Cure dignitose e accompagnamento ai familiari nella quotidianità degli stati vegetativi

Oggi si celebra la nona Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi, a dieci anni esatti dalla scomparsa di Eluana Englaro. Anche a Negrar ogni giorno si affronta questa grave disabilità in Riabilitazione e nella Speciale Unità di Accoglienza Permanente

Esattamente dieci anni fa, il 9 febbraio 2009, moriva Eluana Englaro dopo 17 anni trascorsi in stato vegetativo a causa di un incidente stradale avvenuto quando lei aveva 21 anni, nel 1992. Dal 2011 il 9 febbraio è diventata la Giornata Nazionale degli Stati Vegetativi, giunta quest’anno alla nona edizione.

 

Si tratta di una ricorrenza che tocca da vicino anche la Cittadella della Carità di Negrar, che fu tra le prime realtà in Veneto ad occuparsi direttamente di questi pazienti. Era il 2001, infatti, quando presso Casa Nogarè venne creata una Speciale Unità di Accoglienza Permanente (SUAP) con 12 posti letto dedicati proprio a persone in stato vegetativo o di minima responsività. Inoltre il fatto di avere una Unità di Riabilitazione Intensiva all’interno dell’ospedale comporta che ogni anno vengano presi in carico alcuni pazienti che si ritrovano in stato vegetativo a seguito di gravi lesioni acquisite al cervello per traumi o per eventi di origine vascolare o cardiaca.

 

“In realtà nel tempo abbiamo riscontrato un calo nel numero di nuovi pazienti in stato vegetativo – puntualizza il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento di Riabilitazione – In particolare si è ridotto il numero di persone con esiti di trauma cranico, mentre in proporzione sono di più coloro che subiscono danni gravissimi al cervello dopo arresto cardiaco o emorragie cerebrali. In ogni caso i numeri sono significativi, in quanto su circa 80 pazienti ricoverati ogni anno nella nostra Riabilitazione Intensiva, il 10% dà esiti di stato vegetativo o di minima responsività“.

 

Cambiando le origini del danno, cambia anche il profilo d’età di chi ne viene colpito. Infatti nel tempo si è assistito ad una diminuzione dei pazienti giovani, grazie in particolare a misure efficaci prese per aumentare la sicurezza sulle strade, mentre l’età media degli stati vegetativi che vengono presi in carico al Sacro Cuore Don Calabria supera ormai i 50 anni.

 

Per tutti questi pazienti esiste una doppia linea di presa in carico: quella rivolta al miglioramento clinico, alla stabilizzazione delle condizioni neurologiche, alla prevenzione dei danni da immobilizzazione e quella rivolta all’accompagnamento dei familiari e alle scelte di vita successive all’ospedalizzazione. E’ quindi assolutamente opportuno che i pazienti rimangano per i primi mesi ricoverati in Riabilitazione, soprattutto per accertarsi della diagnosi. A questo proposito la vera condizione di stato vegetativo è piuttosto rara, mentre è piu’ facile che i pazienti si stabilizzino nella condizione di “minima responsività”. E’ questa una situazione che implica comunque una totale dipendenza ma che si differenzia per una variabile, pur sempre molto ridotta, possibilità di relazione.

 

Il vero problema di queste persone gravemente disabili non sta nella diagnosi o nella cura. Sta invece nella gestione della cronicità, essendo sempre piu’ difficile la domiciliazione. “Anzitutto c’è da dire che i posti nelle residenze che fanno accoglienza permanente sono insufficienti – sottolinea il dottor Avesani – Il loro numero è fermo da molti anni, a fronte di un turn over assai lento per cui i nuovi malati faticano molto a trovare un posto dopo che vengono dimessi dall’ospedale. Quando poi il paziente è un migrante, magari irregolare- perchè il problema può riguardare anche loro- allora il dramma è doppio e si fa un’enorme fatica a trovare uno sbocco dopo l’ospedale”.

 

Paradossalmente l’emergenza consiste quindi nella gestione della cronicità, mentre appare più lineare il percorso nella fase iniziale della diagnosi e della cura dopo che una persona ha subito un trauma o un’emorragia grave. La quotidianità di questi pazienti è fatta di accudimento, assistenza, cure e percorsi di stimolazione, ad esempio attraverso la musica, per valorizzare la dignità di personeche non hanno più la capacità di interagire con l’ambiente esterno se non in piccolissima parte nei casi di “minima responsività”. “Certamente sono stati fatti dei passi avanti nella qualità del prendersi cura degli stati vegetativi – conclude il direttore della Riabilitazione – ma tutti vorremmo assistere un giorno a progressi nella ricerca per dare anche prospettive migliori nella prognosi. C’è in fondo un dovere etico di tenere alta l’attenzione su questo problema che rimane attuale nonostante se ne parli meno. Questo lo si deve alle persone colpite da questa gravissima disabilità e ai loro familiari che hanno davvero bisogno di tutto il sostegno possibile per affrontare un percorso molto lungo e difficile al fianco dei loro cari malati”.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Il microbiota: il secondo cervello del nostro organismo

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Il ruolo delle cellule batteriche nella genesi delle malattie più diffuse è ormai un dato di fatto: un congresso multispecialistico a Verona delinea le prospettive terapeutiche future che derivano dall’interazione del microbiota con gli altri organi

Il nostro corpo è dotato di un organo che le tradizionali tavole di anatomia non hanno mai illustrato, ma dal quale dipende la nostra salute psico-fisica. E’ il microbiota, termine con cui viene identificata la popolazione batterica presente nel nostro intestino, dove vivono 1000 specie batteriche possibili, almeno 160 in ogni individuo. Proprio per la biomassa di 1,5 chilogrammi formata da 100 trilioni di cellule batteriche, il microbiota è considerato a tutti gli effetti un organo, capace di presiedere a funzioni dell’intestino e dell’intero organismo.

 

Riguardo al microbiota si è concentrato da alcuni anni l’interesse delle discipline mediche più disparate: dalla gastroenterologia alla psicologia, passando per la neurologia, l’urologia e la ginecologia. Per un motivo comune: gli studi scientifici hanno dimostrato che l’alterazione della popolazione batterica dell’intestino scatena processi, come l’infiammazione, che sono all’origine della malattie più diffuse.

 

Proprio sulla correlazione tra benessere del microbiota e salute degli altri organi giovedì 14 (pomeriggio) e venerdì 15 febbraio si confronteranno in un convegno a Verona specialisti provenienti da varie realtà ospedaliere e universitarie italiane ed internazionali.L’incontro scientifico (accreditato per medici, farmacisti, dietisti, biologi e psicologi) è stato organizzatoal Palazzo della Gran Guardia dal dottor Guido Arcaro, direttore della Medicina generale dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, e dalla dottoressa Manuela Fortuna, gastroenterologa della medesima struttura (programma in allegato).

 

“Parleremo di patologia infiammatoria e oncologica intestinale, di allergie, di malattie neurologiche e psichiatriche nell’adulto e nel bambino in relazione alla funzione del microbiota – spiega il dottor Arcaro -. L’obiettivo è quello di fornire uno sguardo multidisciplinare sull’argomento per chiarirne la complessa interazione con diversi organi e funzioni al fine di sfruttarne le potenzialità terapeutiche”.

 

Dottor Arcaro, che ruolo ha il microbiota?

Il microbiota ha innanzitutto un ruolo protettivo nel mantenere l’integrità anatomo -funzionale della parete intestinale. Da un lato contribuisce ad impedire l’ingresso di sostanze patogene provenienti dal lume intestinale. Dall’altro ha funzioni metaboliche fondamentali. Per esempio è popolato da specie batteriche che hanno proprietà di fermentazione saccarolitica, cioè di digestione di carboidrati complessi, mettendo così a disposizione dell’organismo elementi energetici che altrimenti non sarebbero assorbibili. Come, ma non solo, gli acidi grassi a catena corta, SCFA, che provvedono al 5-10% del fabbisogno totale di energia di cui necessita il nostro corpo. Ma il lavoro di sinergia tra il microbiota e l’intestino non si ferma qui.

Quali sono le altre funzioni del microbiota?

Esso interviene nella produzione di una serie di molecole che svolgono un ruolo fondamentale nei processi fisiopatologici delle malattie più comuni, processi come l’infiammazione, lo stress ossidativo e la capacità di risposta immunitaria verso agenti esterni. A microbiota alterato, per esempio, corrisponde nel neonato un maggior rischio di patologia allergica. In considerazione poi della quantità e della eterogeneità delle malattie in cui svolge un ruolo l’infiammazione – l’aterosclerosi, le patologie oncologiche, quelle neurodegenerative come l’Alzheimer… – risulta evidente il perché dell’attenzione che oggi viene data al microbiota.

 

Perché c’è una correlazione tra microbiota ed infiammazione?

Il microbiota per diverse cause può subire un’alterazione (o disbiosi) del numero di cellule batteriche o un’alterazione della proporzione delle specie batteriche fra loro. E questo favorisce o protegge dall’infiammazione. La prevalenza di specie proteolitiche, cioè con proprietà di digestione delle proteine, comporta una maggiore liberazione di sostanze pro-infiammazione. Accade invece il contrario se a prevalere sono specie batteriche capaci della fermentazione saccarolitica.

 

Quali sono le cause che provocano la disbiosi?

Possono essere una dieta ricca di proteine e grassi; oppure un utilizzo improprio di antibiotici; uno stato patologico dell’intestino, come nel caso delle malattie infiammatorie croniche intestinali; la stessa età e lo stress.

 

Perché il microbiota viene definito “il secondo cervello”?

La collaborazione tra intestino e microbiota libera nel sangue delle sostanze che agiscono sul tono dell’umore e sulla salute delle cellule nervose cerebrali, come il triptofano, la seratonina, GABA e BDNF. Non dimentichiamo poi che gli studi riconoscono nello stato infiammatorio un ruolo nella genesi della depressione oltre che delle più importanti malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e la sclerosi multipla. Durante il convegno parleremo anche del legame tra disbiosi del microbiota del neonato e autismo.

 

Quali sono le potenzialità della scoperta della correlazione tra disbiosi del microbiota e l’origine di molte malattie?

Le potenzialità sono molte. Oggi grazie a tecniche di sequenziamento genico sulle feci possiamo stabilire esattamente il rapporto in percentuale tra le diverse specie presenti nel microbiota di ogni singolo individuo. L’obiettivo è quello di agire con probiotici (quelli che comunemente vengono chiamati fermenti lattici) specifici, calibrati, in grado di modulare favorevolmente i più importanti processi di malattia.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Il Presidente Mattarella visita l'Ospedale dell'Opera Don Calabria in Angola

La visita si è svolta ieri nell’ambito del viaggio di Stato in Angola. La struttura di Luanda lavora in sinergia con il “Sacro Cuore Don Calabria” e gli ospedali di Marituba (Brasile) e Manila (Filippine)

Ieri pomeriggio il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto visita all’ospedale Divina Provvidenza dell’Opera Don Calabria a Luanda, in Angola, nel corso del viaggio di Stato nel Paese africano. L’ospedale di Luanda è stato fondato nel 1994, in piena guerra civile, dalla Congregazione di don Calabria con la collaborazione dell’ONG veronese Unione Medico Missionaria Italiana (UMMI), che promuove progetti di cooperazione di tipo sanitario, educativo e formativo in vari Paesi.

 

La struttura lavora in sinergia con gli altri tre ospedali dell’Opera Don Calabria nel mondo: l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Italia), il “Divina Provvidenza” di Marituba (Brasile) e la clinica “Francesco Perez” di Manila (Filippine).

 

Nel suo breve saluto il Presidente, accompagnato dalla figlia Laura e dall’ambasciatore Claudio Miscia, ha ringraziato l’Opera calabriana e l’Unione Medico Missionaria Italiana per l’impegno profuso in questa attività, e ha ricordato che il senso della cooperazione è proprio quello di aiutare le persone più povere, come accade in questa struttura. “Questo ospedale è un esempio dei buoni frutti che possono portare l’amicizia e la collaborazione tra Italia e Angola ed è doveroso l’impegno a favore di attività di questo tipo che mettono al centro le persone e i loro bisogni”.

 

Ad accogliere il Presidente, dopo il saluto del direttore generale dell’ospedale padre Alves Tchilunda, è stato il missionario padre Beniamino Zanni che ha illustrato come il senso della presenza di don Calabria in Angola sia quello di stare vicino alle persone più fragili affidandosi alla Provvidenza e cercando di “fare bene il bene”. Quindi la rappresentante dell’UMMI Lucia Verzotti ha rivolto un messaggio a nome del presidente della ONG veronese, Alessandro Galvani, sottolineando l’importanza dei progetti di cooperazione nello sviluppo dell’ospedale e il ruolo determinante dei volontari italiani, oltre 250 molti dei quali veneti, inviati proprio grazie all’UMMI.

 

A seguire, il Presidente Mattarella ha visitato il reparto di Pediatria dell’ospedale, soffermandosi in modo particolare nelle stanze dedicate alla terapia intensiva e al centro nutrizionale terapeutico per bambini piccoli gravemente denutriti.

 

All’evento erano presenti anche alcuni rappresentanti del CUAMM di Padova, ente che è partner dell’Opera e dell’UMMI in un grande progetto di cooperazione avviato da alcuni mesi nel campo della prevenzione e cura dell’HIV/AIDS a Luanda (vedi articolo), progetto che vede tra i partecipanti anche l’Università degli Studi di Trieste e l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, specializzato proprio nella ricerca in malattie infettive e tropicali.

 

Da venticinque anni il centro ospedaliero angolano rappresenta un modello di cooperazione internazionale ed è un punto di riferimento sanitario per quasi 2 milioni di poveri che vivono nel quartiere periferico di Kilamba Kiaxi, soprattutto nell’ambito della pediatria, della lotta alla malnutrizione infantile, della cura della tubercolosi e dell’HIV/AIDS.

 

Il “Divina Provvidenza” di Luanda è dotato di 136 posti letto, divisi tra medicina, malattie infettive, pediatria e centro nutrizionale terapeutico. Nel 2018 i ricoveri sono stati 4.639, di cui 681 hanno interessato bambini gravemente malnutriti di età compresa fra 0 e 3 anni. Oltre 7mila i pazienti tenuti sotto controllo medico o trattati a livello terapeutico per l’HIV. 74mila i vaccini somministrati in modo capillare grazie alla presenza di 5 posti di salute periferici nel quartiere che sono un vero e proprio avamposto della struttura centrale.

 

L’Opera Don Calabria è presente in Angola fin dal 1982, quando nel Paese infuriava una sanguinosa guerra civile che sarebbe finita solo nel 2002. Tante sono le testimonianze di religiosi e volontari che si sono spesi per questa missione, talvolta pagando con la propria vita come nel caso di don Umberto Negrini, missionario calabriano che venne ucciso dalla criminalità locale nel 1999.

 

Oltre all’ospedale, oggi i Fratelli e le Sorelle dell’Opera nel Paese portano avanti molte attività in campo sociale, educativo e pastorale: un asilo, 5 scuole, 2 centri professionali, 2 centri diurni e 3 case di accoglienza per bambini di strada. I bambini e ragazzi accompagnati in modo diretto in tali attività sono 5mila, non solo a Luanda ma anche in altre regioni del Paese, spesso in comunità sperdute nelle aree più remote.

 

“E’ un grande onore per noi la visita del Capo dello Stato – sottolinea padre Miguel Tofful, Superiore Generale dell’Opera Don Calabria – ed è il riconoscimento del grande lavoro fatto per servire tante persone povere che diversamente non avrebbero avuto accesso a cure sanitarie dignitose. Il nostro fondatore ci chiede di andare là dove umanamente non c’è nulla da ripromettersi e credo che l’ospedale di Luanda, al tempo in cui nacque, rispondesse proprio a questo mandato”.


World Cancer Day: prevenzione!...anche con i vaccini

Il 4 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata contro il cancro: sconfiggere questa malattia è un impegno che riguarda tutti, iniziando dalla prevenzione che comprende anche i vaccini

Il 4 febbraio è il World Cancer Day, la giornata mondiale contro il cancro, promossa dall’Uicc (Union for Internatiol Cancer Control), l’organizzazione non governativa che si pone come obiettivo di promuovere ed incentivare tutte le azioni finalizzate alla prevenzione e alla cura del cancro in ogni Paese del mondo.

 

Sono 9,6 milioni le persone che ogni anno muoiono a causa di questa malattia, numero che nel 2030 potrebbe salire a 13 milioni, se non ci sarà, afferma l’Uicc, un impegno globale da parte delle istituzioni politiche, sanitarie e scientifiche, ma anche di ogni singolo cittadino. Perché se da un lato le morti per cancro sono dovute, per esempio, alla disparità di accesso alle cure e ai programmi di screening che sussiste tra i diversi Paesi – ma anche all’interno dello stesso Paese, pensiamo al Nord e Sud d’Italia -, molto è affidato alla responsabilità di ciascuno di noi.

 

Infatti le armi più potenti per combattere il cancro restano la prevenzione e la diagnosi precoce anche con l’adesione agli screening.
Il 40% di tutte le forme di cancro potrebbero essere evitate assumendo una dieta equilibrata (quella Mediterranea resta la più indicata), assumendo una quantità moderata di alcol, eliminando completamente dalla propria vita il fumo di sigaretta, praticando un’attività fisica anche moderata, ma costante che tra l’altro permette il controllo del peso.

 

In Italia sono attivi tre programmi di screening: per il tumore al seno (esame mammografico), alla cervice uterina (Pap-test), e per la neoplasia del colon-retto (ricerca del sangue occulto nelle feci), rivolto quest’ultimo sia agli uomini che alle donne. La logica dello screening è quella di diagnosticare il tumore nella fase precoce del suo sviluppo o addirittura in quella precancerosa. La diagnosi precoce infatti aumenta notevolmente le opzioni terapeutiche e la percentuale di guarigione.

 

La prevenzione tuttavia passa anche dai vaccini: tra i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza dei tumori vi sono le infezioni. Si stima infatti che l’8,5% delle neoplasie sia dovuto all’azione oncogena di virus e batteri. Il Papilloma Virus-HPV e il virus che provocano l’epatite B sono tra gli agenti infettivi più noti che causano i tumori e per i quali disponiamo vaccini sicuri previsti nel piano nazionale vaccinazioni (vedi articolo)

 

Nella video Galley: la dottoressa Stefania Gori (direttore dell’Oncologia Medica dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e presidente dell’Associazione Italiana Oncologia Medica), il professor Giuseppe Zamboni (direttore dell’Anatomia Patologica dell’IRCCS di Negrar), il dottor Rocco De Vivo (dell’Oncologia dell’Ospedale San Bortolo di Vicenza) e la dottoressa Silvia Franceschi (direttore scientifico del Centro di Riferimento Oncologico di Aviano) spiegano perché sono importanti questi vaccini, i meccanismi attraverso i quali i virus causano i tumori e gli scenari futuri: questi virus ci aiuteranno a scoprire la cura delle neoplasie che provocano?


Antibiotico-resistenza: un nemico per la nostra salute

Le infezioni da germi resistenti agli antibiotici è un vero problema di salute pubblica, coinvolge le strutture sanitarie, ma anche ognuno di noi nel corretto uso di questi farmaci

Dagli scienziati e da chi si occupa di politiche sanitarie l’insorgenza di infezioni causate da germi resistenti agli antibiotici viene definita la sfida mondiale dei prossimi anni, anche se esse sono già responsabili di decine di migliaia di decessi in Europa.

 

Alla scoperta degli antibiotici l’umanità deve la sconfitta di molte infezioni altrimenti letali, ma oggi la medicina si trova in molti casi di fronte all’inefficacia di questi farmaci nel debellare infezioni provocate dagli stessi germi che invece solo alcuni anni fa riusciva a sconfiggere. Un dato su tutti: in Italia il 25% degli stafilococchi aurei – responsabili della maggior parte delle infezioni della pelle e dei tessuti molli e trasmissibili tramite contatto – è multiresistente.

 

“Significa che in questi casi per curare le infezioni da stafilococco aureo non possiamo più limitarci a prescrivere i vecchi antibiotici per via orale, siamo bensì costretti a ricorrere ad antibiotici che, il più delle volte, possono essere assunti solo per via endovenosa, costringendo i pazienti a un ricovero ospedaliero. Addirittura alcuni germi gram negativi hanno sviluppato una tale resistenza multipla da renderci disarmati rispetto alle conseguenze delle infezioni da essi causate”, sottolinea l’infettivologo, Giuseppe Marasca (Photo Gallery).

 

Dottor Marasca, come si è sviluppata l’antibiotico-resistenza?

I batteri sono microrganismi e, cosa che li accomuna a tutti gli esseri viventi, hanno come obiettivo ultimo quello di sopravvivere. Pertanto negli anni hanno sviluppato meccanismi di resistenza contro gli antibiotici, in particolare nella loro composizione cellulare sono comparsi degli enzimi in grado di digerire gli antibiotici stessi. E di renderli inefficaci.

 

E’ già quantificabile questo problema?

Nel novembre dello scorso anno, i ricercatori dell’European Center for Disease Prevention and Control, un’agenzia dell’Unione Europea con sede a Stoccolma, guidati da Alessandro Cassini, hanno pubblicato su Lancet Infectious Diseases uno studio sull’impatto delle infezioni causate da germi resistenti nella popolazione europea. In base ai dati disponibili del 2015, è emerso che sono state 700mila le infezioni di questo tipo di cui 500mila legate alla pratica sanitaria. Non solo: i decessi attribuibili a queste infezioni sono stati 30mila e ben 10mila di questi si sono verificati in Italia. Siamo difronte a numeri impressionanti: le patologie da germi multiresistenti nel nostro Paese provocano più morti degli incidenti stradali! Ma c’è un altro dato da prendere in considerazione: il cosiddetto DALY (Disability-Adjusted Life Years), l’indice di misura della gravità di una malattia, espressa come numero complessivo di anni persi per disabilità. Per le infezioni da germi multiresistenti l’indice di gravità per l’Italia è pari a 440 DALYs per 100.000 abitanti, contro una media europea di 131 DALYs per 100.000.

 

Cosa si sta facendo in Italia per invertire la rotta?

Nel novembre 2017 il ministero della Salute ha redatto il Piano nazionale di contrasto dell’antimicrobico resistenza (PNCAR), tradotto poi anche in programmi regionali, in cui vengono stabiliti degli obiettivi per affrontare e contrastare il problema. Il Piano agisce su sei ambiti d’intervento: sorveglianza, prevenzione e controllo delle infezioni, uso corretto degli antibiotici, formazione dei medici, comunicazione e informazione, ricerca ed innovazione. Per l’uso corretto degli antibiotici il Piano indica, tra l’altro, che tutti gli ospedali si dotino di un programma di stewardship antimicrobica, guidato, ove possibile, da un infettivologo con il sostegno attivo del farmacologo clinico, del microbiologo, della direzione sanitaria. Anche il nostro ospedale si sta rapidamente muovendo in questa direzione e grazie alle strutture del nostro IRCCS per le Malattie Infettive e Tropicali di concerto con l’Istituto di Malattie Infettive dell’Università di Verona, sarà a breve dotato del SANE (Stewardship Antimicrobica Negrar). Dall’inizio di gennaio ho iniziato il mio servizio a Negrar anche per aiutare a realizzare questo ambizioso progetto.

 


Quello della diffusione delle infezioni da germi multiresistenti è un problema che riguarda esclusivamente le strutture sanitarie?

No, anche se il numero maggiore di infezioni si sviluppa in questi ambiti perché è soprattutto negli ospedali o nelle lungodegenze che gli antibiotici vengono utilizzati, non sempre in modo ottimale, ed è in questi luoghi che si diffondono più facilmente le infezioni. Non potrà esserci una buona stewardship antimicrobica senza che si rafforzi contestualmente il controllo delle infezioni. Mettere in atto cioè tutte quelle misure e procedure atte ad evitare il diffondersi delle infezioni. Noi sappiamo che il 40% delle infezioni in ospedale potrebbe essere evitato semplicemente se gli operatori sanitari procedessero a lavarsi le mani ogni volta che iniziano ad assistere un nuovo paziente. Nel caso di pazienti colonizzati da germi multi resistenti, l’utilizzo di procedure di isolamento da contatto, per esempio usando camici e guanti a perdere ogni volta che si passa da un paziente all’altro, è in grado di abbattere l’incidenza di nuove infezioni. La stewardship si esercita anche e soprattutto tramite l’uso razionale degli antibiotici, condividendo il loro impiego tramite l’adozione di protocolli diagnostico-terapeutici, somministrando l’antibiotico soltanto per il tempo strettamente necessario, evitando di utilizzare “profilassi” per periodi prolungati, oltre l’indicazione delle linee guida.

 

L’assunzione non corretta degli antibiotici è un errore comune. Non c’è casa in cui non esista un armadietto dei farmaci con un antibiotico per le emergenze…

L’automedicazione con antibiotici è un’abitudine senza dubbio da disincentivare, non solo perché dannosa per il singolo, ma perché va ad alimentare anch’essa il fenomeno dei batteri multiresistenti.

 

Quali sono i punti di un uso corretto?

L’antibiotico va assunto solo quando serve, quindi quando è in atto un’infezione batterica e non virale, qual è per esempio l’influenza. Deve sempre essere prescritto dal medico e rispettato il dosaggio per il tempo necessario a debellare l’infezione. Una posologia fai da te, riducendo la dose e i giorni previsti di assunzione, significa non garantire nel sangue una quantità di farmaco sufficiente perché sia efficace. Facendo così si rischia che molti batteri siano eliminati, ma nello stesso tempo che altri continuino a prosperare e a sviluppare resistenze. D’altro canto se si aumenta il periodo di assunzione si va ad impattare sulla flora batterica dell’intestino che ha anche una funzione immunologica.

 

Quanto gli antibiotici nell’alimentazione degli animali che poi finiscono sulla nostra tavola influisce sull’antibiotico-resistenza?

Su 100 chili di antibiotico prodotto, si stima che tra 50 e 90 chilogrammi vengano impiegati nell’allevamento degli animali da carne, in quanto ne favoriscono la crescita. Ancorché tale pratica sia stata proibita nella UE, essa viene ancora utilizzata in moltissimi Paesi, anche nella itticoltura. Non esistono studi che dimostrino con certezza una correlazione tra le infezioni antibiotico-resistenti nell’uomo e la carne che noi mangiamo. Tuttavia si fa verso un concetto olistico di One-Health, che affronta il problema della antibiotico-resistenza a 360 gradi considerando anche il problema degli animali da allevamento. Tanto che il PNCAR comprende anche un parte veterinaria.

elena.zuppini@sacrocuore.it


La fisioterapia "sulle corde" per curare il mal di schiena

Il metodo è stato adottato dal Servizio di Riabilitazione di via San Marco per il trattamento del dolore muscolo-scheletrico di lunga durata: esercizi eseguiti in sospensione da terra, quindi in un ambiente instabile ma controllato

Si chiama “RedCord” l’innovativo trattamento per il dolore muscolo-scheletrico di lunga durata adottato recentemente dalla Riabilitazione Ortopedica Ospedale Sacro Cuore, di via San Marco 121.

 

Nato in Norvegia, si avvale di funi, fasce e corde grazie alle quali vengono eseguiti in sospensione esercizi personalizzati, in assenza di dolore o in stato di dolore inalterato. Studi scientifici evidenziano i benefici apportati dall’utilizzo di questo trattamento, in particolare per le persone affette da lombalgia, lombosciatalgia, cervicalgia, cervicobrachialgia, patologie della spalla, del ginocchio, della caviglia. È efficace anche nei casi di trattamento e prevenzione di lesioni muscolari e di riabilitazione post-intervento ortopedico. La tecnica riabilitativa “RedCord” è indicata non solo per persone adulte o anziane, ma anche per i bambini e gli adolescenti e gli sportivi.

 

«Si tratta di un approccio terapeutico che ha come protagonista attivo il paziente supportato dal fisioterapista. Le caratteristiche principali sono esercizi adattati a ogni caso e eseguiti in sospensione da terra, quindi in un ambiente instabile ma controllato grazie al sistema “Redcord Workstation”», spiega il dottor Roberto Filippini, responsabile medico del Centro. «Il trattamento si focalizza sull’ottimizzazione del controllo neuromuscolare, con un incremento graduale del carico di lavoro senza per questo intensificare lo stato doloroso, anzi in molti casi il dolore si attenua o sparisce, nonostante lo sforzo intenso».

 

Con questa metodica vengono rafforzati i muscoli locali e globali, vengono migliorati il controllo del distretto lombo pelvico, l’equilibrio e la flessibilità muscolo-scheletrica. “È un metodo con il quale fin dalle prime sedute si percepiscono dei benefici per quanto riguarda la forza e la qualità del movimento – sottolinea il dottor Filippini -. L’obiettivo tuttavia è quello di mantenere i miglioramenti nel tempo, di conservare le funzioni recuperate e di ridurre il rischio di recidive”.

 

RedCord” è stato oggetto di un corso riservato agli specialisti – fisioterapisti e laureati in scienze motorie – che si è tenuto recentemente presso il Servizio di Riabilitazione Ortopedica. Si tratta del primo di una serie di aggiornamenti anche per il prossimo anno. «Il dolore muscoloscheletrico è uno stato patologico sempre più diffuso, che, se non ben gestito, può limitare fortemente la mobilità di una persona fino a diventare invalidante – conclude il medico -. Il nostro scopo è quello di creare un team di fisiatri, fisioterapisti e laureati in scienze motorie che risponda alle esigenze delle persone affette da questo problema, offrendo loro un’ampia gamma di tecniche finalizzate a un trattamento personalizzato».

 

Il Servizio di Riabilitazione Ortopedica offre prestazioni per la prevenzione e il recupero di tutte le patologie traumatiche, croniche, degenerative, post-chirurgiche. Ad effettuarle sono i medici fisiatri e i fisioterapisti del nosocomio di Negrar, guidati dal dottor Filippini, che è anche direttore della Medicina dello Sport, e dal dottor Claudio Zorzi, direttore sanitario del Servizio di via San Marco e direttore dell’Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale della Valpolicella. Il Servizio è aperto dal lunedì al venerdì dalle ore 9 alle ore 18; l’accesso alla palestra è invece possibile dalle ore 7 alle 19. Per informazioni e prenotazioni: tel. 045.6013980; email: riabilitazione. ortopedica@sacrocuore.it


Viva lo sci, ma con la giusta preparazione

“Un fisico allenato è alla base della prevenzione di qualsiasi tipo di infortunio”: le indicazioni del dottor Roberto Filippini, direttore della Medicina dello Sport, per affrontare al meglio la pratica sciistica

L’inverno è la stagione per eccellenza dello sci, dei week end sulle piste e, per i più fortunati, della settimana bianca. Ma anche il divertimento richiede buon senso e respinge l’improvvisazione, perché giornate piacevoli all’aria aperta non si trasformino in un arriverderci alle montagne innevate per lungo tempo. Ma come come prepararsi per affrontare al meglio le piste? Risponde il dottor Roberto Filippini (nella PhotoGallery), direttore della Medicina dello Sport dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

“La regola vale per lo sci ma anche per ogni altra disciplina: non si può intraprendere uno sport senza preparazione atletica. Questo perché un fisico allenato è alla base della prevenzione di qualsiasi tipo di infortunio. Lo sci è uno sport di potenza e la maggior parte degli incidenti accadono a causa delle cadute, provocate generalmente dalla stanchezza, che diminuisce le forze e il controllo muscolare. Una buona preparazione atletica – modulata in base all’intensità dello sforzo fisico che si vuole intraprendere – abbassa notevolmente il rischio di cadute”.

Quale preparazione consiglia?

La più indicata è la ginnastica presciistica. Consiste in una base di allenamento cardio-polmonare accompagnato da una serie di esercizi – alle macchine ma anche a corpo libero – per potenziare la forza degli arti inferiori e superiori, l’equilibrio e la coordinazione.

A quali infortuni va maggiormente incontro uno sciatore?

La tipologia di infortuni causati dalle cadute è cambiata nettamente da quando è stata modificata l’attrezzatura, in particolare gli scarponi. Pochi anni fa proprio perché lo scarpone era più basso, erano più frequenti le fratture della tibia e del perone. Con l’introduzione sul mercato della calzatura più alta, l’articolazione maggiormente interessata è diventata il ginocchio, con traumi distorsivi di gravità variabile. La caduta accidentale tuttavia non risparmia gli arti superiori. Per gli sciatori sono più a rischio le spalle (lussazioni e fratture dell’omero), mentre tra gli snowbordisti sono più frequenti le fratture del polso e delle dita delle mani. Grazie all’obbligatorietà dell’uso del casco, si registrano meno traumi cranici, causati non tanto dalle cadute ma dall’impatto contro un altro sciatore o contro ostacoli di varia natura, compresi gli alberi e i piloni della seggiovia.

Quali accorgimenti adottare se non si è sportivi e non si è fatta una preparazione specifica, ma si vuole sciare lo stesso?

Innanzitutto mai abusare di se stessi, magari sciando ininterrottamente dall’alba al tramonto. Ai primi segni di stanchezza, è bene fermarsi. Anche una corretta alimentazione è importante: è sconsigliato riprendere gli sci appena mangiato soprattutto se abbondantemente, come accade spesso in montagna.

Perché?

Per due ordini di ragioni. Con il freddo si può andare incontro a problemi di tipo gastrico. Inoltre l’assunzione di cibi pesanti in quantità abbondante comporta, per consentire il processo digestivo, un maggior afflusso di sangue verso l’apparato gastroenterico e un conseguente minor apporto ematico a livello dei muscoli, che perdono così forza e tonicità. Se poi si è abusato di bevande alcoliche, tutto questo è accompagnato da una riduzione delle capacità coordinative, che facilita la caduta.

C’è chi d’inverno non scia, ma continua a svolgere attività sportiva all’aperto, come la corsa. Qualche suggerimento in proposito per praticare questo sport anche alle basse temperature?

È bene scegliere le ore più calde della giornata, come la pausa pranzo. Anche un abbigliamento corretto è fondamentale: oggi possiamo disporre di maglie tecniche che tengono caldo, ma consentono un’ottima trasudazione. Quando le condizioni atmosferiche e delle strade sono proibitive, è meglio stare a casa oppure optare per la palestra. Il terreno ghiacciato, non permettendo un’aderenza ottimale del piede, espone non solo al rischio di cadute, ma sottopone le nostre articolazioni e i nostri muscoli a movimenti biomeccanici alterati che possono essere causa di lesioni di tipo distrattivo o di problemi muscolo-tendinei.

(da L’Altro Giornale-gennaio 2019)


Sconfiggere il tumore con attenzione alla salute del cuore

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Una percentuale di pazienti oncologici sviluppa patologie cardiache a causa delle cure anti-tumorali: come prevenire queste complicanze? Esperti nazionali di cardio-oncologia a confronto in un congresso al “Sacro Cuore Don Calabria”

Di cancro in Italia si muore meno. Trattamenti salvavita quali i farmaci anti-tumorali e la radioterapia, uniti alla chirurgia oncologica hanno fatto sì che in quindici anni (2001-2016) nel nostro Paese i decessi per neoplasia siano diminuiti del 17,6%. E che attualmente siano 3milioni e 400mila le persone che vivono dopo una diagnosi di tumoreRisultati assolutamente positivi, ma non senza un prezzo: a causa delle cure, una percentuale di pazienti può riportare delle tossicità a danno degli organi non colpiti dal tumore. Uno di questi è il cuore.

 

Proprio le complicanze cardiache dovute ai trattamenti oncologici saranno al centro del Congresso di cardio-oncologia che si terrà venerdì 25 e sabato 26 gennaio nella sala convegni dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona)Il meeting scientifico è organizzato dalla dottoressa Stefania Gori (nella photogallery) e dal professor Enrico Barbieri (nella photogallery), direttore rispettivamente dell’Oncologia Medica e della Cardiologia, e vedrà la presenza come relatori dei maggiori esperti italiani di cardio-oncologia, una disciplina nata recentemente per la gestione del paziente cardiologico in conseguenza di terapie oncologiche. (programma in allegato)

 

La dottoressa Gori, oltre ad essere presidente dell’Associazione Italiana Oncologia Medica (AIOM), è dal 2011 coordinatore del progetto nazionale di cardio-oncologia di cui fa parte anche il professor Barbieri. Il progetto – che vede la collaborazione di AIOM e di altre otto società scientifiche tra cui ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri), AICO (Associazione Italiana di Cardio-Oncologia) e ICOS (International Cardioncology Society) – è finalizzato a trovare una strategia comune per la prevenzione e il trattamento delle patologie cardiache causate dalle cure oncologiche.

Il progetto pone una particolare attenzione anche alla cardiotossicità, per altro molto bassa, delle nuove terapie oncologiche come quelle a bersaglio molecolare e l’immunoterapia. E all’invecchiamento della popolazione italiana, con aumento di pazienti oncologici predisposti a patologie cardiache per età o per malattie, come il diabete o l’ipertensione, che sono di per sè fattori di rischio per il cuore.

 

“E’ fondamentale per gli oncologi non concentrarsi solo sul tumore da sconfiggere, ma considerare anche eventuali rischi cardiaci, prevenendoli e, quando si verificano, trattandoli adeguatamente in équipe con i cardiologi”, afferma la dottoressa Gori. A questo proposito l’ospedale di Negrar ha creato un ambulatorio di cardio-oncologia, dove ogni caso complesso viene discusso collegialmente dai cardiologi, dagli oncologi e dai medici radioterapisti. All’ambulatorio accedono i pazienti oncologici subito dopo la diagnosi e prima del trattamento per una verifica della condizione cardiovascolare e per controlli periodici durante le cure.

 

“Il riconoscimento precoce di una sofferenza cardiaca è ciò che ci permette di evitare danni più gravi valutando con gli oncologi un nuovo schema terapeutico o intervenendo con un supporto farmacologico – conclude il professor Barbieri – Non disponiamo di farmaci specifici per il paziente cardio-oncologico, ma utilizziamo i principi attivi che impieghiamo in cardiologia adattandoli a questo contesto, procedura la cui efficacia è stata dimostrata da studi internazionali”.

 

 

Ma quali potrebbero essere le complicanze cardiache dovute alle cure antitumorali? In relazione al tipo di farmaco indicato e alle dosi impiegate, il paziente potrebbe andare incontro a scompenso cardiaco, cardiopatie ischemiche (infarto o forme anginose), miocarditi, ipertensione arteriosa severa e ad anomalie del battito cardiaco (fibrillazione atriale fino alle aritmie maligne), trombosi a livello delle vene profonde, che possono portare all’embolia polmonare. Pericarditi, patologie ischemiche e valvolari, ‘effetti collaterali’ della radioterapia per il tumore della mammella o per i linfomi, sono diventate complicanze sempre più rare, grazie alle nuove tecnologie che consentono di irradiare con precisione il tessuto malato, risparmiando quello sano.


Prosegue lo studio clinico sul vaccino contro l'epatocarcinoma

Finora sono sette i pazienti sottoposti a vaccinazione. L’oncologo Alessandro Inno spiega in un’intervista-video la particolarità di questo vaccino e cosa ci si attende dalla sperimentazione internazionale di Fase I

Prosegue presso l’Oncologia Medica, diretta dalla dottoressa Stefania Gori, la sperimentazione di Fase 1 del vaccino contro l’epatocarcinoma, che se si dimostrasse efficace potrebbe segnare una svolta nella cura del tumore primitivo del fegato. (vedi articolo)

 

HEPAVAC- 101 – questo il nome della speriementazione è uno studio clinico internazionale – che coinvolge anche centri tedeschi, spagnoli, francesi, belgi ed inglesi. In Italia vi partecipa, oltre al “Sacro Cuore Don Calabria” in collaborazione con l’Università dell’Insubria, anche l’Istituto Nazionale Tumori “Pascale” di Napoli.

L’Ospedale di Negrar ha valutato in poco più di un anno 19 pazienti, di cui 7 sono stati arruolati per la vaccinazione.Due pazienti hanno già terminato la procedura vaccinale.

Nel video allegato l’oncologo Alessandro Inno spiega la particolarità del vaccino, da cosa è composto e l’obiettivo che ci si attende dalla sperimentazione.

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Il CRON ha un nuovo Consiglio direttivo

Si è costituito il nuovo Consiglio direttivo del CRON, il Circolo Ricreativo Ospedali Negrar nato nel 1980 per favorire lo “spirito di famiglia” tra i dipendenti del “Sacro Cuore Don Calabria” anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Dopo le elezioni, si è costituito il nuovo Consiglio direttivo del CRON- Circolo Ricreativo Ospedali Negrar che rimarrà in carica nel triennio 2019-2021.

 

Il nuovo presidente è Luca Sandrini dell’Ingegneria Clinica; vicepresidentiGiancarlo Sgaggio (caposala dell’Endoscopia Digestiva) e Emanuele Degani (manutentore); segretariaMichela Arcozzi(segreteria di Endocrinologia); tesoriereFabio Filippo (infermiere di sala operatoria); consiglieri: dottor Stefano Rodella (medico radiologo) e Andrea Giacopuzzi (operatore del reparto di Oncologia).

 

Fondato ufficialmente nel 1980, il CRON, Circolo Ricreativo Ospedali di Negrar, raggruppa tutti i dipendenti dell’ospedale per favorire lo”spirito di famiglia” anche al di fuori dell’orario di lavoro. Nato con finalità prevalentemente sportive, attualmente offre agli iscritti anche un fitto calendario di proposte culturali, turistiche, formative nonché un nutrito elenco di convenzioni con vari tipi di aziende per godere di sconti e promozioni. (www.circolocron.com)

Nella foto da sinistra: Giancarlo Sgaggio, Emanuele Degani, Luca Sandrini, Andrea Giacopuzzi, Fabio Filippo e Michela Arcozzi. In Photo Gallery: il dottor Stefano Rodella