Conosciamo il dottor Giulio Settanni, responsabile del Laboratorio di Patologia molecolare dell’Anatomia Patologica. “Le informazioni contenute nel DNA e nell’RNA di una neoplasia  ci consentono di scegliere la migliore opzione terapeutica. Senza lo studio dei tumori dal punto di vista molecolare non sarebbe stato possibile lo sviluppo della target therapy, cioè di farmaci a bersaglio molecolare in grado di agire su una determinata alterazione genetica di una neoplasia, bloccando così i processi biologici fondamentali per la sua sopravvivenza”

Ogni tumore è una patologia genetica. La fisiologica attività di replicazione delle cellule dà infatti vita ad errori di sequenza del DNA e dell’RNA che possono sfuggire ai sistemi di controllo e di riparazione del nostro organismo, dando inizio a una proliferazione di cellule anomale ovvero tumorali. In alcune persone le varianti patogenetiche hanno invece origine ereditaria e comportano un elevato rischio di ammalarsi di cancro durante la vita. In entrambi i casi quello della patologia genetica è terreno d’indagine del biologo molecolare, una figura sanitaria e di ricerca da cui la diagnostica oncologica non può prescindere.

Giulio Settanni, 35 anni, originario di Manduria (provincia di Taranto) dal luglio del 2021 è responsabile del Laboratorio di biologia molecolare presso Dipartimento di Anatomia patologica dell’IRCCS di Negrar, diretto dal professor Giuseppe Zamboni. Laurea magistrale in Scienze biomolecolari e cellulari all’Università di Ferrara, prima di approdare a Negrar nel 2016 ha lavorato quattro anni all’Istituto Nazionale Tumori di Milano. (guarda in video “pillole della ricerca”)

“Lo studio dei tumori dal punto di vista molecolare è ‘esploso’ 15-20 anni fa ed è andato di pari passo con lo sviluppo della cosiddetta target therapy, cioè di farmaci a bersaglio molecolare in grado di agire su una determinata alterazione genetica di una neoplasia, bloccando così i processi biologici fondamentali per la sua sopravvivenza – spiega Settanni -.  Senza lo studio molecolare dei tumori e quindi senza la creazione di questi farmaci “intelligenti” tratteremmo ancora tutti i pazienti con la stessa terapia, a prescindere dalla “carta di identità” di ogni forma tumorale. Invece le informazioni contenute nel DNA e nell’RNA di una neoplasia non solo ci consentono di scegliere la migliore opzione terapeutica, ma di evitare di infondere terapie inutili e potenzialmente tossiche grazie alla conoscenza degli indicatori di resistenza. L’esempio classico riguarda i tumori del colon dove una mutazione del gene KRAS fa sì che il paziente sia resistente a un determinato farmaco”.

Altro grande capitolo della patologia molecolare è la ricerca delle alterazioni genetiche germinali, cioè di origine eredo-familiare.

In questo caso lo studio non viene eseguito sul reperto operatorio o sul materiale prelevato tramite biopsia di una persona già ammalata, ma sul sangue di soggetti non necessariamente affetti da tumore. Sono persone la cui anamnesi del genetista oncologo ha indicato un rischio rilevante, per storia personale e/o familiare, di contrarre  una malattia neoplastica legata all’alterazione di uno o più geni. I più noti sono i geni BRCA1 e BRCA2 per quanto riguarda i tumori della mammella e dell’ovaio. Ma mutazioni genetiche sono all’origine anche della sindrome di Lynch che predispone a diversi tumori maligni primo fra tutti il cancro al colon; della poliposi familiare, caratterizzata dalla proliferazione di polipi che possono trasformarsi in tumori del colon; del melanoma familiare e di tante altre. Quelle eredo-familiari sono una piccola percentuale delle forme neoplastiche, ma la conoscenza delle alterazioni genetiche che le provocano permette di mettere in atto tutte le azioni preventive o di diagnosi precoce.

Quale tipo di ricerca viene svolta in patologia molecolare?

Si tratta di una ricerca cosiddetta traslazionale. Essa ha origine dall’attività diagnostica, nel senso che utilizza i dati diagnostici, previa autorizzazione del paziente e del Comitato etico. Dalla casistica prodotta dagli esami diagnostici possono emergere delle caratteristiche comuni a più pazienti, tali da meritare un approfondimento di ricerca.

In questo momento il suo Laboratorio in quali progetti di ricerca è impegnato?

Stiamo partecipando ad uno studio multicentrico promosso da Alleanza contro i cancro di cui l’IRCCS di Negrar fa parte. Il progetto s’intitola GerSom e si propone di confrontare, nell’ambito di determinati tumori (mammella, ovaio e colon), i dati emersi dagli esami di biologia molecolare sul reperto operatorio (somatici) e quelli sul sangue (germinali), utilizzando delle procedure di laboratorio messe a punto nei due centri capofila dello studio: la Fondazione Gemelli di Roma e l’Istituto Oncologico Europeo di Milano. Lo scopo è quello di testare una procedura comune che possa dare risposte sovrapponibili anche se gli esami vengono effettuati in differenti Laboratori. La finalità ultima è quella di fornire a tutti i pazienti la migliore diagnosi possibile e quindi una più adeguata presa in carico. Lo studio comparativo richiede sequenziatori di ultima generazione di cui disponiamo da alcuni anni e che ci permettono di studiare anche la casistica dell’ospedale San Matteo di Pavia.

Ha fatto esperienze all’estero?

Nel 2019 ho avuto la grande opportunità di clinical visiting observer presso il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, il più grande e il più prestigioso Istituto oncologico del mondo. E’ stata una bellissima esperienza, seppur durata solo un mese, grazie alla quale ho potuto rendermi conto anche dell’eccellenza del Laboratorio che oggi dirigo.

In che senso?

Accogliendo malati da tutto il mondo, il Memorial di New York è irraggiungibile sul piano della casistica, ma su quello della qualità della risposta data al paziente la realtà di Negrar non ha nulla da invidiare a questo “colosso” dell’oncologia. Al “Sacro Cuore Don Calabria” nell’ambito della patologia molecolare, ma non solo, sono stati fatti investimenti mirati che hanno portato allo sviluppo di una diagnostica di eccellenza.

Cosa invece la realtà oncologica italiana, in generale, dovrebbe invidiare a quella americana?

Senza dubbio i finanziamenti per la ricerca, che negli Usa sono soprattutto privati. Ma ancora di più l’aspetto culturale. Quello del ricercatore in generale è un lavoro che richiede di essere adeguatamente strutturato e finanziato per il raggiungimento dei risultati: purtroppo nel nostro Paese tali criteri non vengono sempre soddisfatti, rendendo quella del ricercatore una professione poco appetibile per i giovani laureati. Pertanto il ruolo del ricercatore puro (io non lo sono, perché mi occupo principalmente di diagnostica) sembra non avere quell’appeal che invece meriterebbe data l’importanza, perché solo grazie alla ricerca possiamo ottenere gli strumenti necessari a sconfiggere le malattie. Così non di rado menti capaci emigrano all’estero – dove raggiungono stabilità e stipendio dignitoso – oppure virano verso il settore diagnostico o delle case farmaceutiche. In Italia dobbiamo fare un salto culturale e vedere nella ricerca (quindi nel ricercatore) un investimento che necessita di pazienza, perché i risultati non sono immediati e dietro scoperte eclatanti, che imprimono una svolta nella cura delle malattie, ci sono anni di duro lavoro e di studio. La ricerca di oggi rappresenta potenzialmente la terapia di domani.