Per il trattamento della Covid 10 non esistono farmaci specifici, ma alcuni farmaci usati per altri patologie si sono dimostrati efficaci. Quali sono? E il plasma autoimmune può essere veramente una soluzione? Il dottor Andrea Angheben, responsabile del reparto di Malattie Infettive e Tropicali, fa il punto sullo sviluppo medico-scientifico nella lotta contro il Coronavirus

La pandemia di COVID-19 ha come non mai messo in evidenza la fragilità dei sistemi socio-sanitari e del processo di produzione delle evidenze scientifiche sulle scelte diagnostiche e terapeutiche. Il tutto, condito con l’appiattimento e la disponibilità delle notizie e delle informazioni al pubblico, ha generato una crisi nella presa di decisioni da parte sia delle autorità di salute pubblica che da parte degli operatori sanitari alle prese con la difficile gestione dei malati di COVID-19.

Tuttavia pur in questo contesto o anzi forse grazie ad esso, vi sono stati degli enormi passi avanti nella diffusione delle informazioni scientifiche: per fare un esempio le riviste scientifiche che normalmente permettono la lettura degli articoli dietro pagamento di una quota, ora offrono gratuitamente la consultazione di qualsiasi articolo che riguardi la nuova pandemia. Inoltre la comunità scientifica si è mossa con straordinaria rapidità e costante sforzo per raccogliere evidenze che possano guidare i sanitari nella loro condotta e la salute pubblica nelle scelte di politica sanitaria.

LE CURE QUASI “MIRACOLOSE”

Abbiamo tutti sentito però parlare di cure efficacissime, se non miracolose durante la prima ondata della malattia, poi smentite. E abbiamo tutti idee discordanti sull’efficacia del plasma iperimmune o sull’immunità di gregge applicata alla pandemia di COVID-19.

TERAPIE CHE SI SONO DIMOSTRATE INEFFICACI

Idrossiclorochina, antiretrovirali (lopinavir ad esempio), azitromicina sono alcuni tra i farmaci utilizzati con tanta speranza nelle prime fasi, ma rivelatisi inefficaci alla prova dei fatti, ovvero quando hanno cominciato ad uscire i dati degli studi più rigorosi (i trials randomizzati controllati).

ALLORA PERCHE’ SONO STATE IMPIEGATE?

Allora perché i medici li hanno utilizzati inizialmente? Si deve sapere che la scelta di questi farmaci si è basata sulle evidenze allora disponibili ovvero sul fatto che in vitro (cioè in laboratorio) questi farmaci avevano dimostrato di essere in grado di inibire o uccidere il SARS-CoV-2 (l’agente patogeno causa di COVID-19) e inoltre vi era una esperienza pluriennale nel loro utilizzo per altre patologie, per cui la preoccupazione per eventuali eventi avversi era ridotta. Infine la conoscenza dello sviluppo della malattia COVID-19 (la patogenesi) confortava nella scelta di tali farmaci: gli antivirali bloccano la replicazione del virus, gli agenti immunomodulanti controllano la tempesta infiammatoria correlata all’azione virale che conduce alla difficoltà respiratoria eccetera.

I TRE FARMACI CHE HANNO DATO RISULTATI

Alla prova dei fatti però, come dicevo, è emerso che solamente tre farmaci, attualmente in uso, hanno degli effetti positivi: il remdesivir, un antivirale sviluppato per i virus a RNA, primo tra tutti l’Ebola-virus; l’eparina a basso peso molecolare che contrasta il rischio di formazione di coaguli tipico della malattia e il cortisone, che ha degli effetti benefici nel ridurre la mortalità da COVID-19 contrastando il processo di danno polmonare.

IL PLASMA AUTOIMMUNE

Il plasma iperimmune contiene anticorpi contro il virus, raccolti e concentrati da donatore e sviluppa la sua azione inibendo il virus. Ci sono due grossolane nozioni che però vanno condivise: la prima è che per trattare un caso di COVID-19 è necessario raccogliere plasma da più donatori, quindi non si può aspettare che questa terapia sia per tutti…; la seconda è che il contrasto all’azione virale è maggiormente esercitato nelle fasi iniziali di malattia che come tutti sanno cominciano con quadro asintomatico o poco sintomatico, ma perde di significato una volta che sono innescati i processi infiammatori che conducono all’espressione clinica più severa della patologia. La cura pertanto andrebbe somministrata per tempo e ciò non è così semplice come sembra. Detto questo, nonostante i tentativi fatti di utilizzare il plasma iperimmune e di collocarne l’uso quando si ritiene più giusto, le prove degli studi randomizzati controllati (tre pubblicati sinora) ci dicono che non è chiaro se causi un beneficio nel ridurre la mortalità e vi sono stati degli eventi avversi anche gravi che non è escluso possano essere correlati al plasma stesso. Insomma ancora non sappiamo, ma sono 138 gli studi clinici in corso.

GLI STUDI DELL’IRCCS DI NEGRAR

L’IRCCS Sacro Cuore è impegnato in vari studi che riguardano COVID-19 in particolare con l’obiettivo di definire l’accuratezza dei test diagnostici (per una diagnosi affidabile e sicura) e l’efficacia di alcuni farmaci (ivermectina, remdesivir). Lo studio COVER che mira a valutare la sicurezza dell’ivermectina (utilizzata a dosaggio antivirale nell’adulto con COVID-19 non ricoverato in ospedale) e la riduzione della carica virale, è attualmente in corso. Lo studio RCT-TCZ, coordinato dall’Azienda USL-IRCCS di Reggio Emilia si è invece recentemente concluso ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista JAMA Internal Medicine. Lo studio mirava a definire l’efficacia del farmaco tocilizumab, indicato come efficace anche nel ridurre la mortalità in precedenti studi metodologicamente meno rigorosi. L’indagine ha coinvolto 24 centri in Italia ed ha arruolato 126 pazienti. Purtroppo è stato interrotto anche prima del completamento degli arruolamenti perché le evidenze raccolte non hanno mostrato l’efficacia del tocilizumab somministrato precocemente (cioè appena il paziente mostrava di iniziare ad aggravarsi) nel prevenire la progressione della malattia rispetto alle cure classiche che non prevedono il farmaco.

Questo è un risultato negativo agli occhi dei più, ma è comunque importante perché ha permesso di evitare l’utilizzo in futuro di un farmaco non efficace (inizialmente raccomandato come miracoloso) e di definire ancora più precisamente quanto non si possa prescindere da un approccio rigoroso ad una patologia insidiosa come COVID-19.

Dr. Andrea Angheben
Responsabile del reparto di Malattie Infettive e Tropicali