Ha vissuto la grande trasformazione della Riabilitazione, alla quale il “Sacro Cuore Don Calabria” ha dato un grande contributo a livello nazionale. Il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento  lascia l’Ospedale di Negrar dopo 40 anni. L’incontro con i suoi maestri, l’impegno per una disciplina che veniva considerata la cenerentola della medicina, l’amore per la scrittura per il piacere… di scrivere

Con il dottor Renato Avesani è sempre stato così: si inizia a parlare di riabilitazione e si finisce con i grandi temi della vita: la bellezza dell’esistere, il dolore, la sofferenza, l’accompagnamento alla morte…. Ed è stato così anche per questa lunga chiacchierata in occasione della sua prossima pensione, dopo 40 anni trascorsi all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di cui 20 da direttore del Servizio di Riabilitazione e Medicina Fisica e 15 da direttore del Dipartimento di Riabilitazione. Anche i consigli per la sua équipe, che lascerà alla guida della dottoressa Elena Rossato (con lui nella foto), sono in linea con il suo essere non solo un fisiatra.

La riabilitazione deve essere attenta all’evolversi dei bisogni della società e deve nutrirsi di cultura, scienze umanistiche, altrimenti resta solo tecnica incapace di prendersi cura del paziente”. Suona un po’ strano per un fisiatra che ha introdotto tra gli strumenti di cura l’esoscheletro e i robot per la riabilitazione degli arti superiori… “La tecnologia è una risorsa fondamentale nel campo riabilitativo. Io credo moltissimo nella tecnologia – sottolinea -. Ma se dovessi aver bisogno di riabilitazione, vorrei essere toccato innanzitutto da mani umane…”. Non a caso In punta di mani (Ed. SMART- Verona) è proprio il titolo del suo ultimo libro, che uscirà il 30 aprile. Il quarto, frutto della seconda passione del dottor Avesani: la scrittura. “Si stratta un bignami autobiografico della storia della riabilitazione. Autobiografico non perché parla della mia vita, ma della riabilitazione che io ho voluto e che vorrei”.

Quando si è detto ‘voglio essere un fisiatra’? “Ho scelto questa specializzazione per affetto verso il dottor Giorgio Salvi, che mi ha preceduto nella direzione del Servizio – risponde -. Prima di conoscerlo volevo fare l’ortopedico. L’ho incontrato grazie a un mio amico sacerdote, che me lo ha presentato una sera in una “casa famiglia”. A quel tempo il dottor Salvi, oltre ad essere responsabile a Negrar di un reparto che accoglieva in lungodegenza i pazienti con patologie neurologiche croniche, era il referente medico di una struttura per adulti con disabilità acquisite. Una realtà dell’Opera Don Calabria, di via Roveggia, ma gestita dall’associazione Centro Promozione Handicappati. Siamo nella metà degli anni Settanta, quando ancora questo termine era tollerato…”.

Il giovane specializzando Avesani mette piede per la prima volta a Negrar nella primavera del 1981, dividendosi per due anni (1981-83) tra il reparto e la casa famiglia dove svolge il Servizio Civile, uno dei primi giovani a farlo in una realtà dell’Opera Don Calabria. L’assunzione come medico strutturato arriva nel 1987. “Ho avuto la fortuna di iniziare questa professione nel periodo di maggior fermento nel campo della riabilitazione e in un ospedale che, grazie a figure lungimiranti quali il dottor Salvi, il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Carbognin, ha contribuito in modo rilevante alla storia della riabilitazione in Italia – sottolinea -. Eravamo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni Novanta quando un incremento di incidenti stradali, quindi di traumi cranici e di lesionati midollari, ha dato un forte input alla trasformazione della riabilitazione che da cenerentola della medicina dedicata prevalentemente a persone anziane, lungodegenti, è diventata disciplina con obiettivi ben precisi di recupero delle abilità del paziente”.

L’ospedale di Negrar in questo straordinario sviluppo è stato una forza trainate. “Siamo stati tra i primi a introdurre nell’ambito medico-scientifico il concetto che la riabilitazione è tanto più efficace quanto prima viene iniziata. Abbiamo difeso l’importanza che la riabilitazione continui anche fuori dall’ospedale con la ‘riqualificazione professionale’ del paziente prima nel centro di via Roveggia e poi di via San Marco. Infine credo di non sbagliare dicendo che siamo stati i primi ad affiancare alla riabilitazione fisica, la riabilitazione cognitiva introducendo nel nostro Servizio il logopedista, lo psicologo, la terapia occupazionale e l’arteterapia”.

Nel 2003 nasce il Dipartimento di Riabilitazione che passa sotto la direzione del dottor Avesani dal 2006. Lo scopo è quello di realizzare una forte integrazione tra tutti i reparti riabilitativi: il Servizio di Riabilitazione e Medicina Fisica, la Riabilitazione intensiva Unità gravi cerebrolesioni-Unità Spinale (diretta oggi dal dottor Giuseppe Armani) e la Medicina Fisica Riabilitativa e Lungodegenza (dottor Zeno Cordioli). Una realtà che attualmente comprende 17 medici e 42 tra terapisti e logopediste e che nel 2020 ha contato circa 800 ricoveri.

Il Dipartimento comprende anche la Speciale Unità di Accoglienza Permanente (SUAP) dedicata ai cosiddetti stati vegetativi e di minima coscienza. “Nel 2001 la SUAP è stata la risposta della nostra riabilitazione a una domanda specifica della società: quella di creare strutture specializzate per questa tipologia di pazienti. Oggi – sottolinea il dottor Avesani –  la riabilitazione è sollecitata a rispondere ai bisogni di nuove disabilità continuando a seguire quelle storiche. Lo abbiamo visto anche con il Covid, una malattia infettiva che tuttavia ha richiesto l’intervento del fisiatra e del fisioterapista all’interno delle terapie intensive. Un grande ospedale deve trarre vantaggio dalla riabilitazione fin dalla fase acuta della malattia e questo non vale solo per il Covid, ma anche per la Cardiologia, per la Chirurgia…”.

Riflessioni che il dottor Avesani ha messo nero su bianco nei suoi quattro libri, il primo dei quali uscito nel 1994 con il titolo La metà destra del dottor Scandola, scritto a quattro mani con un collega colpito da ictus. Seguirono Ho preso una botta nella memoria (2003), Martedì 15.30, colloqui (2015) e quindi In punta di mani . Libri di medicina narrativa nati dall’esperienza sul campo.

“Scrivo perché… mi piace scrivere – dice -. Perfino vedere il tratto scritto su una pagina di quaderno per me è un piacere estetico. Infatti scrivo rigorosamente a mano, in qualsiasi posto. Quando mi viene un’idea la devo “fermare” sulla carta e poi con calma la rielaboro. Non sono tra coloro per i quali scrivere è una sofferenza, piuttosto il mio intento è quello di tradurre in parole ‘la fatica’ della relazione di cura. Non c’è una ricetta migliore di altre per creare un rapporto con un paziente e soprattutto non si finisce mai di imparare e di sbagliare…”. Quali sono stati i suoi errori? “Tanti. Infatti nel capitolo di chiusura del mio ultimo libro chiedo scusa ai familiari dei miei pazienti di non essere stato sempre all’altezza nel comunicare la gravità della situazione del loro congiunto o di accompagnarli nell’accettazione della cronicità. I due momenti più difficili”.

Ora il dottor Avesani si prepara a girare pagina e ad intraprendere da pensionato una nuova vita. “Sinceramente non ho nulla in programma – prosegue -. Farò più cose con mia moglie, insegnante di scuola materna già in pensione, e ho un mezza idea di andare ad insegnare la lingua italiana ai migranti, un settore in cui lavora una delle mie figlie. L’altra mia figlia invece è medico cardiologo a Bordeaux. Sicuramente se la salute me lo permette continuerò a fare escursioni sulle mia amate montagne e a frequentare il mio gruppo di amici storici che hanno contribuito a formare la mia mente”.

Le mancherà questo ospedale? “Avrò certamente nostalgia per questo Ospedale, che mi ha dato l’opportunità di fare quello che volevo e, perché no, di smussare certi lati del mio carattere – conclude -.   Se pensavo di realizzare di più? Sì. Ma io sono un idealista. Un idealista fortunato perché ho realizzato molto”.

elena.zuppini@sacrocuore.it