Si tratta di una ricerca effettuata in Ecuador dal Dipartimento di Malattie infettive e tropicali e microbiologia al fine di verificare l’accuratezza e l’applicabilità in contesti a risorse limitate di alcuni test attualmente disponibili per la diagnosi della strongiloidosi, per la quale l’IRCCS di Negrar è centro colloboratore dell’Oms. Lo studio è stato infatti possibile grazie ai quasi 95mila euro donati dai cittadini attraverso la Dichiarazione dei Redditi del 2019. (clicca qui)
E’ stato pubblicato sulla rivista scientifica Lancet Global Health il primo studio finanziato con le donazioni del 5xmille a favore della Ricerca Sanitaria dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. “The Estrella study” (Evaluation of Strongyloidiasis in Ecuador: a field Laboratory Accuracy study) è stato infatti possibile grazie ai quasi 95mila euro donati dai cittadini attraverso la Dichiarazione dei Redditi del 2019. (clicca qui)
Si tratta di una ricerca effettuata in Ecuador dal Dipartimento di Malattie infettive e tropicali e microbiologia al fine di verificare l’accuratezza e l’applicabilità in contesti a risorse limitate di alcuni test attualmente disponibili per la diagnosi della strongiloidosi, per la quale l’IRCCS di Negrar è centro colloboratore dell’Oms. Si stima che colpisca in tutto il mondo oltre 600 milioni di persone, appartenenti soprattutto a comunità svantaggiate in aree tropicali e subtropicali.
Allo studio hanno collaborato l’Università Centrale di Quito e il CECOMET (Centro de Epidemiologia Comunitaria y Medicina Tropical), un’istituzione privata senza fini di lucro che opera nel Paese sudamericano dal 1996 occupandosi di attività di ricerca e formazione in epidemiologia comunitaria, alla cui fondazione ha contribuito anche la dottoressa Mariella Anselmi, medico dell’Ospedale di Negrar dal 1998 al 2010. Mentre uno dei soci fondatori del CECOMET è stata la Fondazione Don Calabria per le Malattie Tropicali.
Per il “Sacro Cuore Don Calabria” la ricerca “sul campo” il Ecuador è stata condotta dalla dottoressa Francesca Tamarozzi, che nel settembre 2021 ha operato per tre settimane nella zona di San Lorenzo, al confine con la Colombia.
Dottoressa Tamarozzi, da dove nasce l’idea di questo studio?
L’Organizzazione mondiale della sanità si è recentemente impegnata a promuovere il controllo della strongiloidosi nei Paesi endemici, con l’obiettivo di stabilire entro il 2030 efficaci programmi di controllo dell’infezione nei bambini in età scolare, tramite la somministrazione del farmaco ivermectina. Ricordiamo che la strongiloidosi è causata da un geoelminta Strongyloides stercoralis, con cui l’uomo può venire in contatto toccando o camminando a piedi nudi su terreno inquinato da feci umane. L’infezione cronica è asintomatica o si manifesta con disturbi respiratori, gastrointestinali, dermatologici, malnutrizione, anemia ed eosinofilia (aumento di un tipo di globuli bianchi nel sangue ndr). Tuttavia nei pazienti immunodepressi, anche a causa di una terapia con cortisone, può causare una sindrome ad elevato tasso di mortalità. Da qui l’obiettivo dell’OMS. Obiettivo che però richiede strumenti diagnostici appropriati quando invece al momento non esiste un test gold standard per la diagnosi della strongiloidosi e ciò limita la capacità di sorveglianza e di controllo dell’infezione.
I test diagnostici sono proprio il “cuore” del vostro studio…
Lo scopo di questo progetto era infatti quello di fornire informazioni sull’accuratezza diagnostica e l’applicabilità “sul campo” di diversi metodi diagnostici, in quanto l’attenzione dell’OMS si focalizza soprattutto su Paesi in via di sviluppo, dove si concentra la maggior parte dei casi di infezione.
Come si è sviluppato lo studio?
I bambini arruolati sono stati 778. Tutti hanno fornito un campione di feci e una piccola quantità di sangue tramite la puntura di un dito. Una parte del sangue è stata usata immediatamente per l’esecuzione di un test rapido (simile a un test di gravidanza), l’altra è stata raccolta su carta filtro ed essiccata all’aria per l’esecuzione di due test sierologici di laboratorio effettuati dall’Università locale. Entrambi i test sono disponibili in commercio: uno è usato di routine da numerosi laboratori, tra cui quello di Negrar; l’altro solo a scopo di ricerca.
Lo stesso è accaduto per il campione di feci: una parte è stata utilizzata per un test parassitologico (“Baermann modificato”), riguardo al quale ho contribuito all’esecuzione e alla lettura per la prima metà dei campioni, formando gli operatori locali affinché lo applicassero alla seconda metà. L’altra parte del campione fornito dal bambino è stata conservata in alcol e poi sottoposta a un test di biologia molecolare (PCR) eseguito sempre dall’ateneo di Quito.
Quali risultati avete ottenuto?
La combinazione di un esame di laboratorio sul sangue, in particolare del test commerciale, associato a un test fecale è risultata la migliore in termini di capacità di definire la prevalenza di strongiloidosi nella popolazione scolastica considerata, che è risultata di circa il 10% in questa zona. Abbiamo tuttavia riscontrato problemi relativi alla fattibilità di alcuni test nel luogo in cui eravamo: lo smaltimento della plastica per Baermann e test rapido, il tempo molto lungo richiesto per eseguire e leggere il Baermann, la difficoltà a reperire alcuni reagenti per la PCR ed i loro costi a livello locale.
I bambini infetti sono stati trattati?
Sono stati trattati con ivermectina tutti i bambini che sono risultati positivi ad almeno un test, quindi prima di aver stabilito quale fosse il test più affidabile. Abbiamo agito in base al principio di precauzione, anche alla luce del fatto che il farmaco è ben tollerato e non provoca effetti collaterali importanti. I veri programmi di prevenzione non si basano però su questo principio. Testare una comunità non ha come obiettivo quello di sapere chi tra i suoi membri è affetto o meno dalla patologia, ma conoscere se la malattia è presente sopra o sotto una determinata soglia. Risultato che determina l’avvio o meno della terapia per tutti i membri della comunità, anche per quelli ‘sani’. In questo studio la soglia non è stata fissata, perché per farlo l’OMS avrà appunto bisogno di essere in possesso dei dati di sensibilità di ciascun test, o della combinazione di test, che noi abbiamo fornito.
Oggi la strongiloidosi è diffusa soprattutto nei Paesi tropicali e subtropicali, ma un tempo era presente anche in Italia, in particolare nella Pianura Padana, infatti era conosciuta come la malattia delle mondine…
L’infezione cronica autoctona in Italia è ancora presente, ma in soggetti anziani che erano abituati a camminare da bambini a piedi nudi o in giovane età a lavorare su terreno concimato da feci umane. Da quando questa procedura è stata vietata intorno agli anni Settanta per ovvi motivi igienici, le nuove infezioni sono scomparse o ridotte drasticamente, ma persistono quelle croniche in persone in età avanzata. Il problema della strongiloidosi sono le sue manifestazioni che sono totalmente aspecifiche. Il nostro Dipartimento ha condotto una review sistematica della Letteratura scientifica per cercare di capire quali fossero i sintomi più direttamente associati all’infezione, che ha confermato questo scenario: i sintomi associati alla strogiloidosi sono causati anche da molte altre condizioni, il che complica la diagnosti differenziale. Lo stesso aumento degli eosinofili nel sangue, che rappresenta uno sei segni tipici di infezione parassitaria con elminti, non è presente nel 50% dei casi. A questo si aggiunge il fatto che la strongiloidosi è una malattia negletta, poco conosciuta anche da molti clinici, per cui difficilmente il prurito o i dolori addominali in un anziano portano all’inclusione di questa infezione all’interno di una diagnosi differenziale. Questo comporta il rischio che nel caso di immunodepressione, anche dovuta a una terapia cortisonica, l’infezione diventi disseminata (diffusa) e porti ad esiti letali. In Sudamerica questa possibilità è notevolmente più elevata in quanto è diffuso il virus HTLV-1 (Virus Umano Linfotropo delle Cellule T), che è un fattore di rischio dell’aggravamento dell’infezione. Quindi diventa fondamentale stabilire quali sono gli strumenti diagnostici efficaci per consentire il controllo dell’infezione anche nelle aree più disagiate.