gratuite, ma su prenotazione, che si terranno il 18, 21 e 22 settembre dalle 8.30 alle 12.30 ai Poliambulatori

In occasione della terza Settimana nazionale della diagnosi precoce dei tumori del cavo orale, lunedì 18, giovedì 21 e venerdì 22 settembre, i medici dell’Unità operativa complessa di Otorinolaringoiatria dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Sergio Albanese, sono a disposizione nei Poliambulatori (Casa Nogaré) dalle 8.30 alle 12.30 per visite gratuite di controllo della salute della bocca.

Non è necessaria l’impegnativa del medico di medicina generale, ma solo la prenotazione presso il CUP dell’Ospedale al numero 045.601.32.57 (dal lunedì al venerdì, dalle 8. alle 18. Il sabato dalle 8 alle 13).

La Settimana è promossa dall’Associazione Otorinolaringologi Ospedalieri Italiani (AOOI) per sensibilizzare la popolazione sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce dei tumori del cavo orale (lingua, gengive, guance, palato e labbra), che hanno un’incidenza abbastanza alta: 4 casi ogni 100mila abitanti.

«Il 65% di questi tumori è dovuto al fumo, la cui azione è potenziata dall’abuso dell’alcol – spiega il dottor Albanese -. Il picco di incidenza della malattia si verifica intorno ai 50-60 anni, ma negli ultimi anni purtroppo si è avuta una brusca impennata dei casi che coinvolgono persone giovani: oggi il 6% dei tumori riguarda pazienti sotto i 40 anni».

In un’alta percentuale di casi l’insorgenza dei carcinomi del cavo orale è infatti provocata al virus dell’HPV (Papilloma virus), lo stesso che causa il cancro alla cervice uterinala cui trasmissione avviene per via sessuale.

“Fondamentale la prevenzione – prosegue il medico – attraverso un corretto stile di vita. Quindi niente fumo, poco alcol, una dieta ricca di frutta e verdura e un’attenzione particolare alla cura dell’igiene orale. Importante, inoltre, evitare i rapporti sessuali orali non protettiSe si è soggetti a uno dei fattori di rischio, le visite otorinolaringoiatriche periodiche sono fortemente raccomandate“.

Infatti la diagnosi precoce per questo tipo di carcinoma è semplice e non richiede metodi invasivi. “Se il cancro viene diagnosticato nella fase iniziale o addirittura pre-tumorale – conclude il dottor Albanese – è possibile una chirurgia conservativa senza conseguenze invalidanti e la sopravvivenza libera da malattia raggiunge anche l’80%”.


Professionalità e umanità al servizio degli ammalati negli ospedali calabriani

Un video raccoglie le immagini e le interviste realizzate durante il primo incontro degli ospedali calabriani nel mondo, tenutosi a Negrar, con la partecipazione dei direttori dei nosocomi di Negrar, Luanda, Marituba e Manila

Programmazione, collaborazione e attenzione alle persone ammalate secondo gli insegnamenti di san Giovanni Calabria. Sono queste le parole d’ordine emerse durante il primo incontro degli ospedali dell’Opera Don Calabria nel mondo, che si è tenuto a Negrar il 28 e 29 agosto scorsi.

Nel video qui sotto (vedi videogallery) abbiamo raccolto le interviste ai dirigenti delle quattro strutture che erano presenti a questo incontro a suo modo “storico”:

– Fratel Gedovar Nazzari e Mario Piccinini, rispettivamente Presidente e Amministratore Delegato dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar

– Gustavo Bonassi, direttore dell’ospedale Divina Providencia di Marituba (Brasile)

– Alves Tchilunda, direttore dell’ospedale Divina Providencia di Luanda (Angola)

– Jeffrey Singzon, direttore della Bro. Francisco Perez Clinic di Manila (Filippine)

 

Il video è aperto dal Superiore generale dell’Opera Don Calabria, padre Miguel Tofful, anch’egli presente all’evento insieme al Consiglio generale della Congregazione e agli economi di tutte le Delegazioni e Missioni calabriane nel mondo. Inoltre la parte finale dell’evento ha visto una nutrita partecipazione dei primari e del personale dell’ospedale di Negrar.

 

Per maggiori informazioni sull’evento si può vedere questo link:

Al Sacro Cuore il primo incontro degli ospedali calabriani


"Sofia, un tragico caso di malaria imprevedibile"

Il dottor Zeno Bisoffi interviene sulla tragica vicenda della piccola Sofia, deceduta a causa della malaria senza essere stata all’estero: “Forse una zanzara uscita dalla stiva di un aereo o da una valigia di ritorno da Paesi endemici”

E’ un vero e proprio caso di malaria “criptica”, quello che ha ucciso la piccola Sofia di Trento, deceduta la notte tra sabato e domenica scorsi nella Clinica di Malattie infettive e tropicali dell’ospedale di Brescia. Criptica, infatti, è la definizione che usano gli specialisti quando si trovano di fronte a casi rarissimi di malaria non associata a viaggi in Paesi endemici, come quella, appunto, che ha colpito la bambina di soli 4 anni la cui ultima vacanza è stata al mare, ma a Bibione.

“Nei quasi trent’anni di attività del nostro Centro abbiamo trattato oltre 1.500 pazienti affetti da questa patologia, ma sono stati tutti casi di malaria ‘di importazione’, cioè contratta da viaggiatori o da migranti provenienti dai Paesi endemici e che dopo un periodo di incubazione si è manifestata in ItaliaMa non abbiamo mai visto casi di malaria criptica, rarissima anche nel nostro Paese“, spiega il dottor Zeno Bisoffi, direttore del Centro per le Malattie Tropicali dell’ospedale “Sacro Cuore Don Calabria“.

Ricordiamo infatti che la malaria è una malattia infettiva, ma non contagiosa provocata da un protozoo, il plasmodio. Ne esistono cinque specie umane, delle quali la più pericolosa è Plasmodium falciparum che ha colpito Sofia Le zanzare che trasmettono la malaria appartengono al genere Anophelesautoctono nei Paesi tropicali e sub-tropicaliLe specie di Anopheles in grado di trasmettere efficacemente il P. falciparum sono probabilmente inesistenti in ItaliaAllora come ha potuto la piccola Sofia contrarre la malattia? “Con gli elementi che abbiamo possiamo fare solo delle ipotesi”, risponde il dottor Bisoffi. Vediamo quali.

Trasmissione del parassita tramite una zanzara autoctona

“Di zanzare del genere Anopheles esistono varie specie. Alcune non sono più in grado di trasmettere la malaria. Altre sono adattate a trasmettere alcune forme di malaria benigna, cioè non mortale, come quella da Plasmodium vivaxL’ultimo caso registrato in Italia di malaria benigna sicuramente trasmessa da Anophelesautoctona risale al 1997 nella Maremma Toscana, in provincia di Grosseto, e si è risolto positivamente. Da allora qualche altro raro caso possibile o probabile, sempre della stessa specie “benigna”, si è sporadicamente manifestato. Ad oggi non siamo in grado di escludere con assoluta certezza che da noi esistano zanzare Anopheles capaci di essere veicoli anche della malaria da Plasmodium falciparum, la forma più grave che purtroppo ha colpito la bambina, ma lo riteniamo estremamente improbabile“.

Zanzare provenienti dall’estero con aerei o bagagli

E’ un’ipotesi plausibile, anche se negli ultimi 20 anni i casi di malaria dovuta a punture di zanzare uscite dalla stiva di un aereo proveniente dall’Africa o da un bagaglio possono essere stati al massimo una decina. Non conosco gli spostamenti della bambina nel periodo compatibile con l’incubazione della malattia (in genere due settimane), ma se fosse transitata nei pressi di uno scalo di aerei provenienti da Paesi malarici, potremmo essere di fronte a un caso di ‘malaria da aeroporto’ oppure contratta da una puntura di zanzara infetta uscita da qualche bagaglio”.

Ha contratto la malaria in ospedale

“Le cronache riportano che in un precedente ricovero della bambina, pochi giorni prima per diabete infantile, nel reparto di Trento fossero presenti due ragazzi ritornati dall’Africa con la malaria. Ripeto: la malattia non è contagiosa nemmeno se si fossero verificati dei contatti, anche molto stretti, tra i pazienti, cosa che può capitare tra i bambini. Il contagio può avvenire solo tramite via ematica, ma da un lato non risulta che sia stata praticata trasfusione, dall’altro mi pare poco plausibile che si sia verificata una puntura accidentale da ago infetto, grazie alle procedure di sicurezza che si applicano normalmente in ospedale. Tuttavia, suppongo che l’indagine interna preveda l’analisi del DNA del Plasmodium che ha infettato i bambini (che sono guariti) e di quello che ha causato la morte della piccola Sofia, per escludere ogni ipotesi di relazione tra i tre casi. Sulla possibilità della presenza in ospedale di una zanzara infetta arrivata con bagagli, credo che nessuno possa saperlo, ma è stata ordinata, come da procedura, la disinfezione del reparto”.

Ritardo diagnostico

Purtroppo quando si tratta di malaria il ritardo diagnostico trasforma una malattia curabile e banale in una malattia che può diventare mortale. Se la diagnosi viene effettuata nel primo o al massimo nel secondo giorno di febbre la probabilità di guarigione è pressoché totale. In questo caso la bambina sembra sia arrivata in ospedale dopo quasi una settimana di febbre. Ma nella tragica vicenda di Sofia, il ritardo diagnostico non è imputabile a nessuno. Io stesso con 35 anni di esperienza nell’ambito della malattie tropicali, e in particolare della malaria, di fronte a una bambina con la febbre alta ma non di ritorno dall’Africa, mai avrei pensato in prima istanza a una simile patologiaAnzi. mi sento di elogiare i colleghi dell’ospedale Santa Chiara di Trento che hanno fatto la diagnosi in tempi strettissimi. Purtroppo la malaria aveva già causato la complicanza cerebrale“.


elena.zuppini@sacrocuore.it