Malattia di Chagas: solo 1% dei malati accede a diagnosi e cure
Il 14 aprile si celebra la Giornata mondiale della malattia da cui sono affette 8 milioni di persone originarie del sud-America: il Centro per le malattie tropicali di Negrar ha diagnosticato la maggioranza dei casi conosciuti in Italia tra gli immigrati
Sabato 14 aprile si celebra la Giornata Internazionale della malattia di Chagas, la parassitosi che colpisce nel mondo ancora 8 milioni di persone originarie del sud America, dove è presente la cimice ematofoga, vettore capace di trasmettere l’infezione. Si tratta di patologia cronica, che nel 20% dei casi può evolvere, se non curata in tempo, in una forma mortale: sono infatti ancora 7mila gli uomini e le donne che ogni anno muoiono per la malattia di Chagas.
Anche l’ospedale “Sacro Cuore Don Calabria”, con il suo Centro per le Malattie Tropicali (CMT), diretto dal professor Zeno Bisoffi, è coinvolto in occasione della Giornata mondiale nelle iniziative di sensibilizzazione rivolte alle comunità sudamericane in Italia e ai medici per il riconoscimento dei casi sommersi.
La Global Chagas Coalition, l’organizzazione internazionale di cui fa parte anche il CMT di Negrar, stima che in tutto il mondo solo 1% delle persone affette abbia accesso alle cure sia perché non sanno di aver contratto la malattia sia perché sono pochi i Centri che forniscono il trattamento e si occupano di ricerca attiva. La situazione in Italia è analoga: gli ospedali di riferimento per il Chagas sono solo lo “Spallanzani” di Roma, il “Careggi” di Firenze, gli Ospedali Riuniti di Bergamo e il “Sacro Cuore Don Calabria”, che ha effettuato la diagnosi della maggioranza dei casi conosciuti di malattia nel nostro Paese, circa 600 dal 1998.
Medici ed infermieri bergamaschi e quelli di Negrar domenica 15 aprile saranno impegnati a Bergamo – presso il Centro OIKOS che offre assistenza sanitaria a stranieri privi di tessera sanitaria – per una giornata di screening gratuito rivolto alla numerosa comunità boliviana residente nella zona. La Bolivia, infatti, registra la più alta prevalenza al mondo della malattia di Chagas, soprattutto l’area del Paese, chiamato Grande Chaco, che si estende anche al Paraguay e all’Argentina. Un altopiano rurale dove prolifera la cimice ematofaga. L’iniziativa è organizzata dall’Ailmac Onlus (Associazione Italiana per la Lotta alla Malattia di Chagas) di cui è vicepresidente il dottor Andrea Angheben, responsabile delle reparto del CMT.
L’emersione dei casi sconosciuti di Chagas è fondamentale affinché la malattia venga curata in tempo e non rechi danni irreversibili al tessuto del cuore e all’intestino nei quali può concentrasi il protozoo ematico trasmesso dalla cimice infetta. Il trattamento, che dura due mesi, avviene tramite la somministrazione di benznidazolo e nifurtmox, due farmaci piuttosto efficaci, ma che in Italia – nonostante la presenza di 400mila immigrati latino-americani – non sono registrati e devono essere importati dall’Argentina.
Per quanto riguarda il rischio di infezione, nel nostro Paese è vicino allo zero in quanto non sono presenti le cimici coinvolte nel contagio e le altre vie di trasmissione vengono controllate attraverso l’obbligo di esecuzione di un test diagnostico a tutti i donatori di sangue e d’organo. Resta aperto il capitolo di trasmissione materno-fetale. La possibilità di contagio in questi casi è molto alta, circa il 5%, ma viene totalmente annullata se la donna sudamericana viene sottoposta al test diagnostico e, se necessario, curata prima di eventuali gravidanze. Diventa quindi fondamentale la sensibilizzazione e la formazione dei medici di famiglia, dei ginecologi e delle ostetriche perché invitino le donne in età fertile che provengono dalle aree a rischio (tutta l’America Latina continentale) a sottoporsi al test prima di avere bambini.
Due medici dall'Ucraina per studiare il "sistema Negrar"
Il dottor Oleksandr Ivanchuk e il dottor Yurii Sursaiev, provenienti dal City Hospital di Vynnitsia, sono stati in Valpolicella nell’ambito di una collaborazione promossa dal “Sacro Cuore” insieme alla Nunziatura Apostolica di Kiev
Dall’Ucraina a Negrar per studiare il sistema organizzativo e le procedure messe in atto al “Sacro Cuore-Don Calabria” nella presa in carico del paziente e nel percorso diagnostico-terapeutico, in particolare nell’ambito del pronto soccorso e della terapia intensiva. A intraprendere questo viaggio formativo sono stati due medici del City Hospital of Emergency Care di Vynnitsia, città situata a 260km dalla capitale Kiev, che sono rimasti in Valpolicella dal 26 febbraio all’8 marzo. Si tratta del dottor Oleksandr Ivanchuk, endocrinologo, e del dottor Yurii Sursaiev, direttore del reparto di terapia intensiva.
L’iniziativa fa parte di un progetto di collaborazione promosso dal “Sacro Cuore” insieme alla nunziatura apostolica di Kiev, guidata dal veronese mons. Claudio Gugerotti. “Già lo scorso autunno sono venuti alcuni medici dal City Hospital per conoscere il “Sacro Cuore” e in maggio verranno in visita il direttore sanitario e il sindaco di Vynnitsia, che è responsabile per le strutture sanitarie locali”, spiega il dottor Claudio Bianconi, direttore della Neurologia e uno dei promotori del progetto.
Il rapporto tra il nosocomio calabriano e l’Ucraina si arricchisce dunque di un nuovo capitolo dopo che lo scorso anno un’equipe medica del “Sacro Cuore” ha svolto un ruolo di consulenza per conto di Papa Francesco sui progetti sanitari da finanziare nelle zone teatro di guerra al confine con la Russia. “La sanità di questo Paese è in una fase di grande cambiamento e ammodernamento – aggiunge il dottor Carlo Lorenzi del Pronto Soccorso, che ha seguito i medici ucraini durante la loro permanenza a Negrar – perciò questa collaborazione è importante anche nella prospettiva di aiutare i colleghi a riorganizzare il loro sistema sanitario secondo i più moderni criteri di efficienza“.
Durante la visita, il dottor Ivanciuk è rimasto prevalentemente in Pronto Soccorso, studiando in particolare la gestione dei pazienti, i presìdi medici utilizzati e le linee guida seguite nei casi di emergenza più frequenti, quali gli stroke e gli infarti miocardici. “Al City Hospital di Vynnitsia è in corso una riorganizzazione del dipartimento dedicato alle emergenze – racconta Ivanciuk – per noi è importante avere un riferimento come quello di Negrar. Infatti finora in Ucraina non esiste il pronto soccorso come lo intendete voi, cioè con medici specializzati che intervengono sulle emergenze. È piuttosto una porta di accesso all’ospedale, dove passano tutti, anche per i ricoveri e le visite programmate”.
Il dottor Sursaiev è stato prevalentemente presso il blocco operatorio e il reparto di Terapia Intensiva. “In questi giorni ho notato che ci sono importanti differenze tecniche rispetto al nostro modo di procedere – puntualizza il medico ucraino – In particolare qui a Negrar ci sono standard molto elevati e soprattutto delle rigide procedure di controllo. Il controllo medico sui pazienti è continuo, con l’uso di dispositivi medici di monitoraggio molto avanzati e linee guida dettagliate che garantiscono l’appropriatezza delle cure“. Differenze che secondo i due medici del City Hospital potranno essere molto ridotte se passerà la riforma sanitaria che attualmente è in discussione nel Parlamento di Kiev, prevedendo una riorganizzazione del sistema e un aumento degli investimenti.
Prima di ripartire per Vynnitsia, Ivanciuk e Sursaiev ci tengono a ringraziare il personale del “Sacro Cuore”. “In questi giorni ci siamo sentiti davvero accolti con il sorriso. Anche se la nostra presenza poteva essere impegnativa perché stavamo ad osservare in un luogo dove tutti lavoravano, ci hanno trattato benissimo e ci hanno spiegato tutti gli aspetti di ciò che veniva fatto. Per questo vogliamo ringraziare di cuore”.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
* Nella foto di copertina da sx: dott. Sursaiev, dott. Lorenzi, dott. Bianconi e dott. Ivanciuk
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A Negrar il Festival della prevenzione e della innovazione oncologica
Dal 9 all’11 aprile presso piazzale Perez sarà presente un pullman presso il quale i cittadini possono incontrare gli oncologi AIOM per avere informazioni sulla prevenzione, sull’innovazione terapeutica e sui progressi della ricerca in campo oncologico.
Ritorna a Negrar, a pochi chilometri dal centro di Verona, il “Festival della prevenzione e innovazione in oncologia” (in allegato il volantino), in una nuova edizione. Dal 9 all’11 aprile in Piazzale Perez sosterà un pullman presso il quale gli oncologi dell’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica), dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 17, forniranno consigli e informazioni sulla prevenzione, sull’innovazione terapeutica e sui progressi della ricerca in campo oncologico. Sono anche previste attività sportive in Piazza per coinvolgere i cittadini, le associazioni dei malati e dei familiari. Quella di Negrar è la prima tappa di una manifestazione itinerante, resa possibile grazie al sostegno di Bristol-Myers Squibb, tocca 20 città del Paese.
“In Veneto ogni anno circa 12.700 casi di tumore potrebbero essere evitati, il 40% del totale, un vero e proprio esercito di persone – spiega Stefania Gori, presidente nazionale AIOM e direttore del Dipartimento Oncologico dell’Ospedale Sacro Cuore-Don Calabria di Negrar -. Basta seguire alcune semplici regole: niente fumo, alimentazione corretta, attività fisica costante e adesione agli esami di screening. Inoltre oggi non possiamo più parlare di male incurabile perché accanto alle armi tradizionali (chirurgia, radioterapia e chemioterapia) abbiamo a disposizione terapie innovative molto efficaci come le terapie a bersaglio molecolare e l’immunoterapia che permettono di migliorare la sopravvivenza a lungo termine con una buona qualità di vita”.
Grazie alla diagnosi precoce e alle nuove terapie, in Italia il 60% dei pazienti sconfigge la malattia, in Veneto questa percentuale raggiunge il 61,5%, fra le più alte a livello nazionale. “Il sistema sanitario deve saper rispondere alle esigenze di salute di questi cittadini, che spaziano dalla riabilitazione al ritorno alla vita attiva, agli affetti e al lavoro”, sottolinea la dottoressa Gori.
In Italia nel 2017 sono stati stimati poco più di 369.000 nuovi casi di tumore (circa 192.000 uomini e 177.000 donne), in Veneto 31.750 (16.550 uomini e 15.200 donne). Le cinque neoplasie più frequenti nella Regione sono quelle del colon-retto (4.500), seno (4.450), polmone (3.400), prostata (2.950) e melanoma (1.500).
“Il Veneto è Regione virtuosa nell’adesione agli esami di screening anticancro – continua Fabrizio Nicolis, presidente di Fondazione AIOM -, anche i dati relativi all’attività fisica e all’eccesso ponderale sono migliori rispetto alla media nazionale, ma sono notevoli i margini di miglioramento: nella Regione è sedentario il 22% dei cittadini (32,5% Italia) ed il sovrappeso riguarda il 30,3% (31,7% Italia). L’obesità interessa il 9,9% della popolazione (10,5% Italia). I fumatori sono il 22,7% (26,4% Italia). Superiori invece rispetto alla media nazionale (16,9%) i dati relativi al consumo a maggior rischio di alcol (24,4% Veneto)”. Si stima che nella Regione vivano più di 277.000 cittadini dopo la diagnosi di tumore, una cifra in costante crescita.
Nella foto la dottoressa Stefania Gori e l’assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, in occasione del Festival della prevenzione e dell’innovazione oncologica che si è tenuto a Negrar l’anno scorso
Pacemaker collegati al cellulare: è del "Sacro Cuore" il primo paziente "connesso"
Dopo i primi impianti effettuati in Italia proprio a Negrar, è del Sacro Cuore il primo paziente al mondo che ha scaricato i dati del dispositivo salvavita grazie all’attivazione di un’App. Un passo importante nel controllo da remoto dei pazienti cronici
E’ un paziente dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, il primo al mondo ad aver messo in collegamento il proprio pacemaker dotato di bluetooth con il cellulare. Lunedì 3 aprile la multinazionale Medtronic – unica produttrice dell’innovativo pacemaker – ha attivato l’App MyCarelink Heart. Attraverso l’applicazione, i pazienti possono scaricare i dati del dispositivo e inviarli al server dell’azienda, in cui i cardiologi di Negrar, inserendo una password, possono entrare e verificare la funzionalità cardiaca del paziente oltre che dell’apparecchio salvavita per coloro che hanno gravi anomalie del battito cardiaco.
Il Servizio di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione, di cui è responsabile il dottor Giulio Molon, è stato il primo in Italia ad impiantare i nuovi pacemaker. Un’evoluzione naturale di un’esperienza nel campo del controllo da remoto che parte dal 2008 e ha coinvolto ad oggi più di mille pazienti dotati di pacemaker, defibrillatori e i ‘loop recorder’ (piccoli registratori sottocutanei per il monitoraggio, con durata fino a tre anni, del comportamento del cuore).
Prima del 2008 i portatori di pacemaker e di defibrillatori dovevano recarsi in Cardiologia rispettivamente ogni 6/12 e 3/6 mesi per la verifica del buon funzionamento dei dispositivi. In seguito i pazienti sono stati forniti di un “comunicatore” capace di scaricare e spedire i dati semplicemente sostando accanto ad esso, grazie ad un’antenna di cui sono dotati i dispositivi.
Ora è sufficiente uno smartphone o un tablet sui cui scaricare gratuitamente l’App MyCarelink Heart. Un’innovazione che apre scenari molto importanti. “I pacemaker con il bluetooth possiedono interessanti potenzialità – sottolinea il dottor Molon -. Potrebbero, per esempio, essere ‘connessi’ alla centrale del 118, ad altri numeri di emergenza o personali del paziente. Diventerebbero così un dispositivo di sicurezza eccezionale in caso di malori improvvisi”.
Sull’App il paziente può conservare preziose informazioni come il residuo di batteria del pacemaker e la quantità di attività fisica effettuata durante la giornata.
Nella foto: il dottor Giulio Molon (al centro) e il dottor Alessandro Costa (il primo a sinistra) con i dirigenti europei ed italiani della Medtronic
Calcoli renali: come curarli senza chirurgia
Dalla litotrissia extracorporea a quella percutanea: tutte le procedure non e mini-invasive impiegate dall’Urologia di Negrar per il trattamento della calcolosi renale: la chirurgia viene adottata solo in rari casi
La calcolosi renale – nefrolitiasi o litiasi renale – è una delle malattie più diffuse delle vie urinarie ed è caratterizzata dalla presenza di sassolini, calcoli appunto, nel rene, nell’uretere e nella vescica.
Si stima che in Italia si verifichino circa 100mila nuovi casi all’anno, con un tasso di recidiva dal 25% al 50% dopo cinque anni. Numeri rilevanti confermati anche dall’attività dell’Urologia del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dal dottor Stefano Cavalleri (nella Photo Gallery), che registra circa tre interventi alla settimana per calcolosi, condotti quasi esclusivamente con metodologie non invasive e mininvasive.
Ma cosa sono i calcoli renali? “Sono formati dall’aggregazioni di cristalli presenti nella matrice organica dell’urina che si verifica, per esempio, in soggetti che per predisposizione genetica hanno ridotti meccanismi di difesa contro questo fenomeno”, risponde il dottor Cavalleri. “Influiscono anche una dieta povera di liquidi e il verificarsi di infezioni”.
I sintomi della calcolosi renale sono noti e chi ne ha sofferto non li dimentica facilmente. La colica renale è caratterizzata da un dolore acuto localizzato nella zona addominale che si irradia fino all’inguine e coinvolge anche la parte bassa della schiena e i fianchi. Esso è dovuto agli spasmi dell’uretere per espellere il calcolo.
“E’ diffusa l’idea che durante la colica si debba bere per facilitare l’espulsione – riprende il dottor Cavalleri -. Nulla di più sbagliato. Se si sovraccarica la via urinaria di liquidi, gli spasmi invece di diminuire aumentano, con effetti ancora più dolorosi. E’ invece necessario assumere farmaci antispastici e antinfiammatori. Molto utile è il calore (borsa dell’acqua calda o anche un bagno caldo), che ha effetto miorilassante”.
Ma se il dolore è un sintomo della calcolosi, lo è anche il non dolore. “Passata la colica si pensa che il problema sia superato – sottolinea il medico -. Invece può capitare che il calcolo si blocchi lungo il percorso che lo porta alla vescica mettendo in sofferenza il rene che, dilatandosi, può perdere nel tempo la sua funzionalità. Per questo dopo una colica è bene rivolgersi sempre all’urologo”.
Non molti anni fa le uniche terapie per la calcolosi renale erano l’espulsione spontanea del calcolo o la chirurgia open a cui invece oggi si ricorre in rari casi e in associazione ad un intervento per altre patologie, come le malformazioni renali. L’Urologia attuale infatti dispone di metodologie non invasive o mini-invasive, che consentono al paziente di ritornare alla vita di tutti i giorni in breve tempo. Ecco quelle utilizzate dall’Urologia di Negrar “in base alle dimensioni del calcolo, alla sua posizione e alla configurazione anatomica delle vie urinarie del paziente”, spiega ancora il dottor Cavalleri.
La litotrissia extracorporea a onde d’urto è la procedura non invasiva per eccellenza ed è indicata quando il calcolo è posizionato nel rene e ha piccole dimensioni (inferiore a 1,5 – 2 centimetri). Il paziente viene fatto sdraiare sulla macchina (litotritore) appoggiando il fianco su un cuscino riempito d’acqua. Il calcolo viene frantumato grazie alle onde d’urto generate dalla macchina e veicolate tutte sul calcolo. Il trattamento non prevede anestesia, non necessita di ricovero e ha la durata è di 45-60 minuti. I frammenti del calcolo vengono poi espulsi attraverso le urine nei giorni successivi.
La litotrissia endoscopica endorenale per via retrograda (RIRS-Retrograde Intrarenal Surgey) è indicata per calcoli inferiori a 2 centimetri ed è la metodica più innovativa per la terapia della calcolosi renale. Grazie ad un endoscopio molto flessibile è possibile arrivare al rene per vie naturali e una volta individuato il calcolo polverizzarlo con un laser ad olmio. I frammenti più piccoli vengono espulsi spontaneamente mentre i più grossi vengono asportati con appositi cestelli che intrappolano il calcolo e ne permettono l’estrazione. Il trattamento è effettuato in anestesia generale e prevede il ricovero di una notte.
La litrotrissia percutanea (PCNL- Percutaneous nephrolithotomy) è il gold standard per i calcoli superiori a 2 centimetri di diametro in quanto permette una totale bonifica del calcolo, senza lasciare frammenti. La procedura consiste nella creazione sul fianco di un accesso percutaneo al rene di circa 1 centimetro. Dall’accesso è introdotto un nefroscopio (strumento ottico) all’interno delle quale viene posizionata una sonda ad ultrasuoni in grado di frantumare il calcolo. I frammenti vengono aspirati o rimossi con la pinza. E’ un intervento che si effettua in anestesia generale e richiede un ricovero 1-3 notti
elena.zuppini@sacrocuore.it
Una Pasqua di speranza per tutti coloro che soffrono
Padre Miguel Tofful, Superiore Generale dell’Opera Don Calabria, nel messaggio augurale per la Santa Pasqua ha ringraziato tutti gli operatori della Cittadella della Carità per il loro servizio agli ammalati
“La nostra grande missione oggi nella Cittadella della Carità, attraverso la professionalità e la vicinanza agli ammalati, è quella di donare speranza”.
Con queste parole padre Miguel Tofful, Casante dell’Opera Don Calabria, si è rivolto a tutti gli operatori dell’ospedale “Sacro Cuore-Don Calabria” nel messaggio per la Santa Pasqua 2018 (vedi discorso completo). Proprio la speranza è stata il tema centrale della riflessione del Casante, una speranza che nasce dalla sofferenza della croce e trova compimento nella risurrezione.
Facciamo nostre le parole di padre Tofful e le rivolgiamo come augurio pasquale a tutti coloro che frequentano la Cittadella della Carità: ammalati, operatori e familiari.
Ecco come il Casante conclude il suo messaggio: “Carissimi fratelli e sorelle, la speranza non può morire. Cristo risorto è la nostra speranza, Lui non muore. Pensate quanto bene e quanta speranza possiamo diffondere nel nostro quotidiano, nel vostro lavoro e servizio alle persone più bisognose. Il Signore risorto ci riempia della sua speranza per portarla al cuore dell’umanità con gesti semplici e concreti, come seppe fare san Giovanni Calabria. Questo messaggio pasquale vuole essere un invito a tutti di vivere la speranza cristiana, che nasce dalla croce di Gesù e dona alla vita il vero senso.
Grazie della vostra presenza, grazie del vostro servizio nella Cittadella della Carità. Il Cristo risorto ci faccia tutti messaggeri di speranza. Auguro a tutti voi e alle vostre famiglie una buona e santa Pasqua”.
* Nelle foto: il Casante incontra gli operatori della Cittadella della Carità (28 marzo 2018)
Obesità: da fattore di rischio a malattia
In un convegno al “Sacro Cuore Don Calabria” il confronto tra gli specialisti sul trattamento dell’obesità, per cui può essere indicata una terapia medica o chirurgica. L’attività del team di Chirurgia bariatrica di Negrar
A lanciare l’allarme è l’Organizzazione Mondiale della Sanità: oltre 1,9 miliardi di adulti sono in sovrappeso (dati 2016) di cui oltre 650 milioni obesi. Il 39% degli uomini e il 40% delle donne in tutto il mondo deve fare i conti con l’obesità, sebbene con percentuali variabili da Paese a Paese: in Italia più di un terzo della popolazione adulta (35,3%) è in sovrappeso, mentre il 13% è obeso, percentuale quest’ultima che nel Veneto scende al 10%.
Un quadro preoccupante, aggravato dall’aumento progressivo delle persone coinvolte nel problema, soprattutto i più giovani: sempre l’Oms stima che la prevalenza di sovrappeso e obesità nel mondo tra i bambini e gli adolescenti di età compresa tra i 5 e i 19 anni è aumentata dal 4% nel 1975 al 18% nel 2016.
Da più parti si parla di vera e propria epidemia, per quella che veniva considerata un fattore di rischio e che invece oggi è definita dalla comunità scientifica una malattia. L’obesità ha infatti a sua volta dei fattori di rischio e una terapia medica o chirurgica. Si parlerà infatti dell’evoluzione del trattamento dell’obesità mercoledì 4 aprile al “Sacro Cuore Don Calabria” in un convegno (rispervato a medici, infermieri, psicologi e dietisti dell’ospedale) organizzato dal dottor Roberto Rossini, chirurgo bariatrico della Chirurgia generale, diretta dal dottor Giacomo Ruffo. Il tema sarà affrontato con un approccio multidisciplinare attraverso gli interventi di neurologi, ortopedici, internisti, diabetologici, psicologici, psichiatrici, dietologi, anestesisti, chirurghi generali e plastici.
“E’ la malattia a richiedere una presa in carico multispecialistica –sottolinea il dottor Rossini -. L’alimentazione ipercalorica e la sedentarietà rappresentano le cause principali dell’obesità, stili di vita influenzati anche dall’ambiente. Capita spesso che bambini in sovrappeso siano figli di genitori obesi e che l’obesità abbia un’incidenza maggiore nella popolazione economicamente svantaggiata, per l’assunzione di ‘cibo spazzatura’, notoriamente meno costoso”.
Ma a questi fattori di rischio si affiancano altri più strettamente medici. “L’assetto ormonale è un fattore di rischio – prosegue -. Per esempio la grelina, definito l’ormone dell’appetito, aumenta prima dei pasti per stimolare la fame, e diminuisce rapidamente dopo il consumo di cibo. Nel paziente obeso si osserva una ridotta soppressione della grelina una volta mangiato. Non solo. Anche l’artrosi può essere un fattore di rischio dell’obesità. E le apnee notturne sono una conseguenza dell’obesità, ma nello stesso tempo fattore di rischio in quanto è ormai provato scientificamente che chi dorme male poi cerca come compensazione cibi dall’elevato indice calorico”.
Presso l’ospedale di Negrar da tre anni opera un gruppo multispecialistico per la terapia chirurgica del paziente obeso, che comprende il dottor Rossini e la collega chirurgo, Irene Gentile, e le dottoresse Federica Scali (dietista), Eleonora Geccherle (psicologa), Maria Paola Brunori ed Emanuela Fortuna (gastroenterologhe). Ai quali si affiancano altri specialisti, in caso di particolari problemi da parte del paziente. L’équipe collabora anche con l’Unità funzionale di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda dove il paziente può svolgere un percorso psicologico e di educazione alimentare (in regime di ricovero o in day hospital) di tre settimane prima di accedere all’intervento. Il dottor Riccardo Dalle Grave, responsabile dell’Unità, interverrà al convegno.
Il tipo di intervento bariatrico effettuato a Negrar è la sleeve gastrectomy che consiste nell’asportazione di gran parte dello stomaco, che assume la forma di un tubo collegato al duodeno. Questo comporta maggior senso di sazietà, non solo per la riduzione dello spazio di contenimento del cibo, ma anche perché viene asportata quella parte dello stomaco deputata alla produzione della grelina.
“I pazienti bariatici richiedono particolari cure – sottolinea il chirurgo – sia nella fase di preparazione dell’intervento, sia dal punto di vista anestesiologico e tecnico, a causa del dell’elevato indice di massa corporea (superiore a 30) e della ingente quantità di grasso viscerale. Sia, infine, durante il follow up”. La chirurgia, infatti, è una terapia definitiva dell’obesità solo se accompagnata da un radicale cambiamento degli stili di vita. “Da qui l’importanza della presenza dello psicologo nel team la cui diagnosi è fondamentale per l’indicazione all’intervento – conclude Rossini – Come è fondamentale seguire questi pazienti nel tempo per evitare che riprendano peso o al contrario non si alimentino in modo adeguato, andando incontro all’anoressia”.
Tute mimetiche in Pediatria, ma donano uova di cioccolato
Il reparto ha ricevuto la gradita visita degli allievi dell’85° Reggimento Addestramento Volontari “Verona” che hanno portato in dono le uova pasquali con grande gioia dei piccoli pazienti
Con le loro tute mimetiche avrebbero potuto incutere un po’ di timore ai bambini ricoverati in Pediatria. Ma sono stati sufficienti i loro sorrisi e le uova di cioccolato portate in dono a trasformare gli allievi dell’85° Reggimento Addestramento Volontari “Verona” in tanti “Babbi Pasquali”.
E’ stata infatti una mattinata di festa per i bimbi in cura presso il reparto al quarto piano del “Sacro Cuore”, diretto dal dottor Antonio Deganello, che hanno ricevuto la visita di quindici “aspiranti militari”, tra cui una ragazza, e dei loro superiori. Con loro tante uova di Pasqua colorate che gli allievi hanno distribuito sia in reparto sia presso l’ambulatorio pediatrico, rendendo felici i giovani pazienti e anche i loro genitori. Tra i militari anche Simone Careddu, il primo maresciallo della Folgore che è stato testimonial della presentazione dell’esoscheletro acquisito dal Dipartimento di Riabilitazione dell’ospedale di Negrar nel 2015.
La presenza dei militari al “Sacro Cuore Don Calabria” – accolta con entusiasmo e gratitudine dalla direzione dell’ospedale, rappresentata dal vicepresidente don Waldemar Longo – ha origine dalla campagna “Cerco un uovo amico” promossa dell’Associazione Italiana per la lotta al Neuroblastoma Onlus, a cui l’Esercito ha concesso il patrocinio. L’85° Reggimento Addestramento Volontari “Verona”, di stanza alla Caserma Duca, ha voluto così contribuire alla raccolti fondi per la ricerca su uno dei più frequenti tumori pediatrici, acquistando le uova di cioccolato da regalare poi ai bambini ricoverati a Negrar e presso l’ospedale di Borgo Trento.
L’85° Reggimento Addestramento Volontari (RAV) “Verona”, guidato dal Colonnello Alessio Gabriele Degortes, è uno dei tre reggimenti, l’unico nel Nord Italia, dedicati alla formazione e alla preparazione dei giovani che decidono di intraprendere la vita militare come volontari di ferma prefissata di un anno.
“La formazione e l’addestramento – spiega il Colonnello Degortes – non possono prescindere da tutte quelle iniziative di accrescimento del senso civico e del capitale umano della nostra comunità. Per far questo, durante la permanenza di 10 settimane presso l’85° Reggimento, allo studio delle materie militari e all’addestramento al combattimento, gli allievi affiancano la partecipazione a diversi incontri e conferenze formativi ed informativi. Da quelli tenuti dalle associazioni per la donazione del sangue e degli organi, a quelli sulla sicurezza stradale e la tutela della legalità. La distribuzione in ospedale delle uova pasquali è uno di questi importanti momenti di formazione umana”.
“Nel nostro reparto accogliamo con favore qualsiasi iniziativa che possa alleggerire la permanenza dei bambini in ospedale, un momento non facile per loro e per le loro famiglie – afferma il dottor Deganello -. Quindi ringraziamo di cuore i responsabili del Reggimento e questi ragazzi per i loro doni e per la loro gentile presenza a pochi giorni dalle festività pasquali”.
Da parte loro anche i piccoli pazienti hanno voluto ringraziare gli insoliti ospiti, donando in cambio sorrisi e affettuosi abbracci.
Nella Photo Gallery alcuni momenti della mattinata
Se il sistema dell'equilibrio va in tilt: la vertigine
Il dottor Sergio Albanese, direttore dell’ORL, spiega perché all’improvviso il mondo sembra girare attorno a noi, facendoci perdere il controllo del nostro corpo: dalla labirintite alla sindrome di Menière
E’ un’esperienza che chi prova non augura nemmeno al suo peggior nemico: all’improvviso il mondo gira attorno al malcapitato, costringendolo a fare i conti con la perdita di controllo del proprio corpo e a cercare disperatamente un qualsiasi appiglio per non cadere rovinosamente a terra. E’ la vertigine causata da una brusca alterazione di quel sistema complesso chiamato equilibrio, grazie al quale l’uomo può rimanere eretto nonostante il baricentro molto stretto.
“Soprattutto per coloro che non hanno mai provato una sensazione simile, la vertigine è un evento traumatico – spiega il dottor Sergio Albanese, direttore dell’Otorinolaringoiatria del “Sacro Cuore Don Calabria” -. Infatti molto spesso alla terapia per la patologia vertiginosa, dobbiamo affiancare anche farmaci che compensino l’aspetto psicologico, molto provato da questa fulminea sensazione di insicurezza”.
Ma da cosa è provocata la vertigine? “Quello dell’equilibrio è uno dei sistemi del nostro corpo più complessi e affascinanti – risponde il medico – garantito essenzialmente da dei sensori periferici, situati in gran parte nell’orecchio, e da un sistema centrale di elaborazione delle informazioni, che è il cervello, in dialogo fra loro. Quando accade un evento anomalo a uno o all’altro degli elementi si verifica la vertigine”.
Le vertigini più comuni, che colpiscono almeno una volta nella vita una grande fetta della popolazione, sono chiamate genericamente labirintiti e fanno parte della famiglia delle vertigini sporadiche a cui appartiene anche la vertigine posizionale parossistica benigna.
“La labirintite è causata di solito da un attacco virale tale da infiammare l’organo dell’equilibrio dentro l’orecchio (labirinto) – spiega ancora il direttore dell’Orl – Si manifesta all’improvviso con una forte vertigine che persevera ore fino, nei casi più gravi, a intere settimane. Di solito si impiega una terapia per controllare la nausea e il vomito provocata dalla vertigine, accompagnata da farmaci per attenuare il senso di sbandamento”.
La fase di guarigione ha un andamento non lineare che induce il paziente, per il fatto di sentirsi meglio, ad adottare comportamenti a rischio come guidare l’auto, la moto, salire su una scala a pioli o andare in bicicletta. “E’ necessario invece essere molto cauti – raccomanda il medico – perché la vertigine può ripresentarsi all’improvviso. Soprattutto per coloro che svolgono determinate professioni come gli autisti di pullman o di camion è consigliabile sottoporsi presso l’otorino ad un test di verifica dell’avvenuta guarigione prima di riprendere il lavoro”.
Rispetto alla labirintite, di diversa natura, e causa, è la vertigine posizionale parossistica benigna. Anche questa compare all’improvviso, ma solo nel passaggio dalla posizione eretta a quella supina e viceversa. Oppure quando ci si gira nel sonno in direzione dell’orecchio coinvolto. A differenza delle vertigini da labirintite, quelle posizionali, pur provocando una rotazione intensa, durano pochi secondi e sono causate da un un problema ‘meccanico’. I ‘colpevoli’ sono gli otoliti, minuscoli cristalli di ossalato di calcio contenuti in alcuni sensori dell’apparato vestibolare, cioè la porzione dell’orecchio che contiene i recettori dell’equilibrio. Non si conosce esattamente il motivo che porta al distacco degli otoliti che, viaggiando nei canali semicircolari dell’orecchio, interferiscono con le terminazioni nervose, causando disturbo.
“In questi casi non esiste terapia farmaceutica – prosegue – in quanto è necessario risolvere il problema ‘meccanicamente’, cioè tentare di riportare i cristalli nella loro posizione originale. E questo lo possiamo fare solo con le manovra di Epley o di Dix Hallpike “. Si tratta di una procedura effettuata dal medico, in cui il paziente viene, in tutta sicurezza, fatto bruscamente passare dalla posizione seduta a quella supina, con la testa girata verso il lato sintomatico. “Questo movimento provoca una fuoriuscita dell’otolita dal canale semicircolare- sottolinea l’otorino – che nella maggioranza dei casi è risolutiva. Il paziente, per così dire, guarisce”.
Oltre alle vertigini sporadiche, esiste anche la famiglia delle vertigini recidivanti. Ne fanno parte quelle legate a disturbi del microcircolo cerebrale, tipiche dell’anziano, o a malattie neurologiche primitive come la sclerosi multipla. Ma anche la Sindrome di Menière, che però merita un capitolo a parte.
Le prime due hanno un esordio sfumato, sono incostanti, mai accompagnate da nausea e vomito. La sensazione avvertita è di un’oscillazione laterale e di un’incertezza nel camminare, come se si fosse sotto l’effetto dell’alcool. Sintomo attenuato con la somministrazione di farmaci che agiscono sulla vascolarizzazione del sistema nervoso centrale.
“La Sindrome di Menière invece si manifesta all’improvviso e con violenza – descrive Albanese – Si tratta di una malattia cronica con episodi che si ripetono nel tempo e per questo altamente invalidante. Relativamente diffusa, la sindrome è provocata da un aumento della pressione dei fluidi contenuti nel labirinto auricolare dell’orecchio interno. La vertigine è accompagnata da perdita dell’udito, da nausea, senso di vomito e da un fischio intenso all’orecchio, che si risolve con la cessazione della rotazione. Non essendo ancora note le cause, non esistono farmaci specifici, ma solo terapie sintomatiche”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Un incontro dedicato ai nuovi medici del "Sacro Cuore"
Un gruppo di trentacinque medici “neo-assunti” della Cittadella della Carità si è incontrato a San Zeno in Monte per condividere un’occasione di formazione su radici, valori e obiettivi dell’ospedale e dell’Opera calabriana
Sono trentacinque i giovani medici del Sacro Cuore Don Calabria che sabato 17 marzo hanno partecipato ad una giornata di formazione a San Zeno in Monte, presso la Casa Madre dell’Opera Don Calabria (vedi foto di gruppo). Un appuntamento utile per conoscersi e per sperimentare quello spirito di “famiglia calabriana” che tanto caro stava a San Giovanni Calabria, fondatore dell’omonima Opera e dell’ospedale di Negrar.
L’incontro era rivolto ad un primo gruppo di medici “neo-assunti” che hanno iniziato a collaborare con il Sacro Cuore dal 2014. Si tratta di un’iniziativa fortemente voluta dalla direzione per promuovere la condivisione dei valori e degli obiettivi dell’ospedale, guardandoli anche alla luce delle sue radici e della “mission” dell’Opera calabriana.
“Competenza, umanità e spiritualità sono le tre caratteristiche fondamentali per un medico che lavora alla Cittadella della Carità di Negrar – ha detto il Casante dell’Opera padre Miguel Tofful, intervenuto durante la mattinata – quando trattiamo con i pazienti dobbiamo essere consapevoli che siamo chiamati a prenderci cura degli ultimi, dei sofferenti, dei poveri, proprio come don Calabria al suo tempo. L’umanità non toglie nulla alla competenza, anzi è un valore aggiunto”.
L’incontro, moderato dal direttore sanitario dottor Fabrizio Nicolis, ha visto il saluto dell’Amministratore Delegato Mario Piccinini, che ha illustrato le principali attività dell’ospedale sottolineando come la filosofia aziendale sia quella di dare grande importanza alla formazione professionale e umana. Nel suo intervento, il presidente fratel Gedovar Nazzari ha sottolineato come don Calabria avesse una grande considerazione per la professione medica. Tra gli altri testi, ha citato questa lettera del fondatore: «Quello del medico è ufficio non di semplice professione, ma di vera e propria missione. Il medico è chiamato da Dio a collaborare sia per il sorgere e l’affermarsi della vita, sia per il suo progresso e rinvigorimento come per curarne le infermità o almeno lenirne i dolori».
Nella parte finale della mattinata hanno portato una testimonianza alcuni primari dell’ospedale: la dottoressa Stefania Gori, il dottor Giacomo Ruffo e il dottor Matteo Salgarello hanno dato il quadro di un ospedale che guarda ai giovani e vuole lasciar loro ampio spazio per crescere, imparare e contribuire con le loro idee e la loro preparazione.
L’incontro si è chiuso con la visita alla tomba di san Giovanni Calabria e poi con un pranzo che ha permesso un momento di convivialità e fraternizzazione tra “colleghi”, un momento prezioso per conoscersi e sentirsi parte di una grande istituzione al servizio dei poveri e dei sofferenti.
matteo.cavejari@sacrocuore.it