Allarme zecche: attenzione, ma niente panico
Dall’inizio della primavera si registra una presenza di zecche superiore agli scorsi anni e quindi un numero maggiore di persone che si rivolgono al Pronto Soccorso perché morsi da questo aracnide. Non tutti i morsi di zecca tuttavia possono comportare un’infezione: la zecca per infettare deve essere infetta. Ma quando lo è si può subire non banali conseguenze. Ecco come prevenire i morsi e come agire nel caso in cui, invece, si incorre in questo spiacevole evento.
Non c’è passeggiata in montagna in cui non si senta qualcuno escalamare allarmato: ci sono le zecche! Questi poco simpatici “animaletti” (precisamente aracnidi ematofagi, come i ragni) hanno sempre abitato le zone boschive e rurali con impennate nei mesi primaverili, ma quest’anno la stagione delle zecche sembra sia iniziata prima e sia caratterizzata da “un’invasione”. Colpa della siccità, del caldo anomalo, qualcuno dice del lockdown che ha favorito la discesa dalle montagne di animali selvatici, sta di fatto che un certo aumento di presenza delle zecche è in atto. Il Pronto Soccorso dell’IRCCS di Negrar, infatti, ha registrato un accesso per morso di zecca sia in gennaio, febbraio e marzo, per poi schiazzare a 11 accessi in aprile e s 23 a maggio.
Questo non significa che ad ogni morso corrisponda un’infezione. La zecca per infettare deve essere a sua volta infetta, ma se lo è, può trasmettere patogeni responsabili di gravi patologie come la malattia di Lyme (trasmessa dal batterio Borrelia Burgdorferi, infatti viene chiamata anche Borreliosi) e il virus della TBE (Tick-borne Encephalitis) che causa l’encefalite da zecche. Le zecche portatrici di queste patologie sono soprattutto nel nord-est dell’Italia (Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto).
Nella maggior parte dei casi la malattia di Lyme può essere trattata con successo attraverso la somministrazione di antibiotici per due settimane. Tuttavia se non viene riconosciuta e curata in rari casi la malattia può arrivare a colpire il cuore, le articolazioni e il sistema nervoso nei mesi e negli anni successivi. Per la TBE non è disponibile nessuna terapia e di solito si risolve da sola, ma nella fase avanzata può colpire il sistema nervoso, con sintomi simili a quelli della meningite. La mortalità è inferiore al 2%, ma il rischio di complicanze neurologiche permanenti (da lievi tremori agli arti fino alla paralisi) a lungo termine è del 20%. L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, insieme all’ospedale di Belluno, è centro accreditato della Regione Veneto per le malattie rare infettive, tra cui quelle trasmesse dalle zecche.
COME PROTEGGERSI DAL MORSO DI ZECCA
Bastano piccoli e semplici accorgimenti per fare in modo di non incorrere in un morso di zecca, di per sé non doloroso, perché la zecca libera delle sostanze anestetizzanti al fine di rimanere più a lungo attaccata e nutrirsi con la maggiore quantità di sangue.
Abbigliamento e repellenti
Le zecche prosperano nei terreni boschivi ombrosi e umidi, sulle radure e sui prati, sui campi aperti e sui cespugli. Pertanto se si visita una zona dove la presenza di zecche infette è endemica, è consigliabile adottare un abbigliamento protettivo (pantaloni lunghi, scarponi) su cui spruzzare repellenti specifici.
Vaccino, ma solo le la TBE
Per la TBE è in commercio un vaccino, ad oggi somministrato gratuitamente solo in Friuli Venezia Giulia, zona endemica della malattia, ma consigliabile a tutti coloro che frequentano spesso anche le aree montane e rurali del Trentino Alto Adige e del Veneto.
Controlli dopo la passeggiata
Proprio per la mancanza di dolore, è facile non accorgersi di essere stati morsi. Per questo dopo essere stati in aree dove potrebbe registrarsi la presenza di zecche è importante controllare attentamente la propria persona, eventuali bambin,i e gli indumenti. La zecca può variare come dimensioni (dipende se adulta, ninfa o larva) dalla testa di uno spillo alla grandezza di una gomma applicata dalla matita. Il morso ha solitamente l’aspetto di una piccola lentiggine in rilievo che non si riesce a staccare.
COSA FARE SE SI E’ STATI MORSI
Togliere la zecca
Non è necessario recarsi al Pronto Soccorso ma è fondamentale togliere immediatamente la zecca: esistono in commercio delle apposite pinzette a punta fine, ma ciò che è importante è tirare verso l’alto senza schiacciare o stringere il corpo della zecca, provocare torsioni o strattoni. Non si devono applicare unguenti o somministrare calore in quanto questo indurrebbe un riflesso di rigurgito del sangue succhiato, con un forte aumento di rischio di infezioni.
Disinfettare la ferita
Se all’interno della ferita rimane il rostro, cioè il “gancio” con cui la zecca si attacca, non è pericoloso perché l’eventuale infezione è nel corpo della zecca. Lavare la ferita con acqua calda e sapone e applicare un antisettico come alcol o iodio sull’area interessata.
Attenzione all’insorgenza di sintomi entro 30 giorni
Segnare sul calendario il giorno del morso e recarsi in un Centro di malattie infettive se nell’arco di 30 giorni sorgono sintomi come rash cutaneo rossastro attorno alla sede del morso, febbre, mal di testa, male alle ossa, difficoltà di movimento. Se si è stati in area tropicale dove sono molto diffuse numerose malattie dovute alle zecche infette da vari batteri riconducibili alla famiglia delle rickettsie e sorgono sintomi di vario tipo è fondamentale rivolgersi a Centri che curano anche le malattie tropicali.
Come escludere l’infezione
Non tutte le zecche risultano infette per cui nella maggior parte dei casi non compare alcun disturbo. L’assenza di infezione può essere definitivamente documentata effettuando una sierologia per Borrelia burgdorferi e per TBE virus dopo almeno 6-8 settimane dal morso. Un esame sierologico effettuato prematuramente potrebbe risultare erroneamente negativo in quanto gli anticorpi non hanno avuto ancora il tempo di formarsi.
Calcoli alla colecisti: quando è necessario asportarla chirurgicamente
Nel video qui sotto, la dottoressa Irene Gentile, chirurgo della Chirurgia Generale diretta dal dottor Giacomo Ruffo, affronta il tema delle patologie della colecisti, comunemente chiamata cistifellea.
La colecisti è una sorta di serbatorio delle vie biliani in cui viene raccolta, concentrata ed emulsionata la bile, prodotta dal fegato per la digestione degli alimenti più complessi. Quando la concentrazione della bile non è in equilibrio tra i suoi vari componenti si formano delle cristallizzazioni, i cosidetti calcoli. Una condizione molto diffusa: si stima che il 20% della popolazione se sottoposta a ecografia alla cistifelia presenta dei calcoli.
Questo tuttavia non significa che la presenza di un calcolo comporti il cattivo funzionamento della cistifelia e non tutte le cistifelie che presentano calcoli devono essere asportate. Per questo è necessario riferirsi a una specialista quando si manifestano sintomi (dolore, gonfiore dopo i pasti) che di lieve rilevanza
Screening gratuito per l'epatite C: è possibile fare il test anche al "Sacro Cuore"
La Regione Veneto promuove uno screening gratuito per la diagnosi dell’HCV, il virus responsabile dell’epatite C, ed è rivolto a tutte le persone nate dal 1969 al 1989. Il test (un semplice prelievo di sangue) può essere effettuato anche al “Sacro Cuore DOn Calabria” su prenotazione. Ma cosa può comportare l’infezione da HCV? Lo spiega nell’intervista la dottoressa Sara Boninsegna, epatologa
Viene effettuato anche all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria lo screening per la diagnosi dell’HCV, il virus responsabile dell’epatite C, promosso dalla Regione Veneto. Si tratta di un semplice prelievo di sangue che è possibile prenotare direttamente sul sito www.sacrocuore.it, bottone “prelievo senza coda”. Non serve l’impegnativa ed è totalmente gratuito. In alternativa si può attendere di ricevere l’invito ad effettuare il test seguendo le indicazioni che verranno fornite dalla propria Ulss.
Lo screening è rivolto a tutte le persone nate tra il 1969 e il 1989 e ad alcune popolazioni come i detenuti e coloro che sono seguiti dai Servizi delle Dipendenze.
“Lo screening ha un doppio obiettivo. Innanzitutto la diagnosi precoce per la cura dell’epatite C è fondamentale per prevenire complicanze dell’infezione, quali la cirrosi e quindi, in molti casi, il tumore del fegato (epatocarcinoma) in popolazioni selezionate come coloro che sono seguiti dai Servizi delle Dipendenze e i detenuti. Inoltre la guarigione di tutti malati interrompe la catena dell’infezione, eradicando di fatto il virus. Questo è possibile grazie alla disponibilità di farmaci altamente efficaci”, spiega la dottoressa Sara Boninsegna, epatologa della Gastroenterologia ed Endoscopia digestiva dell’IRCCS di Negrar. “Sottolineo anche – prosegue – che non non esiste memoria immunologica protettiva contro tutti i tipi di virus HCV, pertanto il test è consigliato anche per coloro che sono già stati infettati”.
Dottoressa Boninsegna, cos’è l’epatite C?
Si tratta di un’infezione del fegato provocata dal virus HCV: l’OMS stima che nel mondo vi siano 58 milioni di persone con malattia cronica, e ogni anno si registrano 1,5 milioni di nuove diagnosi. E’ una patologia subdola, perché in fase acuta non dà sintomi specifici, ma comuni ad altre patologie, come per esempio una forte stanchezza (astenia). Pertanto è raro che il paziente si rivolga al medico nella fase iniziale dell’infezione se non nel caso in cui esegue per altri motivi gli esami del sangue e risultino dei valori anomali delle transaminasi. Oppure nell’ambito di protocolli diagnostici per patologie immunosoppressive o reumatologiche per le quali è compreso anche il test per l’HCV.
Perché può trasformarsi in una patologia grave?
Se nel 20% dei casi l’infezione si risolve da sola, in ben l’80% cronicizza con il rischio di trasformarsi in cirrosi (20%) e quindi (nel 2-3% dei casi) in tumore del fegato. Quando la patologia è avanzata può portare anche a problemi renali o reumatologici, e diventare fattore di rischio per i linfomi. Più che l’infezione, sono pesanti per il paziente – e onerose per la Sanità pubblica – le complicanze che comporta se la patologia non viene trattata.
Come si contrae l’infezione?
Tramite il contatto con sangue infetto. Prima degli anni ’80, quando l’HVC non era stato ancora scoperto, una delle maggiori fonti di infezione erano le trasfusioni. Alcuni anni fa vedevamo anche pazienti infettati dopo cure odontoiatriche o causa di tatuaggi, nel tempo in cui venivano effettuati in ambienti non idonei. Oggi diagnostichiamo l’HCV in persone che hanno un presente o un passato di tossicodipendenza, con l’assunzione di sostanze stupefacenti per vena. Invece è rara la trasmissione sessuale, a differenza dell’epatite B, per la quale esiste il vaccino che non abbiamo invece per la C.
Come viene diagnosticato il virus HCV?
Con un semplice prelievo di sangue. Ma attenzione: se il test rileva l’anticorpo HCV non significa che sia in atto l’epatite C. Può anche essere che il soggetto sia venuto in contatto con il virus e abbia sviluppato gli anticorpi. La diagnosi definitiva viene fatta con la ricerca del genoma del virus, tramite indagine di biologia molecolare.
Quali sono le terapie?
La svolta nella cura dell’epatite C è arrivata nel 2014, anno che segna la disponibilità di farmaci in grado di debellare per sempre l’infezione. In precedenza usavamo l’interferone associato con la ribavirina. Molecole che erano poco tollerate dai pazienti a causa dei pesanti effetti collaterali e inoltre l’efficacia era solo del 70% per genotipi più sensibili e si fermava al 40% per quelli meno sensibili. Grazie alla ricerca, oggi possiamo usare degli antivirali diretti, in grado di inibire la replicazione del virus. Sono farmaci ben tollerati dal paziente. L’unico problema consiste nell’interazione con altri farmaci. Pertanto richiedono una certa attenzione nella prescrizione se il paziente assume altre terapie (per esempio per il colesterolo, per il reflusso o per l’epilessia…). La terapia prosegue al massimo per tre mesi e il farmaco viene distribuito dalle farmacie ospedaliere.
Tutti i pazienti hanno accesso ai farmaci?
Tutte le persone colpite dal virus possono accedere alla terapia. All’inizio gli antivirali a causa dell’alto costo erano prescritti solo ai pazienti con patologia avanzata. Con l’arrivo di più farmaci sul mercato (nel 2019) i costi per il Servizio Sanitario Nazionale si sono notevolmente abbassati dando la possibilità a tutti di curarsi.
Giornata mondiale dell'ortottista, una figura importante per la salute dei nostri occhi
Domani 6 giugno è la Giornata mondiale dell’ortottista, una figura che affianca l’oculista nella sua attività clinica, ma con competenze specifiche sia nell’ambito diagnostico che in quello riabilitativo.
Il primo lunedì di giugno, dal 2013, si celebra la Giornata mondiale dell’ortottica per promuovere le attività degli ortottisti nel mondo.
L’ortottista assistente di oftalmologia è il professionista sanitario che opera nell’ambito della visione dall’età pediatrica fino all’età senile e “tratta i disturbi motori e sensoriali della visione ed effettua le tecniche di semeiologia strumentale-oftalmologica”.
All’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria gli ortottisti dell’Unità Operativa Complessa di Oculistica, diretta della dottoressa Grazia Pertile, sono 13: Samantha Arcoria, Fabrizio Arena, Elisa Bellesini, Giovanni Chillemi, Fabio Di Cerbo, Gaia Giacomello, Loredana Mazza, Alessia Menegotti, Lisa Munaretto, Gloria Parrozzani, Eleonora Rocco, Alberto Saccomanno e Francesca Tamellini
La professione dell’ortottista è nata in Italia nel 1955 da un percorso universitario di laurea Triennale in “Ortottica ed assistenza oftalmologica” e appartiene all’area della riabilitazione. Con l’entrata in vigore della Legge Lorenzin è stato costituito un unico grande ordine professionale: la Federazione Nazionale dei TSRM e delle PSTRP (tecnici sanitari di radiologia medica e delle professioni Sanitarie Tecniche della Riabilitazione e della Prevenzione), che include 220mila professionisti sanitari afferenti a 19 diversi albi.
In Italia gli ortottisti assistenti di oftalmologia sono oltre 3000. Si tratta di una professione poco numerosa quindi spesso poco conosciuta, questo comporta che per esami, valutazioni e riabilitazione visiva numerose persone, bambini e adulti, non vi accedano o vi arrivino in ritardo.
I professionisti della visione in Italia sono molteplici: oculisti, ortottisti ed ottici.
Si tratta di professionisti con competenze e profili diversi ma complementari tra loro, che non sempre l’utenza riesce a definire e distinguere in maniera corretta. L’ortottista assistente di oftalmologia è il professionista sanitario che opera in autonomia e in stretta collaborazione con le figure mediche e con altri professionisti sanitari nella prevenzione, valutazione e riabilitazione dei disturbi motori e sensoriali della visione (ambliopia o occhio pigro, strabismo, diplopia, test di Hess Lancaster, applicazione prismatica etc..).
L’ortottista effettua le tecniche di semeiologia strumentale-oftalmologica (esame della rifrazione, campo visivo, OCT, angiografia retinica, pachimetria corneale, biomicroscopia endoteliale, topo/tomografia corneale, esami elettrofunzionali visivi, biometria, test della percezione dei colori, sensibilità al contrasto, test visivi per rinnovo patente o per invalidità etc.).
È il riabilitatore del paziente ipovedente, dei bambini con DSA che presentano alterazione delle abilità visive, dei pazienti con disordini visivi in sindromi neurologiche.
Analizza la qualità della visione nei luoghi di lavoro e tratta i disturbi astenopeici.
Assiste il chirurgo oftalmologo nelle sale operatorie di oculistica (strumentazione e ruolo di key operator).
Svolge attività di ricerca scientifica (raccolta di dati clinici e strumentali, data manager etc).
L’ortottista assistente di oftalmologia opera in strutture sanitarie pubbliche del Sistema Sanitario Nazionale, private accreditate e convenzionate, studi individuali e associati in regime di dipendenza o libero-professionale, centri-strutture di riabilitazione, in istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS). Svolge consulenza in ambito di qualità di visione presso Aziende, Associazioni e Società sportive.
Breve profilo del nuovo Casante, della Madre e dei loro Consigli

Domenica 29 maggio si sono conclusi i Capitoli Generali dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza, durante i quali sono stati eletti il nuovo Casante, che è don Massimiliano Parrella, e la Madre Generale, che è la riconfermata Sor. Lucia Bressan. Inoltre sono stati eletti i nuovi Consigli Generali che li affiancheranno.
Si sono conclusi i XII Capitoli Generali dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza, celebrati a Maguzzano per tutto il mese di maggio. Si tratta di un evento che accade ogni sei anni, durante il quale si riuniscono i rappresentanti delle due Congregazioni provenienti da tutte le parti del mondo.
Negli incontri assembleari i religiosi e le religiose di don Calabria si sono confrontati sulle sfide che attendono l’Opera calabriana nei prossimi anni, avviando un lavoro di rinnovamento all’insegna della comunione e della sinodalità tra Fratelli e Sorelle e con i Laici. Sul sito dell’Opera è possibile leggere il messaggio finale dei capitolari alla Famiglia Calabriana (vedi messaggio), mentre il documento finale del Capitolo che contiene gli obiettivi dei prossimi anni sarà divulgato tra pochi giorni.
Durante i Capitoli c’è stato anche il rinnovo delle cariche apicali delle Congregazioni. In particolare è stato eletto il nuovo Casante, ovvero il successore di don Calabria alla guida dell’Opera; e poi la nuova Madre delle Sorelle e i Consigli Generali.
Il nuovo Casante e il suo Consiglio
Il nuovo Casante è don Massimiliano Parrella, eletto dai 38 capitolari dei Poveri Servi nella mattina di mercoledì 25 maggio. Don Max, di 45 anni e di nazionalità italiana, diventa dunque il settimo successore di don Calabria, succedendo a don Miguel Tofful che era alla guida dell’Opera dal 2008. L’ultimo Casante italiano prima di don Parrella era stato don Pietro Cunegatti, il cui mandato era terminato 26 anni fa.
Nella visione originaria di don Calabria il Casante, che letteralmente significa custode, ha il compito di vegliare sul rispetto dello spirito puro e genuino dell’Opera per conto del suo vero padrone che è Dio Padre. Questo sarà dunque il compito di don Massimiliano per i prossimi sei anni, fino al Capitolo Generale del 2028.
Don Massimiliano Parrella, originario di Roma, ha emesso la sua prima professione come Povero Servo della Divina Provvidenza nel 2003. E’ sacerdote dal 2007. Dopo i primi anni di formazione trascorsi a Verona tra le case di via San Marco, Nazareth e San Giacomo l’obbedienza lo ha chiamato a Roma come parroco della parrocchia calabriana di Santa Maria Assunta e San Giuseppe, a Primavalle. Incarico che ha ricoperto fino a oggi, quando il Capitolo lo ha chiamato ad essere Casante di tutta l’Opera fondata da San Giovanni Calabria.
Successivamente i capitolari hanno eletto il nuovo Consiglio Generale. Ne fanno parte: l’argentino don Fernando Speranza (49), vicario generale; don Bineesh Mancheril, indiano (38), fratel Gedovar Nazzari, brasiliano (65) che è anche presidente dell’ospedale di Negrar e fratel Lino Busi, italiano (55). I quattro eletti faranno parte del Consiglio Generale insieme al nuovo Casante e resteranno in carica fino al prossimo Capitolo nel 2028.
La Madre Generale e il suo Consiglio
Sempre il 25 maggio le Sorelle Capitolari hanno eletto la loro Madre Generale, confermando nell’incarico Sor. Lucia Bressan, 59 anni e nativa di Treviso. Madre Lucia, che aveva già questo incarico nel sessennio appena trascorso, è l’ottava Madre Generale della Congregazione. Guiderà le Povere Serve della Divina Provvidenza per i prossimi sei anni fino al 2028.
Anche le Sorelle hanno scelto il loro nuovo Consiglio Generale. Sono state elette Sor. Loris Teresinha Trevisol, brasiliana di 58 anni, come vicaria generale; Sor. Raquel Serejo, brasiliana (40); Sor. Ionà Maria Dos Santos, brasiliana (52); Sor. Luigia Campi, italiana (56).
L'Opera Don Calabria in udienza da Papa Francesco
Lunedì 30 maggio Papa Francesco ha accolto in visita privata una delegazione dell’Opera Don Calabria guidata dal nuovo Casante, don Massimiliano Parrella, e dalla Madre Generale Lucia Bressan. Con loro i Fratelli e le Sorelle che hanno partecipato ai XII Capitoli Generali e un gruppo di laici della Famiglia Calabriana
La cultura della condivisione e la fiducia nella Provvidenza sono l’antidoto contro la cultura dell’indifferenza e dello scarto da cui è dominata la società di oggi. E’ questo il cuore del messaggio che Papa Francesco ha indirizzato ai rappresentanti dell’Opera Don Calabria nell’udienza privata di lunedì 30 maggio. Un messaggio che ha scaldato il cuore dei presenti, ai quali il sommo pontefice ha ricordato la missione lasciata da san Giovanni Calabria di “andare alle periferie per mostrare il volto paterno e materno di Dio“.
VEDI MESSAGGIO COMPLETO DEL PAPA
L’udienza nella Sala Clementina è stata la degna conclusione dei XII Capitoli Generali dei Poveri Servi e delle Povere Serve della Divina Provvidenza, le due Congregazioni fondate da don Calabria, che si sono celebrati nel mese di maggio a Maguzzano (Brescia).
Durante i Capitoli i religiosi e le religiose si sono confrontati sulle sfide che attendono l’Opera oggi, portando avanti un lavoro sinodale con i rappresentanti dei laici impegnati nelle attività calabriane nel mondo. Inoltre i capitolari hanno eletto il nuovo Casante, che è don Massimiliano Parrella, e la nuova Madre Generale, confermando in questo incarico Sor. Lucia Bressan.
I Capitoli si sono conclusi domenica 29 maggio, mentre lunedì 30 i capitolari si sono recati a Roma per l’udienza. Partiti di notte in pullman da San Zeno in Monte, i partecipanti sono arrivati di primo mattino a Roma, accolti dalla comunità parrocchiale di Santa Maria Assunta e San Giuseppe. Dopo la celebrazione di una S. Messa in parrocchia gremita di fedeli, accorsi anche per salutare il nuovo Casante don Massimiliano Parrella che di quella comunità era parroco, la Famiglia Calabriana si è recata in Vaticano per l’udienza con Papa Francesco nella Sala Clementina. E’ stata un’emozione intensa quando il Pontefice è entrato nella Sala, accolto da un grande applauso. Padre Miguel Tofful, che si è molto adoperato per organizzare l’incontro, ha rivolto un messaggio di saluto al Papa a nome dell’Opera. Poi c’è stato il discorso del Papa, dopodichè il Casante don Massimiliano e Madre Lucia hanno consegnato al Pontefice il quadro raffigurante un’icona di San Giovanni Calabria, con dietro le firme di tutti i partecipanti all’udienza. Infine, prima del congedo e della foto di gruppo, ognuno ha potuto salutare personalmente Francesco stringendogli la mano.
Storie che curano: laboratorio di Medicina narrativa per sanitari e pazienti
Storie che curano, è il titolo del Laboratorio di Medicina narrativa promosso dal Servizio di Reumatologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e rivolto ai cittadini (31 maggio e 7 e 14 giugno) e agli operatori sanitari con crediti ECM (9, 16 e 23 giugno). Il Laboratorio sarà tenuto dalla reumatologa Cinzia Scambi, da Elena Pigozzi, giornalista e scrittrice, e da Carla Galvani, fisioterapista e counselor in ambito sanitario.
Storie che curano, è il titolo del Laboratorio di Medicina narrativa promosso dal Servizio di Reumatologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e rivolto ai cittadini (31 maggio e 7 e 14 giugno) e agli operatori sanitari con crediti ECM (9, 16 e 23 giugno). Il Laboratorio sarà tenuto dalla reumatologa Cinzia Scambi, da Elena Pigozzi, giornalista e scrittrice, e da Carla Galvani, fisioterapista e counselor in ambito sanitario. Il corso teorico-pratico è articolato in tre incontri in presenza di 3 ore ciascuno, durante i quali si proporranno esperienze narrative, attraverso lezioni teoriche frontali, esecuzione diretta di tecniche o pratiche, rielaborazione e confronto delle esperienze. Per informazioni e iscrizioni scarica il programma (link).
Ma che cos’è la medicina narrativa? A rispondere sono Luciano Vettore e Giacomo Delvecchio, entrambi medici, autori del libro Dottori, domani: “La medicina narrativa è un approccio che arricchisce l’atto medico grazie ai racconti dei pazienti, dei medici, degli infermieri e di quanti operano nel ‘pianeta salute’, grazie alla loro capacità di raccontare gli aspetti della salute e della malattia nelle loro variegate rappresentazioni emotive oltre che tecniche e scientifiche”.
Fanno parte del filone di medicina narrativa i racconti letterari e cinematografici sui pazienti e sui medici, sulla salute e sulla malattia. E ovviamente i racconti scritti da medici e da pazienti, molti dei quali possiamo già trovare in libreria.
Perché sia i pazienti che i medici sono narratori. Ma se i benefici della narrazione sono quasi intuibili per i primi (una sorta di catarsi durante la quale raccontare oltre il proprio stato fisico anche quello emotivo), per i secondi un po’ meno. Soprattutto da parte dei medici più convinti che “la verità sia figlia unica dell’obiettività e della razionalità”.
Medici che avrebbero un moto di orrore di fronte alla consuetudine di molti colleghi di scrivere diari della propria attività professionale. Invece trascurano il fatto “che raccontare con stile narrativo l’esperienza che si sta vivendo – soprattutto raccontarla per iscritto, perché l’obbligo di scrivere le nostre idee dà loro una forma definita e così le chiarisce anche a noi stessi – costituisce un forte stimolo alla riflessione critica sul proprio operato professionale e ne migliora la performance”
Inoltre, sempre secondo Vettore e Delvecchio, “l’apertura del medico alla medicina narrativa può migliorare le sue capacità di cura: infatti, i racconti del paziente, anche quando apparentemente divaganti rispetto alla malattia, possono fornire invece preziosi elementi di comprensione, utili all’interpretazione fisiopatologica dei segni e dei sintomi, all’attribuzione etiopatogenetica dei disturbi, all’indirizzo diagnostico e alla scelta terapeutica”.
Ma perché accada questo il paziente che racconta deve trovare il medico che lo ascolta. Non a caso il corso che si tiene all’ospedale di Negrar è finalizzato a potenziare la capacità di ascolto ed empatia, di comprendere le storie di malattia e di riflettere sui vissuti di tutti. Un esercizio prezioso per ognuno di noi, non solo per i sanitari e i pazienti.
19 maggio: Giornata mondiale in viola per accendere i riflettori sulle malattie infiammatorie dell'intestino
Il 19 maggio si celebra il World IBD Day, la Giornata mondiale delle Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino (malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa) a cui aderisce anche il Centro di Negrar diretto dal dottor Andrea Geccherle. Sono circa 3500 i pazienti che si rivolgono al Sacro Cuore seguiti da un team multidisciplinare, fondamentale per una presa in carico efficace delle persone affette da queste patologie
Il 19 maggio si celebra la Giornata mondiale delle malattie infiammatorie croniche intestinali, conosciute come IBD (Inflammatory Bowel Disease) l’acronimo inglese dell’italiano MICI. All’evento – caratterizzato dall’illuminazione viola di molti monumenti cittadini, tra cui l’Arena di Verona – aderisce anche il Centro IBD dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di cui è responsabile il dottor Andrea Ceccherle, da tempo punto di riferimento per i pazienti (circa 3.500) affetti da malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa. Impegnato sul fronte della ricerca (25 le sperimentazioni internazionali in corso e numerose le pubblicazioni all’attivo), il Centro di Negrar ha da poco acquisito nel suo team una nuova dottoressa proveniente dall’Università di Bari, Alessia Todeschini, che si affianca alla dottoressa Angela Variola, responsabile delle terapie con farmaci biologici.
Proprio la dottoressa Todeschini è stata premiata al recente Congresso della Federazione Italiana delle Società delle Malattie dell’Apparato Digerente (FISMAD) come autrice di uno dei tre migliori lavori scientifici – “Safety of Covid-19 vaccine in patients with inflammatory bowel disease: data of a national study (ESCAPE-IBD – realizzati da un giovane gastroenterologo under 35.
Le patologie infiammatorie croniche dell’intestino colpiscono 4 milioni di persone nel mondo, e circa 200mila solo in Italia. Si tratta di uomini e donne, spesso in giovane età, fortemente condizionati nella vita lavorativa e privata da manifestazioni quali diarrea cronica o recidivante, perdite di sangue intestinali, dolori addominali… Con oneri gravosi non solo dal punto di vista umano, ma anche economico in termini di perdita di giorni lavorativi e di sostenibilità del Sistema Sanitario Nazionale a causa delle complicanze gravi a cui va incontro la malattia se non tempestivamente curata.
Giornate come quella della del 19 maggio hanno quindi lo scopo di sensibilizzare e informare le istituzioni, il mondo sanitario (a partire dai medici di famiglia) e l’opinione pubblica di quanto siano fondamentali la diagnosi precoce delle IBD per prevenire le complicanze, l’impegno nella ricerca di nuove terapie e il supporto sociale ai pazienti.
“Fino a 10 anni fa le terapie erano poche e i pazienti andavano incontro a ripetuti interventi chirurgici (per stenosi o fistole come nel caso del morbo di Crohn) – spiega il dottor Geccherle -. Oggi grazie alla ricerca disponiamo di farmaci, come quelli biologici, che consentono di tenere sotto controllo l’infiammazione, permettendo al paziente di condurre una vita del tutto normale. E altre prospettive terapeutiche innovative stanno venendo avanti. Purtroppo la causa delle IBD è ancora sconosciuta – sottolinea il gastroenterologo -. L’ipotesi è la reazione immunologica abnorme da parte dell’intestino nei confronti di antigeni (per esempio batteri normalmente presenti nell’intestino) che viene scatenata in virtù di fattori genetici e ambientali. Infatti molto spesso il paziente presenta in associazione altre patologie autoimmuni di carattere reumatologico”.
Proprio la complessità del paziente IBD è all’origine di un modello di presa in carico basato sulla multidisciplinarietà riguardo il quale il Centro di Negrar è stato un precursore. “Il morbo di Crohn e la Colite ulcerosa sono patologie autoimmuni, cioè caratterizzate da una reazione scorretta del sistema immunitario, che attacca cellule sane del nostro organismo come fossero estranee – spiega ancora il dottor Geccherle -. Pertanto i bersagli di questo meccanismo possono essere contemporaneamente più distretti del corpo: per questo è fondamentale per la buona riuscita della cura, che il paziente sia seguito dal gastroenterologo, dall’endoscopista, dal chirurgo generale, dal radiologo e ma anche da altri specialisti come per esempio il reumatologo, l’oculista e l’endocrinologo”.
Ethos: l'intelligenza artificiale in radioterapia nuova arma contro i tumori
SI chiama Ethos il nuovo arrivato nel Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata, un acceleratore lineare ibrido dotato di un sistema di intelligenza artificiale, che consente trattamenti ad altissima precisione. Con il nuovo macchinario, quello di Negrar si conferma tra i Centri più avanzati per le cure oncologiche grazie a un assetto tecnologico unico a livello nazionale.
Il Dipartimento di Radioterapia dell’IRCCS di Negrar si conferma uno dei Centri più avanzati per i trattamenti oncologici grazie a un assetto tecnologico unico a livello nazionale. Dopo l’acquisizione nel 2019 di Unity Elekta – che unisce un acceleratore lineare a una Risonanza Magnetica ad alto campo presente in Italia solo al Sacro Cuore Don Calabria – il nuovo arrivato è Ethos Varian, un acceleratore lineare guidato da intelligenza artificiale, attualmente in uso solamente in un altro centro italiano.
LINAC IBRIDO CON TAC A BORDO ASSOCIATO A UN SISTEMA DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE
“Si tratta di una sofisticata apparecchiatura costituita da un acceleratore lineare unito a una TAC a basso dosaggio di radiazioni. Ma soprattutto associato a un software avanzatissimo: una sorta di computer di bordo dotato di intelligenza artificiale. In altre parole il sistema è in grado di correggere, rielaborare e ri-adattare in tempo reale, cioè in sede di trattamento, la traiettoria del fascio di radiazioni in base allo spostamento del target tumorale”, spiega Filippo Alongi, direttore del Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata e professore associato all’Università di Brescia.
200 PAZIENTI GIA’ TRATTATI
“Nel caso in cui gli organi sani siano troppo vicini al tumore da colpire a causa della posizione non corretta del paziente, dei movimenti fisiologici oppure della variazione di grandezza della neoplasia, per preservarli il robot intelligente ‘guida la mano’ del radioterapista oncologo nel momento giusto, ottimizzando la procedura in tempo reale e in massima sicurezza”, sottolinea Alongi. La precisione del trattamento consente di colpire il tumore con alte dosi di radiazioni, riducendo così i tempi di esposizione (massimo 10 minuti) e il numero delle sedute. Finora con il nuovo macchinario sono stati trattati più di 200 pazienti, affetti da tumori in tutti i distretti anatomici, senza rilevanti effetti collaterali
RADIOTERAPIA ADAPTIVE
Con Ethos siamo nell’ambito della radioterapia ‘adaptive’ – cioè adattata in tempo reale alle circostanze anatomiche del paziente e corretta in modo attivo in ogni singola procedura di trattamento – come per quanto riguarda Unity, l’altro acceleratore lineare ad altissima precisione, in funzione a Negrar come unica sede sul territorio italiano dal 2019.
ETHOS E UNITY: DUE MACCHINARI COMPLEMENTARI
“Ethos e Unity sono due macchinari diversi, ma complementari – riprende il medico -. Il primo in un certo senso completa il secondo, in quanto risponde alle esigenze di quei pazienti per cui ci sono difficoltà di trattamento con Unity. Per esempio coloro che non riescono a rimanere fermi nel lettino di terapia a lungo per effettuare una risonanza prima del trattamento. Oppure i pazienti portatori di impianti di pacemaker o di defibrillatori o protesi metalliche non compatibili con i campi magnetici della RM. Infine i grandi obesi o anche chi presenta più sedi di malattia in un’area vasta da non entrare nel campo del trattamento guidato da immagini di Risonanza. Questa combinazione unica di alte tecnologie offre a noi radioterapisti oncologi l’opportunità di effettuare trattamenti personalizzati in base alle condizioni cliniche di ogni paziente, cosa che la radioterapia convenzionale non sempre permette”.
UNITY: LO STUDIO SUI PAZIENTI DEL VENETO
Sull’efficacia e fattibilità di una radioterapia che coniuga altissima precisione ed elevate dosi di radiazione, si è concluso lo studio osservazionale, promosso dalla Rete Oncologica Veneta ed effettuato dall’équipe del professor Alongi su 230 pazienti (per un totale di oltre 5mila sedute) trattati con Unity. I dati – che saranno presentati al prossimo congresso della Società Europea di Oncologia e Radioterapia, a Copenhagen, 8 e 9 maggio – hanno dimostrato che questo tipo di tecnologia è sicura ed efficace anche nei casi più complessi.
EFFICACE PER I CASI PIù COMPLESSI: I PAZIENTI GIA’ TRATTATI
“Un esempio sono i cosiddetti ritrattamenti, cioè quei pazienti che sono già stati irradiati e che, nella gran parte dei casi, non hanno altre valide opzioni terapeutiche – sottolinea il professore -. Nell’ambito dello studio, per i pazienti con ripresa di malattia prostatica, la radioterapia ha dimostrato di essere non solo una scelta palliativa, ma anche una possibilità di terapia o di controllo della patologia, senza irradiare massivamente i tessuti già colpiti, quindi minimizzando gli effetti collaterali.
SOPRAVVIVENZA A UN ANNO: 90%
Si tratta di un risultato molto importante perché grazie ai progressi nella cura dei tumori e il conseguente aumento della sopravvivenza, sempre più persone si troveranno a dover affrontare una recidiva di malattia nella sede già trattata. Verosimilmente anziani con patologie concomitanti, come le cardiopatie, per cui la chemioterapia o l’ormonoterapia non sono indicate. Anche la chirurgia viene esclusa per le difficoltà di intervento che presentano i tessuti già irradiati. La radioterapia innovativa invece ci consente di dare a loro una nuova possibilità: su 22 pazienti ritrattati, solo due hanno subito effetti collaterali, e il tasso di sopravvivenza ad un anno è del 90%”.
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Giornata mondiale dell'igiene della mani: un gesto semplice contro le infezioni
Il 5 maggio segna la Giornata mondiale dell’igiene della mani, un appuntamento in calendario voluto dall’Organizzazione mondiale della Sanità per promuovere l’adesione negli ospedali, ma anche in tutti gli altri ambiti sociali, a questo gesto apparentemente banale ma che di fatto è in grado di fornire un livello di efficacia veramente alto nel contenere le infezioni
Negli ultimi due anni l’epidemia di Covid-19 ha fatto sì che tutti abbiano potuto sperimentare cosa significhi la trasmissione di un agente infettivo e quale sia l’importanza della prevenzione non solo in ambito sanitario bensì in tutti i contesti, dalle scuole alle università, dagli uffici ai negozi, ai mezzi di trasporto. Tra le misure che sono state intraprese per ridurre la diffusione degli agenti infettivi. e in particolare del virus del Covid-19, oltre al distanziamento sociale, l’uso delle mascherine, la vaccinazione, il lavaggio delle mani è forse quella che, con la sua semplicità ed essenzialità, è in grado di fornire un livello di efficacia veramente alto.
Non a caso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dedicato il 5 maggio di ogni anno a una Giornata di sensibilizzazione per promuovere l’adesione a questo gesto nelle realtà sanitarie, ma anche in altri ambiti della vita sociale. Per il 2022 questo lo slogan prescelto “Unite for safety clean your hands” (Uniti per la sicurezza: laviamoci le mani)
Uno dei principali modi in cui un organismo, che sia batterio o virus, si trasmette è attraverso le mani. Un individuo infetto può propagare l’agente tramite le mani, sia per contatto diretto che attraverso la mediazione di oggetti da queste contaminate. La tastiera di un computer, la superficie di un tavolo, la saliera che ci passiamo da tavolo a tavolo a mensa, le barre a cui ci sosteniamo quando siamo su un mezzo di trasporto pubblico, sono tutti oggetti, che se contaminati, possano agire da amplificatori dell’infezione.
Ma il virus del Covid-19 non è l’unico problema. Nel nostro paese ogni anno si stima che si verifichino oltre 200.000 infezioni sostenute da germi resistenti ai più comuni antibiotici e che queste causino oltre 10.000 morti. In sei pazienti su 100 ricoverati viene fatta diagnosi di infezioni correlate all’assistenza sanitaria. Dal 30 al 50% di queste infezioni possono essere prevenute, tra le altre cose, tramite il lavaggio delle mani.
Nel nostro ospedale abbiamo rinforzato enormemente l’attenzione al lavaggio delle mani attraverso, per esempio, la messa a disposizione di un numero sempre crescente di dispensatori di gel alcolici, il cui consumo è aumentato in modo significativo raggiungendo e superando il livello considerato idoneo dall’OMS.
Lavarsi le mani è un gesto semplice ma incredibilmente efficace nel proteggere la nostra salute. Lavarsi le mani è un gesto comune, ricorrente che deve essere avvertito come essenziale non solo dagli operatori sanitari ma dalla popolazione tutta.
Dottor Giuseppe Marasca
Responsabile SANE (Stewardship Antimicrobica Negrar)
In basso i video tutorial per il corretto lavaggio delle mani con l’acqua e per l’igenizzazione con il gel