20 anni fa don Giovanni Calabria veniva proclamato Santo

Il 18 aprile 1999 migliaia di persone affollarono Piazza San Pietro per la solenne celebrazione presieduta da Papa Giovanni Paolo II. Anche alla Cittadella della Carità di Negrar in tanti seguirono l’evento in diretta televisiva
La mattina del 18 aprile 1999, esattamente 20 anni fa, don Giovanni Calabria veniva proclamato santo da papa Giovanni Paolo II con una solenne celebrazione in Piazza San Pietro. Un evento memorabile, tuttora scolpito nel cuore delle migliaia di persone che poterono essere presenti a Roma o che comunque vissero l’avvenimento guardando la diretta televisiva dalla Casa Madre di San Zeno in Monte e da tante altre parti d’Italia e del mondo, fra le quali la Cittadella della Carità di Negrar che venne fondata da don Calabria nel 1933.
Ecco le parole con cui il Papa, oggi a sua volta santo, descrisse l’umile sacerdote veronese nell’omelia di quella giornata:
“L’esistenza di Giovanni Calabria è stata tutta un Vangelo vivente, traboccante di carità: carità verso Dio e carità verso i fratelli, specialmente i più poveri. Sorgente del suo amore per il prossimo erano la fiducia illimitata ed il filiale abbandono che nutriva per il Padre celeste. Ai suoi collaboratori amava ripetere le parole evangeliche: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»”. (vedi testo completo dell’omelia)
In videogallery è possibile vedere in un filmato i momenti salienti della canonizzazione insieme ad un’altra importante ricorrenza, di cui ricorreva ieri il 31mo anniversario, ovvero la visita di papa Giovanni Paolo II a Verona e al nostro ospedale nel 1988, in occasione della beatificazione dello stesso don Calabria e di don Giuseppe Nascimbeni (vedi video).
Tornando a quel 18 aprile 1999, oltre alla celebrazione ci furono altri momenti di grande intensità dedicati alla Famiglia calabriana. Come dimenticare, ad esempio, la benedizione impartita uno ad uno dal Papa ai rappresentanti dei vari Paesi del mondo dove l’Opera era ed è presente? Memorabile anche la S. Messa di ringraziamento presieduta dal card. Camillo Ruini la mattina del 19 aprile a San Giovanni in Laterano, seguita dall’udienza papale in Piazza San Pietro. La cronaca completa di quelle giornate, insieme a tante foto, documenti e riflessioni, si trova puntualmente nel numero speciale de «L’Amico» del maggio-giugno 1999 che è possibile leggere in allegato a questo articolo (vedi L’Amico Speciale).
I protagonisti di "Viaggio Italia" fanno tappa all'Unità Spinale di Negrar

I loro viaggi su “due ruote” sono protagonisti della trasmissione “Kilimangiaro”: Danilo e Luca sono in carrozzina da 20 anni ma non si sono arresi di fronte alle difficoltà, perché “la disabilità è la possibilità di una vita autonoma in modo differente”
La loro ‘missione’ è dimostrare che è possibile vivere pienamente nonostante la disabilità. Lo fanno viaggiando dal 2015 su ‘due ruote’, lungo l’Italia e all’estero, e praticando sport cosiddetti estremi. Sono Danilo Ragona, progettista e designer, e Luca Paiardi, architetto e musicista, che venerdì 12 aprile hanno raccontato le loro ‘imprese’ ai pazienti dell‘Unità Spinale dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal dottor Giuseppe Armani. I loro viaggi alle Canarie, sull’Himalaya, a 5.300 metri, lungo la strada “carozzata” più alta del mondo, e in Kenya, solo per citare alcuni Paesi, sono stati più volte protagonisti della trasmissione di Rai3, “Kilimangiaro”.
Danilo e Luca si sono conosciuti vent’anni fa in un momento tragico per entrambi, vittime di due gravi incidenti a causa dei quali hanno perso l’uso delle gambe. Dalla loro amicizia e dalla voglia di non arrendersi di fronte alle difficoltà, è nato “Viaggio Italia” (www.viaggioitalia.it), un progetto dove “la disabilità non è più vissuta come peso sociale, ma come possibilità di una vita autonoma in modo differente”, hanno detto a chi come loro si serve di una carrozzina per muoversi. Un cambio di prospettiva che cercano di diffondere nel tessuto socialeanche contribuendo attivamente a progetti, come quello finanziato dalla Regione Basilicata per rendere la “Matera dei sassi” città accessibile, in occasione della sua designazione a “Capitale europea della cultura”.
Per i disabili, secondo Danilo e Luca, nulla è precluso. Infatti nei loro viaggi si cimentano in sport come il deltaplano e utilizzano per gli spostamenti barche a vela, downhill e canoa. “Abbiamo fatto perfino serf”, hanno raccontato sottolineando che queste imprese sono possibili grazie a realtà che pochi conoscono, ma che esistono anche in Italia e forniscono questo tipo di supporto ai disabili.
Le tappe del loro “Viaggio Italia” comprendono le Unità Spinali che accolgono e riabilitano le persone vittime di lesioni midollari a causa delle quali hanno perso la mobilità degli arti inferiori e superiori o di entrambi.
L’Unità Spinale del “Sacro Cuore Don Calabria” fa parte del Dipartimento di riabilitazione, diretto dal dottor Renato Avesani, e ricovera ogni anno da tutta Italia circa 25 pazienti con lesioni midollari. Dotato di apparecchiature di ultima generazione, come l’esoscheletro e del percorso per la riabilitazione dell’arto superiore, il Dipartimento è diventato anche dal punto di vista tecnologico un centro di riferimento riabilitativo a livello regionale e nazionale.
Anche grazie alla presenza attiva e costante dei volontari del Galm, l’associazione delle persone con lesione midollare nella provincia di Verona, i pazienti ricoverati vengono coinvolti in iniziative per l’avvio alla vita autonoma, come lezioni di guida o corsi di cucina. Lo scorso settembre il Dipartimento di riabilitazione ha stipulato un accordo con il Comitato Italiano Paralimpico per favorire la pratica di sport a livello anche agonistico tra i pazienti con disabilità motoria acquisita.
Dare "scacco matto" al dolore oncologico si può

S’intitola “Scacco matto al dolore in dieci mosse” il progetto elaborato dall’Oncologia Medica che prevede il coinvolgimento di più specialisti al fine di controllare il dolore nel paziente oncologico
Il controllo del dolore è un elemento fondamentale del trattamento del paziente oncologico e richiede un approccio multidisciplinare “al fine di sollevare la persona ammalata da una condizione che annulla la vita e non permette di pensare ad altro, se non alla propria sofferenza”, afferma il dottor Roberto Magarotto, responsabile della Sezione Cure Palliative dell’Oncologia Medica.
A questo scopo l’Unità Operativa diretta dalla dottoressa Stefania Gori ha elaborato un progetto dal titolo “Scacco matto al dolore in dieci mosse”, che sarà presentato nel corso del convegno “Il dolore nel paziente oncologico: dalla fisiopatologia al trattamento”, in programma mercoledì 10 aprile all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (vedi programma).
“Il dolore è una condizione che può accompagnare il paziente oncologico in tutto il percorso della malattia – spiega il dottor Magarotto -. Può essere più frequente in alcune neoplasie, è quasi sempre presente nella fase metastatica, soprattutto se colpisce le ossa, e in quella terminale. Oggi disponiamo di molti farmaci e con meno effetti collaterali rispetto a quelli del passato, ma non sempre la terapia medica è sufficiente. Spesso è necessario l’intervento di altri specialisti“.
Il controllo del dolore inizia dalla sua valutazione da parte del paziente. “Con la legge 38 del 2010 sulle cure palliative e la terapia del dolore, la valutazione del dolore è stata introdotta tra i parametri obbligatori da registrare assieme alla diuresi, temperatura, alvo, pressione arteriosa e frequenza cardiaca – prosegue il dottor Magarotto – . Il nostro reparto aveva già iniziato con questa prassi, chiedendo al paziente ricoverato il grado di intensità del dolore (da 1 a 10) nel corso della giornata e nel momento della riacutizzazione. Questo prima della somministrazione della terapia e dopo, per capire quanto i farmaci siano stati efficaci e le eventuali criticità. Tra queste la componente emotiva che spesso amplifica la comunicazione del dolore da parte del paziente e pertanto deve essere anch’essa valutata”.
“La particolarità della malattia tumorale scatena stati emotivi molto intensi nel paziente ma anche nei familiari che vivono condizioni psicologiche ambivalenti tra il desiderio di rassicurazione e il peso di fingere un’altra realtà – interviene il dottor Giuseppe Deledda, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica -. La sofferenza psicologica del “sistema famiglia” influisce in modo determinante anche sulla percezione del dolore da parte del paziente. La possibilità del paziente e dei familiari di confrontarsi con lo psicologo per cercare un nuovo equilibrio consente anche agli oncologi di intervenire in modo ancora più efficace “.
Un ruolo fondamentale nel monitoraggio del dolore lo assume il personale infermieristico a contatto costante con il paziente e parte attiva al meeting quotidiano con i medici. Durante l’incontro la rivalutazione del paziente con dolore è condivisa da tutta l’équipe oncologica. Giorno per giorno viene discusso come rimodulare la terapia antalgica del singolo paziente .
“Quando ci troviamo in di fronte a metastasi ossee – prosegue il medico – la sola terapia medica non basta in quanto il dolore viene scatenato anche dal movimento e dal carico del peso sulla struttura ossea. In questo caso viene coinvolto l‘ortopedico e/o il radioterapista oncologo. L’adozione di presidi ortopedici e/o di trattamenti radioterapici antalgici insieme ai farmaci hanno spesso successo nel riportare il paziente all’autonomia di movimento”.
“Ma sono anche altri gli specialisti oltre agli oncologi che hanno un ruolo nella terapia del dolore: gli anestesisti, per esempio, nell’applicazione di accessi venosi stabili (Midline- PICC-CVC )afferma Magarotto -. Nei pazienti che hanno difficoltà a deglutire la terapia orale, l’adozione di dispositivi che consentono accessi venosi periferici e centrali a medio-lungo termine sono necessari affinché il dolore del paziente venga trattato adeguatamente con tutte le possibilità farmacologiche a disposizione”.
Gli specialisti antalgici, invece, intervengono per il dolore poco responsivo agli oppioidi o con caratteristiche specifiche di infiltrazione locale e i neurologi sono coinvolti quando il dolore è di natura neuropatica.“In presenza di dolore cronico può verificarsi un meccanismo a livello del sistema nervoso centrale in base al quale, anche in mancanza di una reiterazione di una intensa causa specifica, il paziente continua a sentire dolore ed, anzi, la sofferenza aumenta: in questi casi farmaci di tipo antiepilettico a giusto dosaggio possono spegnere questo effetto paradosso”, conclude il dottor Magarotto.
Il dottor Molon revisore a Bruxelles di un progetto europeo di cardiologia

Il medico fa parte dell’elenco degli esperti di alto livello selezionati dalla Commissione Europea per la valutazione di programmi relativi alle politiche sanitarie dell’Europa
Il dottor Giulio Molon, responsabile della Struttura Semplice di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione, è stato chiamato nelle scorse settimane a Bruxelles a far parte di un pool di esperti internazionali incaricati di valutare un progetto vincitore di un bando del Programma Horizon 2020.
Il progetto si chiama RITMOCORE (http://www.ritmocore-ppi.eu) ed è finanziato nell’ambito del bando H2020 “PPI for deployment and scaling up of ICT solutions for active an healthy ageing” (Acquisizione pubblica per lo schieramento e l’estensione delle soluzioni delle Tecnologie dell’Informazione e Comunicazione per un Invecchiamento Attivo e Salutare). http://ec.europa.eu/research/participants/portal/desktop/en/opportunities/h2020/topics/sc1-pm-13-2016.html .
Il progetto mira ad affrontare l’evoluzione nel trattamento dei pazienti che utilizzino o abbiano bisogno di utilizzare un pacemaker impiantabile (PM). L’approccio proposto ha come scopo difatti la promozione di un modello di assistenza che includa: la responsabilizzazione dei medici di medicina generale e l’integrazione dei percorsi di cura attraverso una adeguata condivisione delle informazioni; il monitoraggio remoto dei pacemaker; il monitoraggio domestico dei segni vitali mediante dispositivi portatili (App); l’attivazione del paziente ed incremento dell’allineamento degli obiettivi delle varie parti in gioco (providers, medici, manager ospedalieri, pazienti). Inoltre vi è la previsione di un Centro di supporto per il monitoraggio remoto dei pacemaker, la erogazione di un set predefinito di informazioni a tutte le parti interessate (stakeholders) ed ai professionisti coinvolti nel percorso terapeutico, l’integrazione e classificazione di qualità dei dispositivi, anche portatili, in grado di monitorare a casa i predetti segni vitali e di supporto per la attivazione dei pazienti.Il servizio si basa sul cosiddetto ‘risk sharing’, la condivisione del rischio.
I partner del consorzio progettuale, oggetto della revisione, rappresentano alcune strutture ospedaliere leader nell’ambito dell’assistenza cardiologica: il Sant Pau di Barcellona (Spagna), il Liverpool Heart and Chest NHS Hospital (UK), l’Elisabeth-TweeSteden Hospital (Olanda) ed il Fondo Sanitario Regionale delle Marche, rappresentato dall’Ospedale di Fermo.
In sintesi il progetto revisionato punta ad un incremento della qualità dell’assistenza, monitorando le performance dei pacemaker con un miglior utilizzo di tutti i dati registrati ed una conseguente responsabilizzazione anche del paziente.
Il dottor Molon è stato selezionato in qualità di revisore da parte della sezione “E-Health, Wellbeing and Ageing” (Sanità elettronica, benessere ed invecchiamento) della Direzione Generale delle Reti di comunicazione, dei contenuti e delle tecnologie (DG CONNECT) della Commissione Europea con sede a Bruxelles https://ec.europa.eu/info/departments/communications-networks-content-and-technology_it , in virtù della sua registrazione nel ‘Database degli esperti’ della stessa Commission (https://ec.europa.eu/research/participants/portal/desktop/en/experts/index.html)..Tale elenco consente ai medici registrati di essere contattati per valutare le proposte, monitorare le azioni ed occuparsi della preparazione, attuazione o valutazione dei programmi e delle politiche sanitarie del Vecchio Continente. Previo attento esame della Commissione Europea vengono quindi selezionati esperti di alto livello nel rispettivo campo di competenza per incarichi valutativi e di revisione.
Enrico Andreoli
Nodulo al seno: spesso non è un tumore

Per la maggior parte delle patologie benigne, il rischio che si sviluppino in tumore è nullo o molto basso, ma è necessaria tuttavia una diagnosi accurata per stabilire il trattamento più idoneo, chirurgico o follow up
La scoperta di nodulo al seno genera sempre grande ansia. Ma non in tutti i casi si tratta di un tumore. Spesso trascurati dal punto di vista scientifico, i noduli benigni rappresentano tuttavia il 90% circa delle condizioni che portano a eseguire una visita senologica o un esame strumentale al seno, essendo talvolta palpabili dalla paziente.
“Le patologie della mammella che rientrano nel campo della benignità sono innumerevoli ed eterogenee tra di loro. Possono interessare varie fasi della vita della donna, anche se sono più frequenti tra i 25 e i 50 anni”, spiega il dottor Alberto Massocco, responsabile della Chirurgia senologica.
Quali sono le cause delle lesioni benigne?
Le cause eziologiche di queste patologie non sono sempre note. Possono essere dovute a un non normale sviluppo del processo evolutivo della mammella. Inoltre possono dipendere da stimoli ormonali fisiologici o iatrogeni (per esempio l’azione di determinati farmaci) o da involuzioni del tessuto ghiandolare o da fenomeni infiammatori…
Come avviene la diagnosi?
La diagnosi è frutto dell’unione dei risultati dell’anamnesi, dell’esame clinico e degli accertamenti strumentali. Oltre a quelli di primo livello (ecografia/mammografia), in alcuni casi possono essere necessari esami diagnostici più complessi come la Risonanza Magnetica mammaria, la duttogalattografia (una mammografia con mezzo di contrasto per osservare i dotti galattofari, i cosiddetti “canali del latte”. ndr), oppure esami citologici o microistologici dopo il prelievo di cellule o tessuto (agoaspirato/agobiopsia).
Sono lesioni che possono evolvere in tumori?
Per la maggior parte delle patologie benigne, il rischio che si sviluppino in tumore è nullo o molto basso. Alcune di esse, tuttavia, hanno un potenziale evolutivo intrinseco o possono essere associate a patologia tumorale maligna in percentuali molto differenti tra di loro. Da qui la necessità di fare una corretta diagnosi che spesso si associa a esami cito/istologici (agoaspirato/ agobiopsia).
Come vengono trattate?
Ci sono essenzialmente due opzioni diagnostiche: il controllo periodico della lesione o l’intervento chirurgico. La scelta di intervenire o meno chirurgicamente è dettata dal tipo e dalla dimensione della lesione, dalla sua evoluzione nel tempo, dall’ansia che la presenza del nodulo genera nella paziente o da ragioni prettamente estetiche.
L’ansia è una componente non trascurabile
Uno dei compiti fondamentali del senologo è quello di rassicurare la paziente che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a una lesione benigna. In presenza di tipologie particolari è importante valutare il rischio di evoluzione maligna per procedere con il migliore trattamento.
Malesseri da ora legale: ecco come prevenirli

Il passaggio dall’ora solare a quella legale è una piccola alterazione dei nostri ritmi biologici: ecco alcuni accorgimenti per non risentire nei primi giorni di quell’ora di meno di sonno, che a volte diventano due…
E’ tempo di ora legale. Alle 2 del mattino di domenica 31 marzo le lancette dell’orologio dovranno essere spostate avanti di un’ora. Il che significa 60 minuti di luce in più alla sera, ma un’ora di sonno in meno. Così pochi minuti possono influire sul nostro ritmo sono-veglia, rendendoci le giornate difficili? Un certo malessere è possibile, secondo il dottor Gianluca Rossato, responsabile del Centro di Medicina del sonno.
“Il passaggio all’ora legale è di fatto un’alterazione delle nostre abitudini – spiega il neurologo -. Il nostro cervello, dunque il nostro corpo, è tarato naturalmente su un certo orario e ha bisogno di qualche giorno per adattarsi al cambiamento. Le ore di privazione del sonno possono essere due perché ci alziamo un’ora prima ma, in genere, andiamo a letto un’ora dopo. Questo sfasamento può avere effetti negativi in termini di minore concentrazione nei giorni seguenti all’ingresso dell’ora legale“.
Tuttavia, sottolinea il dottor Rossato, domenica, primo giorno di ora legale, si possono mettere in atto alcuni accorgimenti per adattarsi in fretta a questo cambiamento dei ritmi biologici
• Alzarsi sempre alla stessa ora e non un’ora più tardi, senza badare che se ci alziamo alle 9 in realtà, “per il sole”, sono le 8.
• Trascorrere la giornata all’aperto o praticare dell’attività fisica che implichi dispendio di energie in modo di arrivare a sera sufficientemente stanchi per addormentarsi all’ora usuale.
• E’ bene mantenere lo stesso orario di cena.
• Domenica sera è lecito fare uno strappo alla regola e concedersi una cena gustosa e un po’ abbondante, un fattore che può favorire il sonno anticipato
• La regola invece da non abbandonare mai se si vuole dormire bene, indipendentemente dall’ora legale, è quella di spegnare nelle ore precedenti il sonno, tablet e smartphone. Essi emanano una luce a cosiddetta frequenza blu, la stessa del sole. Si tratta di una luce chiara, che provoca l’arresto della secrezione di melatonina, l’ormone che regola il ciclo sonno-veglia. Più si tengono questi dispositivi a distanze ravvicinate, più il sonno rischia di essere compromesso.
La cura dei denti in gravidanza fa bene anche al bambino

Sabato 13 aprile gli igienisti dentali del Centro Odontostomatologico Ospedale Sacro Cuore Don Calabria incontreranno le future mamme per dare indicazioni su come mantenere in salute la propria bocca durante la gravidanza
Durante la gravidanza, a causa di cambiamenti ormonali, si verificano delle modificazioni a livello del cavo orale che comportano una maggiore suscettibilità per le carie e le malattie gengivali. E’ importante che la futura mamma prevenga o tenga sotto controllo queste patologie che possono influire anche sulla salute del nascituro. Infatti, secondo recenti studi scientifici, le infezioni severe generalizzate a livello del cavo orale della madre possono essere un fattore di rischio di parto prematuro.
La salute orale della donna in gravidanza e del bambino è al centro dell’incontro che si terrà sabato 13 aprile alle 10 al Centro Diagnostico Terapeutico di via San Marco 121 a Verona.L’appuntamento rientra nel progetto di prevenzione dentale rivolto alle future mamme, coordinato dalla dottoressa Lucia Bombasini con il gruppo degli igienisti dentali del Centro Odontostomatologico Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto da dottor Stefano Orio.
La dottoressa Bombasini – igienista dentale e docente a contratto all’Università di Verona – affronterà temi quali il sanguinamento delle gengive e la carie in gravidanza, la cura dentale durante la gestazione, l’importanza dei controlli odontoiatrici e dell’igiene orale professionale. Ma anche la carie da biberon e l’igiene orale domiciliare nelle varie fasi della vita.
Per partecipare all’evento è necessaria l’iscrizione al numero 045.6014650
Il linfedema nel paziente oncologico: l'importanza della fisioterapia

Il ristagno patologico di liquidi negli arti superiori o inferiori si manifesta soprattuto a seguito di interventi chirurgici oncologici con svutamento linfonodale allargato, come nel caso della mastectomia. Se ne parla in un convegno venerdì 29 marzo
Il linfedema è il ristagno patologico di liquidi nei tessuti, dovuto ad un’insufficienza del sistema linfatico. Si presenta come un gonfiore anomalo agli arti superiori ed inferiori, più spesso in modo asimmetrico, (cioè colpisce un solo arto per volta). Può essere di natura congenita, ma nella gran parte dei casi è un dovuto ad interventi chirurgici oncologici che richiedono svuotamenti linfonodali allargati, come, per esempio, la mastectomia o gli interventi addomino-pelvici.
Di linfedema si parlerà venerdì 29 marzo all’Hotel Villa Quaranta di Pescantina (Verona) in un convegno promosso dal dottor Paolo Tamellini, responsabile dell’Unità operativa di Flebologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, e responsabile regionale veneto della Società Italiana di Flebologia (SIF). (programma allegato) La patologia verrà analizzata dal punto di vista dell’internista e del chirurgo, ma soprattutto verrà rilevato quanto sia importante un trattamento fisioterapico adeguato per impedire un processo fibrotico dei tessuti, tale da rendere l’edema irreversibile e invalidante.
Nell’ambito del Cancer Care Center per la presa in carico del paziente oncologico, l’IRCCS di Negrar dispone di un Ambulatorio settimanale dedicato al linfedema, che afferisce al Servizio di Medicina Fisica e Riabilitativa, diretto dal dottor Renato Avesani. Vi accedono soprattutto le donne sottoposte a mastectomia, in collaborazione con l’Unità senologica. Ma vengono trattati anche gli esiti da chirurgia oncologica sia ginecologica che urologica. Quindi anche gli uomini, che hanno subito l’asportazione della prostata. Il trattamento prevede dieci sedute di linfodrenaggio manuale seguito dal bendaggio elastocompressivo all’arto interessato con il quale il paziente torna a casa per ritornare il giorno dopo ed eseguire l’identico procedimento. Sono consigliabili almeno due cicli all’anno, per la terapia di mantenimento.
Ma perché si forma il linfedema? “Il sistema linfatico è costituito da una serie di vasi e capillari che hanno il compito di drenare la linfa e riportarla nel circolo venoso – spiega il dottor Tamellini (nella foto) -. Quando questo sistema ‘idraulico’ non funziona in modo adeguato, il liquido linfatico si accumula nei tessuti formando dei gonfiori, gli edemi”.
Da cosa è causata l’insufficienza del sistema linfatico?
Il malfunzionamento del sistema linfatico può avere cause congenite, ma nella maggior parte dei casi è di natura acquista. In particolare gli interventi chirurgici oncologici richiedono l’asportazione dei linfonodi quando sono intaccati da cellule neoplastiche. I linfonodi sono una sorta di ‘stazioni’ del sistema linfatico con il compito di smistare la linfa e di attivare la risposta immunitaria. Quando vengono asportati, il sistema viene danneggiato e si crea un ristagno di liquidi. L’esempio più comune riguarda le donne sottoposte a mastectomia che presentano un rigonfiamento del braccio in corrispondenza del seno asportato, a causa dello svuotamento linfonodale ascellare. Oggi linfedemi come questi sono meno frequenti rispetto a un tempo grazie a interventi senologici più conservativi e all’introduzione della tecnica del linfonodo sentinella: solo quando quest’ultimo è positivo si procede con lo svuotamento linfonodale allargato.
E’ un problema che riguarda solo le donne operate al seno?
No. Si stima che il linfedema si presenta nel 20-40% dei casi dopo un intervento chirurgico oncologico, in particolare ginecologico o, anche negli uomini, urologico. In questi casi gli arti colpiti sono quelli inferiori per l’asportazione dei linfonodi pelvici. Anche la radioterapia può essere all’origine di un linfedema, perché può causare la fibrosi nei tessuti.
Qual è la terapia indicata?
La fisioterapia. In particolare il linfodrenaggio che tramite una compressione manuale ‘riattiva’ i vasi linfatici affinché svolgano la funzione di drenaggio. Si tratta di una patologia cronica, che si ripresenta ciclicamente e richiede quindi una terapia di attacco e di mantenimento. Si tratta di un problema serio che non deve essere trascurato. La linfa che ristagna nei tessuti contiene plasma , globuli bianchi e proteine. Quest’ultime in parte degradono, in parte provocano un ispessimento fibrotico dei tessuti, indurendo l’edema e rendendolo irreversibile e fortemente invalidante. A questi stadi il linfedema spesso non è più trattabile con la fisioterapia ed è necessario – quando è possibile – ricorrere all’intervento chirurgico.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Tubercolosi: il problema emergente della farmaco-resistenza

Il 24 marzo è la Giornata mondiale della tubercolosi che è ancora oggi, tra le malattie infettive, la prima causa di morte. Diminuiscono i nuovi casi e i decessi nel mondo ma l’obiettivo OMS di arginare l’epidemia entro il 2030 è ancora lontano
Centotrentasette anni fa, il medico tedesco Robert Koch scopriva il Mycobacterium tuberculosis, agente eziologico della tubercolosi (TB). Era il 24 marzo, data scelta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per celebrare la Giornata della TB, patologia che è ancora oggi, fra le malattie infettive, la prima causa di morte nel mondo: si stima c he nel 2017 siano stati 1,6 milioni i decessi, a fronte di 10 milioni di nuovi casi. Numeri in progressiva diminuzione, che fanno ben sperare, ma che richiedono ancora una soglia di attenzione molto alta da parte di tutti i Paesi.
La TB nel mondo e in Italia
“Due terzi dei casi mondiali si concentrano in soli otto Paesi: India, Cina, Indonesia, Filippine, Pakistan, Nigeria, Bangladesh e Sud Africa”, afferma la dottoressa Paola Rodari, infettivologa e ricercatrice del Dipartimento di Malattie infettive e tropicali, diretto dal professor Zeno Bisoffi. L’Italia è da anni considerato un Paese a bassa incidenza: nel 2017 sono stati notificati 3.944 nuovi casi, con un’incidenza di 6,5 casi ogni 100mila abitanti. A Negrar vengono seguiti ogni anno circa una trentina di pazienti.
La forma polmonare è quella più diffusa
La TB si trasmette da persona a persona attraverso l’aria. Circa un quarto della popolazione mondiale ha un’infezione tubercolare latente (cioè è venuta a contatto con micobatteriop della TB) e può potenzialmente sviluppare la malattia nell’arco della vita. Il micobatterio può colpire qualsiasi organo, ma la forma più diffusa è quella polmonare. In questo caso la malattia si può manifestare con tosse persistente, stanchezza marcata, perdita di peso e febbricola.
Malattia curabile: il problema della farmaco-resistenza
“La TB è una malattia curabile e i farmaci fondamentali nella terapia di prima linea sono la rifampicina e l’isoniazide. Purtroppo la resistenza a questi farmaci è un problema emergente, il che obbliga all’utilizzo di farmaci di seconda linea. Si tratta di principi attivi che implicano trattamenti più lunghi, più complessi e con rilevanti effetti collaterali”, spiega la dottoressa Rodari. I Paesi più interessati alla farmaco-resistenza sono India, Cina e Russia: questi tre Paesi da soli notificano quasi la metà dei casi di resistenza. “La resistenza ai farmaci emerge per diverse ragioni – prosegue – ma in particolare quando la terapia viene somministrata in modo inappropriato, sia a causa di una non corretta prescrizione da parte degli operatori sanitari, o per la scarsa qualità dei farmaci (problema enorme e di difficile soluzione nei Paesi a risorse limitate) o ancora per una scarsa aderenza alla terapia da parte dei pazienti”.
OMS: arginare l’epidemia entro il 2030
L’OMS ha lanciato nel 2014 la End TB Strategy, con l’obiettivo di arginare l’epidemia entro il 2030, sollecitando i governanti a mettere in campo tutte le strategie possibili per una diminuzione progressiva dei casi di infezione. “Si tratta di un obiettivo molto ambizioso: la strategia punta ad una riduzione dei decessi del 90% e dei nuovi casi dell’80% tra il 2015 e il 2030 – afferma il medico -. In questo senso, è fondamentale puntare alla diagnosi precoce della malattia”.
Non è la malattia dei migranti
La tubercolosi è una delle malattie oggetto di “leggende metropolitane”. Non di rado viene spacciata tra le patologie già debellate da tempo in Italia, ma il cui ritorno è dovuto al fenomeno dell’immigrazione. “Ci sono sempre stati casi di TB nel nostro Paese – precisa la dottoressa -. Ciò che è importante sottolineare è che all’intensificarsi del flusso migratorio non corrisponde un aumento di nuove infezioni tra i nostri connazionali. I casi nella popolazione italiana riguardano soprattutto gli anziani, venuti in contatto con il micobatterio in gioventù. La riattivazione della malattia con la vecchiaia è spesso conseguenza del calo fisiologico delle difese immunitarie, oltre che alla compresenza di patologie croniche o terapie immunosoppressive”. Molto più giovani sono invece i pazienti migranti. “Nel caso dei migranti la riattivazione può essere legata allo stress del processo migratorio e alle precarie condizioni sociali che queste persone di trovano ad affrontare nel Paese ospite”, conclude Rodari
Mal di pancia nei bambini: non sempre si tratta di intolleranze

E’ un sintomo comune nell’infanzia. Quando persiste è necessario effettuare esami specifici per verificare la presenza di intolleranze o allergie ma anche per non eliminare inutilmente dalla dieta alimenti preziosi per la crescita
Il mal di pancia accompagna spesso la giornata dei bambini, allarmando, quando persiste, i genitori, preoccupati di eventuali allergie o intolleranze. O di patologie ben più gravi. “I disturbi intestinali sono frequenti in età pediatrica: non solo dolori addominali, ma anche vomito, rigurgito, inappetenza, meteorismo intestinale, senso di fastidio a livello gastrico, intestino che alterna periodi di stipsi a periodi di diarrea”, conferma il dottor Antonio Deganello, direttore della Pediatria. Spesso sono fenomeni che si risolvono da soli o con la prescrizione di una terapia, ma “quando, superate eventuali cause acute (enterite o infezioni virali), questi sintomi persistono per settimane è consigliabile rivolgersi al pediatra per effettuare accertamenti specifici al fine di escludere o confermare la presenza di intolleranze o di allergie alimentari. Questo anche per evitare diete fai da te, eliminando inutilmente cibi preziosi per la crescita del bambino, come il pane o il latte”.
Quali sono le intolleranze più frequenti?
L’intolleranza al lattosio (lo zucchero contenuto nel latte), alle proteine del latte vaccino, la celiachia e la gluten sensivity sono sicuramente le intolleranze che diagnostichiamo più spesso nei bambini con sintomi gastrointestinali.
Cosa differenzia la celiachia dalla gluten sensivity?
Le accomunano solo i sintomi. La celiachia è legata a una progressiva infiammazione della mucosa dell’intestino causata dalla gliadina, proteina presente nel glutine del frumento e di altri cereali. Si tratta di una patologia autoimmune che si diagnostica rilevando precisi markers nel sangue e in un secondo momento con la biopsia intestinale. “L’ipersensibilità al glutine” si manifesta con gli stessi sintomi della celiachia, ma non comporta nessun danno alla mucosa e l’unica diagnosi possibile è quella clinica. Si procede eliminando per un certo periodo dalla dieta prodotti con il glutine. Una volta verificata la scomparsa dei sintomi, si reintroducono gli alimenti ‘sotto accusa’. Se i sintomi ritornano, significa che la causa scatenante dei disturbi a livello gastrico è proprio il glutine. Si chiama prova di eliminazione e scatenamento e viene effettuata anche per altri cibi.
Spesso si confondono le intolleranze con le allergie
Sono due tipi differenti di reazioni avverse a determinati cibi. Le intolleranze sono legate spesso alla carenza di enzimi. Come l’intolleranza al lattosio, che è causata dalla carenza o dalla mancanza dell’enzima lattasi che non consente la corretta digeribilità dello zucchero contenuto nel latte. Oppure a patologie autoimmuni come la celiachia. E ancora le intolleranze possono essere dovute all’ipersensibilità ad un cibo, come la gluten sensitivity, ma non solo questa. Le allergie, invece, possono essere ben codificate con le prove allergiche cutanee o con la determinazione nel sangue delle immunoglobuline E per vari alimenti: allergia al latte, all’uovo, al grano… Quando abbiamo di fronte un bambino con determinati problemi avviamo una serie di indagini per escludere intolleranze e allergie, ma non sempre è possibile stabilire con certezza se siamo in presenza delle une o delle altre. Bisogna talvolta eliminare dalla dieta il cibo che si nota “storicamente” fastidioso ma si deve tener presente che nella maggior parte dei casi i dolori addominali ricorrenti sono di natura funzionale.
Cosa significa?
Sono causati da irritabilità colica costituzionale. Crampi improvvisi, spasmi, diarrea dopo mangiato o dopo una forte emozione non hanno nulla a che fare con patologie specifiche (esofagite o gastriti), intolleranze e allergie, ma sono reazioni funzionali di quel colon.
Registra un aumento di intolleranze o allergie?
Negli anni son cresciuti numericamente i casi di celiachia e di gluten sensivity. Il motivo probabilmente è dovuto ad una maggiore assunzione di glutine. Infatti i grani attualmente in commercio sono più ricchi di glutine rispetto a quelli di 30 anni fa. Inoltre il glutine viene introdotto con dosi maggiori nella panificazione perché rende l’alimento più buono e perché favorisce la lievitazione. Questo aumento della presenza del glutine può scatenare la malattia in soggetti geneticamente predisposti.
E per l’intolleranza al lattosio?
Aumenta fisiologicamente con l’età, in quanto la funzione della lattasi viene meno progressivamente. Soprattutto se si interrompe o si riduce drasticamente l’assunzione di latte e dei suoi derivati. Infatti l’enzima che digerisce il lattosio si trova sulla superficie dei villi intestinali ed è substrato dipendente. Se introduciamo lattosio, la lattasi si attiva, si produce e si mantiene stabile. Se non beviamo più latte o non mangiamo più formaggio avviene il contrario e quando li riprendiamo si scatena la diarrea.
Spesso si sente dire che il glutine fa male sempre, anche quando non si è celiaci, e il latte è un alimento per soli neonati
ualsiasi età, assunto naturalmente nelle giuste dosi in una dieta equiChe il glutine faccia male in qualunque caso è una leggenda metropolitana, non è provato da studi scientifici. Il latte è un alimento completo, ricco di calcio, e ben bilanciato tra carboidrati, proteine e lipidi. Fa bene a qlibrata.
(da L’Altro Giornale-Febbraio 2019)