La dottoressa Tamara Ursini, medico del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali, la scorsa estate si è recata in Tanzania per un progetto di ricerca con l’Università locale relativa alla schistosomiasi genitale, una malattia “dimenticata”, che colpisce 50 milioni di donne nel modo ed è una delle prime cause di infertilità

Dr.ssa Tamara Ursini

La ricerca nell’ambito delle malattie tropicali, oltre a una grande passione per le patologie originarie del Sud del mondo, richiede anche una certa voglia di viaggiare e un po’ di spirito di avventura. Infatti non di rado l’oggetto d’indagine si trova a migliaia di chilometri di distanza, in condizioni non del tutto agevoli. E’ il caso della dottoressa Tamara Ursini, classe 1983, pescarese, dal 2019 medico del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali dell’IRCCS di Negrar.

Lo studio ha come obiettivo quello di valutare l’affidabilità e l’accettabilità di test basati sulla biologia molecolare per la diagnosi della schistosomiasi genitale femminile, che probabilmente rappresenta la più negletta delle patologie ginecologiche nei Paesi tropicali colpendo una popolazione di per sé maggiormente vulnerabile (le donne). Si stima che oltre 50 milioni di donne nel mondo ne siano affette, la gran parte nei Paesi dell’Africa sub-subsahariana (Tanzania, Madagascar, Malawi, Mozambico e Sudafrica). Tale condizione, oltre a rappresentare una “via” preferenziale per l’acquisizione di infezioni a trasmissione sessuale (es. HIV), sebbene non sia compresa tra queste patologie, rappresenta una delle cause principali di infertilità femminile e dunque di stigmatizzazione sociale.

L’incapacità riproduttiva è fonte di stigma in molti Paesi del continente africano (e non solo). Le donne, temono, se ammalate, di essere respinte dal proprio partner perché sterili. Avere figli in Africa è una ricchezza in termini di riconoscimento sociale”, spiega la dottoressa Ursini.

Dottoressa, cos’è la schistosomiasi?

Si tratta di una patologia negletta causata da un elminta, lo schistosoma, che può avere manifestazioni intestinali, epatiche e uro-genitali. La trasmissione non avviene per via sessuale, ma si contrae tramite il contatto con acque dolci (fiumi o laghi) dove le larve (cercarie), rilasciate dai molluschi, penetrano la cute umana. Nell’uomo le cercarie si sviluppano in vermi adulti che, tramite il circolo sanguigno, raggiungono i plessi venosi mesenterici (dell’addome), vescicali o emorroidali. Qui le femmine producono ogni giorno diverse centinaia di uova che in parte vengono eliminate dall’uomo con feci o urina, a seconda della sede di deposizione. La schistosomiasi genitale femminile si verifica quando le uova intrappolate nei tessuti della vagina, della cervice, dell’utero e delle tube di Falloppio causano reazioni infiammatorie. Ne scaturisce un quadro simile a quello di un’infezione vaginale (con perdite genitali, sanguinamenti, dolore) che comporta, se non curata in tempo, infertilità, sub infertilità e difficoltà a portare a termine la gravidanza.

Perché può favorire l’infezione da HIV o di altre malattie a trasmissione sessuale?

Gli studi documentano che la presenza delle lesioni tipiche della schistosomiasi genitale femminile può facilitare l’acquisizione del virus dell’immunodeficienza umana (HIV) o di altre malattie a trasmissione sessuale incluso il papilloma virus (HPV), responsabile del cancro della cervice uterina. E’ interessante come vi sia una sovrapposizione geografica tra le aree del continente geografico ad elevata presenza di HIV e quelle con maggiore prevalenza di schistosomiasi genitale femminile.

La schistosomiasi si può curare?

Non esiste vaccino, ma abbiamo a disposizione un antielmintico, il Praziquantal, il quale però è efficace solo se somministrato prima che si sviluppino delle lesioni croniche. Quello diagnostico è il vero problema della schistosomiasi genitale femminile e il motivo per cui è una delle forme di schistosomiasi maggiormente sottostimate. Secondo l’OMS la diagnosi dovrebbe essere effettuata da un ginecologo esperto servendosi di una colposcopia e di una biopsia. Pertanto richiede expertise e strumenti difficilmente disponibili in molte zone del sud del mondo. Il nostro progetto ha come obiettivo proprio quello di validare test diagnostici facilmente impiegabili, anche attraverso auto-somministrazione.

Come si sviluppa il progetto di ricerca?

In letteratura sono già presenti dati incoraggianti riguardo l’utilizzo della biologia molecolare (PCR) per la diagnosi di schistosomiasi genitale femminile. Pertanto con il nostro partner locale, Catholic University of Health and Allied Sciences di Mwanza, abbiamo sviluppato un protocollo che prevedeva arruolamento di circa 200 donne di due villaggi rurali del distretto di Maswa. Ciascuna candidata è stata sottoposta a due tipologie di tamponi: un normale tampone cervicale effettuato da me o da un medico ginecologo con l’aiuto di uno speculum e un tampone eseguito direttamente dalle donne, adeguatamente educate da un’operatrice locale. Inoltre le donne raccoglievano un campione di urina per la ricerca delle uova di schistosoma. I tamponi sono stati congelati e saranno valutati con analisi molecolare da un nostro biologo, il dottor Salvatore Scarso, che raggiungerà la Tanzania nel mese di gennaio.

La valutazione dei test viene effettuata in funzione uno screening da proporre alla popolazione femminile a rischio?

Se i test si dimostreranno performanti potrebbero essere inseriti nell’ambito di uno screening più ampio che comprenda anche patologie a trasmissione sessuale, ad esempio l’HPV. Ma non solo: considerando che, in base ai dati di prevalenza disponibili, si stima che migliaia di donne affette da schistosomiasi genitale femminile siano presenti anche nei Paesi non endemici, i test proposti potrebbero trovare applicazione anche nei nostri contesti in particolare in quei servizi dove afferisce popolazione femminile migrante da area endemica.

In che senso?

Le donne migranti sono quotidiane presenze nei nostri ospedali, ma i ginecologi non conoscono la schistosomiasi genitale femminile, probabilmente non ne hanno mai sentito parlare. L’introduzione di questi test potrebbe portare a creare degli ambulatori ad hoc per donne migranti a cui proporre idealmente il test come screening oppure quando manifestano problemi di infertilità, ma senza una diagnosi certa e definitiva.