Il 24 marzo si celebra la Giornata Mondiale della Tubercolosi, malattia che nel 2022 ha causato 1,3 milioni di morti nel mondo. E sono in crescita le forme cosiddette farmacoresistenti, cioè che non rispondono al trattamento con i farmaci tradizionali. Proprio su questo il “Sacro Cuore” sta portando avanti un’importante ricerca presso l’ospedale “Divina Provvidenza” di Luanda in Angola.

I dati globali

Con 10,6 milioni di nuovi casi stimati nel 2022 e 1,3 milioni di morti, la tubercolosi (TB) continua a rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria globale. In occasione della giornata mondiale dedicata a questa malattia, che si celebra domenica 24 marzo, i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità certificano che il numero di casi è tornato a valori superiori al 2019, dopo un calo nel periodo della pandemia da COVID-19 dovuto alla diminuzione dei servizi di diagnosi e trattamento. Resta dunque lontano l’obiettivo che gli organismi internazionali si erano posti di ridurre del 75% i decessi per tubercolosi entro il 2025 (il calo tra il 2015 e il 2022 si è fermato al 19%). Anche per questi motivi il tema della giornata di quest’anno è ”Yes! We can end TB” (Sì! Possiamo mettere fine alla tubercolosi), scelto per invitare i Paesi a mettere in pratica gli obiettivi concordati nelle varie sedi.

Il problema dell’accesso alle cure

“Le due grandi sfide per combattere questa malattia sono l’accesso alle cure e il problema della farmacoresistenza” afferma Paola Rodari, infettivologa del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali diretto dal prof. Federico Gobbi.

Dr.ssa Paola Rodari

“La tubercolosi è quasi sempre curabile – prosegue – specialmente se viene diagnosticata in modo tempestivo. Tuttavia è una malattia molto diffusa in zone caratterizzate da povertà, per cui spesso i malati non riescono a curarsi in modo adeguato”. In tal senso basti pensare che nel 2022 secondo l’OMS solo due malati su cinque hanno avuto accesso al trattamento farmacologico previsto per la tubercolosi. Se a questo aggiungiamo che spesso la malattia si può associare all’infezione da HIV, è chiaro che le cure richieste sono più complesse e hanno un esito più incerto.

La ricerca dell’IRCCS sulla farmacoresistenza in Angola

L’altra grande sfida è quella della farmacoresistenza. Nel 2022 si stima che siano stati 410mila i malati di TB affetti da una forma multiresistente o resistente alla rifampicina, farmaco d’elezione per il trattamento della malattia. Un problema dovuto in parte ad un uso improprio della terapia. “Le forme farmacoresistenti si sviluppano per varie ragioni – sottolinea Rodari – ad esempio quando i farmaci non vengono assunti in modo congruo. Questo crea molti disagi perché in caso di forme resistenti si rende necessario l’uso di farmaci di seconda linea, che spesso implicano trattamenti più lunghi e complessi”.

Proprio sulla farmacoresistenza in riferimento alla tubercolosi è in corso un progetto di ricerca che vede impegnati in prima linea i ricercatori del Sacro Cuore.

Il progetto è iniziato attivamente lo scorso settembre a Luanda, in Angola, presso l’Hospital Divina Providência (HDP) che è una struttura sanitaria dell’Opera Don Calabria di cui il Sacro Cuore è partner e consulente per la ricerca scientifica e le malattie infettive e tropicali. Il progetto è svolto con l’aiuto di un ente sanitario angolano, l’INIS, coinvolgendo pertanto anche attori della sanità angolana. L’intento è quello di studiare il tasso di tubercolosi multiresistente fra i pazienti con tubercolosi che accedono all’HDP, in quanto i dati sulla situazione angolana sono molto scarsi e ci si attendono livelli di multiresistenza assai elevati. Si stima che, ogni mese, circa 300 nuovi casi di tubercolosi vengano diagnosticati presso l’HDP, il che dà l’idea di quanto sia diffusa tale malattia e dell’importanza di avere dati certi sul tasso di resistenza ai farmaci.

L’HDP di Luanda visto dall’alto
La tubercolosi al Sacro Cuore

A livello italiano i casi di tubercolosi notificati nel 2022 sono stati 2.700, con un’incidenza pari a 4,6 ogni 100.000 abitanti. Di questi sono circa quaranta quelli presi incarico lo scorso anno dall’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. “I pazienti che vediamo sono di due tipi – spiega l’infettivologa – anzitutto ci sono i migranti che spesso sono entrati in contatto con il micobatterio anni prima nel loro Paese di origine e che poi si ammalano in Italia, anche perché le condizioni del viaggio e lo stress della loro nuova condizione può comportare un abbassamento delle difese immunitarie. In altri casi vediamo pazienti anziani nati in Italia che hanno contratto il batterio in gioventù (quando la TB era una malattia più frequente rispetto ad oggi) e sviluppano la malattia quando il fisico è più fragile”.

I casi di tubercolosi vengono rilevati o attraverso lo screening che viene effettuato sulle popolazioni a rischio (ad esempio migranti) oppure in caso di sospetto clinico dovuto alla presenza di sintomi. In caso di sospetta TB si procede alla diagnosi attraverso specifici esami di laboratorio, disponibili al Sacro Cuore. Qualora si sospetti una tubercolosi polmonare, che è l’unica forma contagiosa di malattia, oppure se le condizioni di salute lo richiedono, il paziente può essere ricoverato nelle stanze di isolamento del reparto di Malattie Infettive e Tropicali, dove si procede agli accertamenti diagnostici e viene poi avviata la terapia specifica. Appena possibile, il paziente viene dimesso e affidato al servizio ambulatoriale dedicato, dove può proseguire il monitoraggio e vengono forniti i farmaci per proseguire la terapia a domicilio. Solitamente la durata della terapia è di almeno sei mesi, ma in alcuni casi è necessario un trattamento più lungo.

La terapia preventiva

A livello globale, si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia entrata in contatto con il micobatterio della tubercolosi, ma questo non significa che tutti svilupperanno la malattia; infatti nella grande maggioranza dei casi questa è bloccata dal sistema immunitario. “Talvolta, quando si riscontra la presenza di infezione senza malattia attiva, si procede a somministrare al paziente una terapia preventiva. Tuttavia questa procedura non è indicata per tutti, ma solo per popolazioni selezionate, ad esempio i pazienti candidati a terapia immunosoppressiva proprio per evitare che l’indebolimento del sistema immunitario permetta lo sviluppo della malattia”, conclude la dottoressa Rodari.