25 anni fa don Giovanni Calabria veniva proclamato santo

Don Giovanni Calabria veniva proclamato santo il 18 aprile 1999, esattamente 25 anni fa. Durante la celebrazione in Piazza San Pietro, davanti a migliaia di persone, papa Giovanni Paolo II definì il fondatore dell’Opera “un vangelo vivente traboccante di carità”. Ecco il ricordo di quelle giornate e un video con alcune testimonianze di chi era presente.

Il 18 aprile 1999, esattamente 25 anni fa, don Giovanni Calabria veniva proclamato santo da papa Giovanni Paolo II durante una solenne celebrazione in Piazza San Pietro. Lo stesso papa che 11 anni prima, il 17 aprile 1988, lo aveva beatificato durante la storica visita alla diocesi di Verona con una memorabile tappa alla Cittadella della Carità di Negrar.

Quel giorno di 25 anni fa a Roma c’era una nutritissima rappresentanza della Famiglia Calabriana, e chi non era presente seguiva la celebrazione attraverso la tv e la radio. C’erano anche il vescovo mons. Flavio Roberto Carraro e l’allora sindaco di Verona Michela Sironi, oltre a tantissime persone che don Calabria lo avevano conosciuto. C’erano religiosi e religiose provenienti dall’Italia e dalle terre di missione. C’era naturalmente la signora Rita Faccioli, protagonista del miracolo che aveva portato alla canonizzazione, arrivata dall’Argentina. E poi Ex allievi, Volontari, Fratelli e Sorelle Esterni, giovani, collaboratori. Fu una grande festa, che al ricordo ancora commuove molti dei presenti (sulla rivista L’Amico di quel tempo è presente un’ampia cronaca: vedi link).

In questo passaggio dell’omelia pronunciata quel giorno da papa Giovanni Paolo II ritroviamo il cuore del carisma e della santità di san Giovanni Calabria:

«Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (At 2, 32). «Noi tutti ne siamo testimoni»: chi parla è Pietro, a nome degli Apostoli. Nella sua voce riconosciamo quelle di innumerevoli altri discepoli, che nel corso dei secoli hanno fatto della loro vita una testimonianza del Signore morto e risorto. A questo coro si uniscono i santi oggi canonizzati. Si unisce don Giovanni Calabria, testimone esemplare della Risurrezione. In lui risplendono fede ardente, carità genuina, spirito di sacrificio, amore alla povertà, zelo per le anime, fedeltà alla Chiesa.

Nell’anno del Padre, che ci introduce nel Grande Giubileo del Duemila, siamo invitati a dare massimo risalto alla virtù della carità. L’esistenza di Giovanni Calabria è stata tutta un vangelo vivente, traboccante di carità: carità verso Dio e carità verso i fratelli, specialmente verso i più poveri. Sorgente del suo amore per il prossimo erano la fiducia illimitata ed il filiale abbandono che nutriva per il Padre celeste. Ai suoi collaboratori amava ripetere le parole evangeliche: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6, 33).

 

Per commemorare il 25° della canonizzazione presso il santuario San Giovanni Calabria (a San Zeno in Monte) ci sarà stasera (17 aprile) una S. Messa alle 19 dedicata a “San Giovanni Calabria: uomo della carità”. Domani (18 aprile), inoltre, ci sarà l’Adorazione dalle 8 alle 18,30 e la S. Messa delle 19 dedicata a “Don Calabria: faro di santità”.


Schistosomiasi: importante studio internazionale ideato e condotto dall'IRCCS di Negrar

Primo studio internazionale sulle definizioni degli aspetti clinici della schistosomiasi,  ideato e condotto all’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar in collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia.

Consensus definitions in imported human schistosomiasis: a GeoSentinel and TropNet Delphi study, questo il titolo dello studio – è stato pubblicato recentemente sulla rivista scientifica Lancet Infectious Diseases e ha coinvolto esperti internazionali appartenenti sia a Geosentinel (Network mondiale di centri di medicina dei viaggi) sia a TropNet (Network europeo di medicina tropicale).

La schistosomiasi è la malattia tropicale negletta, seconda causa di morte nel mondo dovuta da un parassita, dopo la malaria, e responsabile di circa 200.000 decessi all’anno, il 90% dei quali nell’Africa sub-sahariana

Le definizioni in medicina sono fondamentali. Per la descrizione clinica, il processo decisionale, la ricerca e le comunicazioni scientifiche che riguardano, per esempio, una determinata patologia. La mancanza di armonizzazione nella terminologia e nella definizione degli aspetti clinici genera incomprensioni e ostacola l’ulteriore sviluppo di raccomandazioni per il trattamento e per il follow-up. E’ il caso della schistosomiasi, la malattia tropicale negletta, seconda causa di morte nel mondo dovuta da un parassita, dopo la malaria, e responsabile di circa 200.000 decessi all’anno, il 90% dei quali nell’Africa sub-sahariana

Alla mancanza di un consenso sulle definizioni degli aspetti clinici della malattia ha posto fine uno studio internazionale – il primo sul tema –  ideato e condotto all’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar in collaborazione con l’Università degli Studi di Brescia.

Consensus definitions in imported human schistosomiasis: a GeoSentinel and TropNet Delphi study, questo il titolo dello studio – è stato pubblicato recentemente sulla rivista scientifica Lancet Infectious Diseases e ha coinvolto esperti internazionali appartenenti sia a Geosentinel (Network mondiale di centri di medicina dei viaggi) sia a TropNet (Network europeo di medicina tropicale).

Lo studio ha utilizzato il metodo Delphi, cioè uno strumento di indagine che ha lo scopo di ottenere un parere condiviso da un gruppo di esperti, in questo caso sulla definizione aspetti clinici della schistosomiasi importata tra cui la forma acuta o cronica; la schistosomiasi possibile, probabile o confermata; la schistosomiasi attiva; la schistosomiasi complicata,

Prof. Federico Gobbi

“In un contesto di salute globale è importante che la schistosomiasi sia ben conosciuta e definita anche in area non  endemica poiché spesso viene diagnosticata tardivamente, soprattutto nei migranti”, afferma il professor Federico Gobbi, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive/Tropicali e microbiologia dell’IRCCS di Negrar e associato di Malattie infettive dell’Università degli Studi di Brescia, “Con questo studio abbiamo cercato di raggiungere un consenso sulle definizioni cliniche della schistosomiasi come base di partenza per rendere meno negletta questa patologia. Tali definizioni potrebbero rappresentare un terreno condiviso per un consenso più ampio tra medici di altre discipline e potrebbero essere applicate anche in ambiente endemico, dopo aver considerato le condizioni specifiche e le applicazioni pratiche”.

CHE COS’E’ LA SCHISTOSOMIASI

La schistosomiasi è una del gruppo eterogeneo delle 21 malattie neglette individuate dall’OMS, tutte accumunate dal fatto di essere trascurate dalle ricerca e dalle agende degli Stati in quanto originarie e maggiormente diffuse nei Paesi a basso reddito.

La schistosomiasi è causata da un elminta, lo schistosoma, che può avere manifestazioni intestinali, epatiche e uro-genitali (tumore della vescica.) La trasmissione avviene tramite il contatto con acque dolci (fiumi o laghi) dove le larve (cercarie), rilasciate dai molluschi, penetrano la cute umana. Nell’uomo le cercarie si sviluppano in vermi adulti che, tramite il circolo sanguigno, raggiungono i plessi venosi mesenterici (dell’addome), vescicali o emorroidali.

La diagnosi viene effettuata con la ricerca delle uova del parassita nelle urine e nelle feci. Il farmaco più usato per la terapia è il praziquante.

E’ importante quando ci si reca in viaggio nelle zone endemiche evitare di bagnarsi in acque non sicure

 


Emergenza obesità: cresce il numero dei pazienti che si rivolgono alla chirurgia dell'IRCCS di Negrar

Nel 2023 sono state 138 le persone che si sono rivolte all’ospedale di Negrar per sottoporsi alla chirurgia di riduzione del peso, 45 in più rispetto al 2022. Da gennaio a marzo 2024 gli interventi sono stati già 46. Il 20% proviene da fuori regione e rilevante è anche la percentuale dei cosiddetti Re-Do Surgery (10%), cioè di coloro che si rivolgono a Negrar per un secondo intervento, a causa di complicazioni dovute alla prima procedura chirurgica effettuata in un altro ospedale o per fallimento nella perdita di peso.

L’obesità è una patologia in costante aumento. In base a un’analisi globale pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet, nel 2022 i bambini e gli adolescenti obesi nel mondo erano 159 milioni e 879 milioni gli adulti. In Italia 4 adulti su 10 sono in eccesso ponderale3 in sovrappeso e 1 obeso, numeri che crescono anno dopo anno. Si tratta di una vera e propria emergenza sanitaria, perché l’obesità è un grave fattore di rischio di importanti patologie come il diabete, le malattie cardiovascolari e anche i tumori.

Le regole d’oro per dimagrire restano l’alimentazione bilanciata e movimento fisico, ma quando i chili di troppo sono davvero tanti, la strada obbligata è spesso quella chirurgica e sempre più persone la percorrono. Lo confermano i dati della Chirurgia bariatrica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria a cui è stata affidata l’organizzazione del convegno veneto della SICOB (Società italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle malattie metaboliche) che si è tenuto venerdì 5 aprile a Villa Quaranta Tommasi di Ospedaletto di Pescantina.

Nel 2023 sono state 138 le persone che si sono rivolte all’ospedale di Negrar per sottoporsi alla chirurgia di riduzione del peso, 45 in più rispetto al 2022. Da gennaio a marzo 2024 gli interventi sono stati già 46. Il 20% proviene da fuori regione e rilevante è anche la percentuale dei cosiddetti Re-Do Surgery (10%), cioè di coloro che si rivolgono a Negrar per un secondo intervento, a causa di complicazioni dovute alla prima procedura chirurgica effettuata in un altro ospedale o per fallimento nella perdita di peso.

Léquipe della Chirurgia bariatrica: da sinistra Maria Paola Brunori (gastroenterologa), Eleonora Geccherle (psicologa), Roberto Rossini (chirurgo), Alessandra Misso (dietista) e Irene Gentile (chirurgo)

Numeri anche grazie ai quali all’inizio dell’anno la Chirurgia bariatrica, che afferisce alla Chirurgia generale diretta dal dottor Giacomo Ruffo, ha ricevuto la certificazione Sicob di centro di eccellenza e poche settimane prima il riconoscimento di Centro formatore ERAS, il primo in Italia, unitamente alla chirurgia colo-rettale

Proprio il protocollo ERAS sarà il tema conduttore del convegno, durante il quale si sono avvicendati gli interventi dei maggiori specialisti italiani tra cui il presidente eletto della Sicob e tra gli autori delle linee guida nazionali sulla chirurgia bariatrica, il dottor Maurizio De Luca, e un ospite internazionale, il professor Didier Mutter da Strasburgo, rappresentante di una della maggiori scuole europee di chirurgia laparoscopica.

“Eras è una modalità di presa in carico del paziente chirurgico che ha come obiettivo il miglior recupero dopo l’intervento – spiega il dottor Roberto Rossini, responsabile della Chirurgia bariatrica di Negrar e organizzatore del convegno -. Grazie alla preparazione pre-intervento, all’adozione di specifiche tecniche chirurgiche e anestesiologiche, al controllo di nausea e dolore, che consentono la mobilità precoce del paziente già nelle ore successive alla sala operatoria, sono diminuite significativamente le complicanze post chirurgiche e i giorni di ricovero sono scesi da 4 a 1. La certificazione di centro formatore da parte della società scientifica internazionale Eras Society – prosegue – è il risultato di un lavoro complesso di più specialisti, non solo chirurghi, che ha portato ad un’adesione al protocollo superiore al 95%. Grazie al riconoscimento possiamo formare altri centri italiani per l’applicazione di Eras”.

“Sia la certificazione SICOB di centro di eccellenza sia quella di ERAS di Centro formatore sono basate sul rispetto di criteri condivisi dalla comunità scientifica internazionale e quindi sono prima di tutto un certificato di garanzia per i pazienti che si recano da noi”, sottolinea il chirurgo. Tra questi criteri anche l’adesione ad un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) formalizzato, come quello Veneto, che prevede la presenza di un’équipe multidisciplinare formata, oltre che da chirurghi, anche da gastroenterologi, psicologi e dietisti.

“Con diverse tecniche di chirurgia mini-invasiva (laparoscopica e robotica) viene asportata buona parte dello stomaco, che assume la forma di un tubo collegato al duodeno. Il risultato è un maggior senso di sazietà, non solo per la riduzione dello spazio di contenimento del cibo, ma anche perché viene recisa quella parte dello stomaco che produce la grelina, il cosiddetto ormone della fame – spiega ancora Rossini -. Tuttavia l’intervento fine a se stesso, rischia di fallire, se non è accompagnato da un percorso di vero cambiamento di stili di vita. Per questo è importante l’apporto di diversi specialisti sia prima della chirurgia sia durante il follow up. Il 70% dei nostri pazienti effettuano nel primo anno tutti i controlli periodici contro il 50% stabilito dalla Sicob. Poi nel tempo la percentuale si abbassa fisiologicamente sebbene rimanga soddisfacente”,

 

 


Cambio dell'ora, un piccolo trauma per il nostro sonno

Il passaggio dall’ora solare all’ora legale, avvenuto domenica, è atteso da molti perchè permette di avere un’ora in più di luce alla sera, allungando di fatto le giornate e consentendo tra l’altro un risparmio sulla bolletta elettrica. Ma questo cambiamento crea anche uno sfasamento tra l’orologio biologico che ognuno ha al proprio interno e l’orologio ambientale legato alla luce. Uno sfasamento che talvolta può creare problemi a dormire, specialmente nei bambini e negli anziani.

Nel video il dottor Gianluca Rossato, responsabile del Centro di Medicina del Sonno, in collegamento da Negrar descrive a Rainews 24 il modo in cui il cambio dell’ora influisce sul sonno.


L'augurio del Casante: "In questa Pasqua facciamoci pane spezzato per coloro che soffrono"

In questa Pasqua 2024, il Casante don Massimiliano Parrella invita tutta la Famiglia Calabriana a farsi pane spezzato per gli altri. Pochi giorni dopo essere tornato dalla Guinea Bissau, dove l’Opera Don Calabria ha aperto una nuova missione in un contesto di grande povertà in cui nemmeno la disponibilità del cibo è scontata, il Casante pone dunque il pane al centro del suo messaggio.

Vi faccio un invito – dice don Parrella nel suo video-messaggio – il giorno di Pasqua, sulle vostre tavole, mettete un pane e poi spezzatelo e in quello spezzare il pane non ci sarà solo la condivisione del cibo, ma ci sarà anche la condivisione di una fede, la condivisione della vita, la condivisione di un cammino, la condivisione di un’amicizia. Per essere pane per coloro che pane non hanno, per essere pane per coloro che soffrono, per essere pane per coloro che sono soli, per essere pane per coloro che vivono la croce ogni giorno“.


Giornata mondiale dell'endometriosi: quel dolore femminile a cui non si vuole credere

Il 28 marzo è la Giornata mondiale dedicata all’endometriosi, patologia ginecologica di cui solo in Italia soffronto 3 milioni di donne. Vogliamo parlare di questa malattia attraverso la testimonianza di Elisabetta Costantino, autrice del libro “Diario di una pazza”. Pazza, perché è ciò che ha pensato di essere per 20 anni, o meglio quello che molti, tra cui alcuni medici, le hanno fatto credere di essere. “E’ colon irritabile”, “devi rilassarti perché è solo stress”, “ti consiglio di rivolgerti a un psichiatra”. Una narrazione durata dai 18 ai 38 anni quando è arrivata la diagnosi, “la liberazione” come la definisce Betty, all’IRCCS di Negrar.

Nel video la storia di Elisabetta, simile a tante altre, perché il ritardo diagnostico in Italia è in media di 9 anni.
A raccogliere la sua testimonianza Silvia Beltrami per la sua rubrica “Storie vere” di Telearena


Tubercolosi: l'IRCCS di Negrar in prima linea con la ricerca sulla farmacoresistenza

Il 24 marzo si celebra la Giornata Mondiale della Tubercolosi, malattia che nel 2022 ha causato 1,3 milioni di morti nel mondo. E sono in crescita le forme cosiddette farmacoresistenti, cioè che non rispondono al trattamento con i farmaci tradizionali. Proprio su questo il “Sacro Cuore” sta portando avanti un’importante ricerca presso l’ospedale “Divina Provvidenza” di Luanda in Angola.

I dati globali

Con 10,6 milioni di nuovi casi stimati nel 2022 e 1,3 milioni di morti, la tubercolosi (TB) continua a rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria globale. In occasione della giornata mondiale dedicata a questa malattia, che si celebra domenica 24 marzo, i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità certificano che il numero di casi è tornato a valori superiori al 2019, dopo un calo nel periodo della pandemia da COVID-19 dovuto alla diminuzione dei servizi di diagnosi e trattamento. Resta dunque lontano l’obiettivo che gli organismi internazionali si erano posti di ridurre del 75% i decessi per tubercolosi entro il 2025 (il calo tra il 2015 e il 2022 si è fermato al 19%). Anche per questi motivi il tema della giornata di quest’anno è ”Yes! We can end TB” (Sì! Possiamo mettere fine alla tubercolosi), scelto per invitare i Paesi a mettere in pratica gli obiettivi concordati nelle varie sedi.

Il problema dell’accesso alle cure

“Le due grandi sfide per combattere questa malattia sono l’accesso alle cure e il problema della farmacoresistenza” afferma Paola Rodari, infettivologa del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali diretto dal prof. Federico Gobbi.

Dr.ssa Paola Rodari

“La tubercolosi è quasi sempre curabile – prosegue – specialmente se viene diagnosticata in modo tempestivo. Tuttavia è una malattia molto diffusa in zone caratterizzate da povertà, per cui spesso i malati non riescono a curarsi in modo adeguato”. In tal senso basti pensare che nel 2022 secondo l’OMS solo due malati su cinque hanno avuto accesso al trattamento farmacologico previsto per la tubercolosi. Se a questo aggiungiamo che spesso la malattia si può associare all’infezione da HIV, è chiaro che le cure richieste sono più complesse e hanno un esito più incerto.

La ricerca dell’IRCCS sulla farmacoresistenza in Angola

L’altra grande sfida è quella della farmacoresistenza. Nel 2022 si stima che siano stati 410mila i malati di TB affetti da una forma multiresistente o resistente alla rifampicina, farmaco d’elezione per il trattamento della malattia. Un problema dovuto in parte ad un uso improprio della terapia. “Le forme farmacoresistenti si sviluppano per varie ragioni – sottolinea Rodari – ad esempio quando i farmaci non vengono assunti in modo congruo. Questo crea molti disagi perché in caso di forme resistenti si rende necessario l’uso di farmaci di seconda linea, che spesso implicano trattamenti più lunghi e complessi”.

Proprio sulla farmacoresistenza in riferimento alla tubercolosi è in corso un progetto di ricerca che vede impegnati in prima linea i ricercatori del Sacro Cuore.

Il progetto è iniziato attivamente lo scorso settembre a Luanda, in Angola, presso l’Hospital Divina Providência (HDP) che è una struttura sanitaria dell’Opera Don Calabria di cui il Sacro Cuore è partner e consulente per la ricerca scientifica e le malattie infettive e tropicali. Il progetto è svolto con l’aiuto di un ente sanitario angolano, l’INIS, coinvolgendo pertanto anche attori della sanità angolana. L’intento è quello di studiare il tasso di tubercolosi multiresistente fra i pazienti con tubercolosi che accedono all’HDP, in quanto i dati sulla situazione angolana sono molto scarsi e ci si attendono livelli di multiresistenza assai elevati. Si stima che, ogni mese, circa 300 nuovi casi di tubercolosi vengano diagnosticati presso l’HDP, il che dà l’idea di quanto sia diffusa tale malattia e dell’importanza di avere dati certi sul tasso di resistenza ai farmaci.

L’HDP di Luanda visto dall’alto
La tubercolosi al Sacro Cuore

A livello italiano i casi di tubercolosi notificati nel 2022 sono stati 2.700, con un’incidenza pari a 4,6 ogni 100.000 abitanti. Di questi sono circa quaranta quelli presi incarico lo scorso anno dall’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. “I pazienti che vediamo sono di due tipi – spiega l’infettivologa – anzitutto ci sono i migranti che spesso sono entrati in contatto con il micobatterio anni prima nel loro Paese di origine e che poi si ammalano in Italia, anche perché le condizioni del viaggio e lo stress della loro nuova condizione può comportare un abbassamento delle difese immunitarie. In altri casi vediamo pazienti anziani nati in Italia che hanno contratto il batterio in gioventù (quando la TB era una malattia più frequente rispetto ad oggi) e sviluppano la malattia quando il fisico è più fragile”.

I casi di tubercolosi vengono rilevati o attraverso lo screening che viene effettuato sulle popolazioni a rischio (ad esempio migranti) oppure in caso di sospetto clinico dovuto alla presenza di sintomi. In caso di sospetta TB si procede alla diagnosi attraverso specifici esami di laboratorio, disponibili al Sacro Cuore. Qualora si sospetti una tubercolosi polmonare, che è l’unica forma contagiosa di malattia, oppure se le condizioni di salute lo richiedono, il paziente può essere ricoverato nelle stanze di isolamento del reparto di Malattie Infettive e Tropicali, dove si procede agli accertamenti diagnostici e viene poi avviata la terapia specifica. Appena possibile, il paziente viene dimesso e affidato al servizio ambulatoriale dedicato, dove può proseguire il monitoraggio e vengono forniti i farmaci per proseguire la terapia a domicilio. Solitamente la durata della terapia è di almeno sei mesi, ma in alcuni casi è necessario un trattamento più lungo.

La terapia preventiva

A livello globale, si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia entrata in contatto con il micobatterio della tubercolosi, ma questo non significa che tutti svilupperanno la malattia; infatti nella grande maggioranza dei casi questa è bloccata dal sistema immunitario. “Talvolta, quando si riscontra la presenza di infezione senza malattia attiva, si procede a somministrare al paziente una terapia preventiva. Tuttavia questa procedura non è indicata per tutti, ma solo per popolazioni selezionate, ad esempio i pazienti candidati a terapia immunosoppressiva proprio per evitare che l’indebolimento del sistema immunitario permetta lo sviluppo della malattia”, conclude la dottoressa Rodari.


Tumori epatobiliari: il professor Alfredo Guglielmi consulente della Chirurgia generale

Nell’alveo della collaborazione tra l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e l’Università di Verona, il professor Alfredo Guglielmi è entrato a fa parte, come consulente per i tumori del fegato e delle vie biliari, dell’équipe della Chirurgia generale dell’IRCCS di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo. 

 

Nell’alveo della collaborazione tra l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e l’Università di Verona, il professor Alfredo Guglielmi (a destra nella foto) è entrato a fa parte, come consulente per i tumori del fegato e delle vie biliari, dell’équipe della Chirurgia generale dell’IRCCS di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo (a sinistra nella foto).

Già ordinario di Chirurgia generale e direttore del Dipartimento di Ingegneria per la Medicina d’innovazione, presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia e direttore della Scuola di Dottorato dell’Ateneo scaligero, il professor Guglielmi ha guidato dal 2005 al 2023 la Struttura complessa di Chirurgia Generale ed Epatobiliare dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona.

Ha all’attivo oltre 10mila interventi, prevalentemente nell’ambito della chirurgia oncologica digestiva, del fegato e delle vie biliari. Nel corso della sua carriera universitaria ha firmato 300 pubblicazioni sulle più prestigiose riviste scientifiche ed è attualmente presidente IASGO, (International Association of Surgeon Gastroenterologist and Oncologist), società scientifica internazionale che conta più di 1700 membri, provenienti da oltre 90 Paesi in tutto il mondo. Ad oggi è anche presidente della Fondazione Scuola Sanità Pubblica della Regione Veneto e presidente AICEP, l’associazione italiana di chirurgia epato-bilio-pancreatica. Nel corso degli anni ha frequentato in qualità di visiting surgeon i più importanti centri chirurgici della Gran Bretagna, della Germania, del Giappone e degli Stati Uniti.

Il mio ruolo all’IRCCS di Negrar è quello di mettere a disposizione la mia conoscenza ed esperienza nel campo dei tumori del fegato e delle vie biliari a cui ho dedicato la vita professionale”, spiega il professor Guglielmi. “Inoltre alla luce della collaborazione tra l’Università di Verona e il Sacro Cuore Don Calabria, avviata con la creazione del Corso magistrale in Farmacia, credo che il mio contributo possa concorrere a favorire la nascita di progetti di ricerca nel campo dell’oncologia epatobiliare”. “La presenza del professor Guglielmi è sicuramente un valore aggiunto per la nostra Chirurgia generale, in particolare per la formazione dei chirurghi più giovani e per lo sviluppo delle metodiche chirurgiche che riguardano i tumori del fegato”, sottolinea il dottor Ruffo. 

“La prognosi dei tumori al fegato è strettamente legata alla diagnosi precoce della malattia, al suo stadio nel momento dell’esordio clinico e alle cure che possono essere adottate”, sottolinea il professor Gugliemi. “Negli stadi iniziali, trattati con terapie radicali come la chirurgia resettiva o il trapianto, la sopravvivenza a 5 anni può superare il 50-60%. Nei casi avanzati i risultati sono meno incoraggianti, con sopravvivenze che raramente superano il 10-20% a 5 anni”.

La ricerca comunque ha fatto passi enormi consentendo oggi all’oncologia di avvalersi di nuovi trattamenti per la cura di questi tumori che vanno ad affiancarsi alla chirurgia, alla radioterapia e alle terapie loco-regionali. “La definizione del profilo genetico delle singole neoplasia ha consentito la creazione di farmaci target che vanno a colpire determinati recettori, responsabili della crescita della cellula tumorale – continua il professor Guglielmi -.  Ma anche lo sviluppo dell’immunoterapia recentemente introdotta in alcuni protocolli di terapia ci auguriamo che possa dare nel prossimo futuro risultati incoraggianti anche per queste neoplasie”. 

Proprio alla luce delle diverse opzioni terapeutiche che si possono adottare nella cura di questi tumori è fondamentale che il paziente sia preso in carico daun team multidisciplinare di medici di differenti specialità, come già avviene all’IRCCS di Negrar. “L’approccio multidisciplinare è l’unico che può portare a risultati positivi – sottolinea -. La chirurgia rimane il gold standard, ma non sempre è praticabile. Pertanto a step diversi interviene l’oncologo con la terapia medica, il radiologo intervista con terapie loco-regionali, il medico nucleare e il radioterapista. Ricerca e integrazione dei trattamenti con un approccio multidisciplinare sono le principali vie per migliorare i risultati della cura dei tumori del fegato”.

Tumori primitivi e secondari del fegato

L’epatocarcinoma è, insieme al colangiocarcinoma, un tumore primitivo del fegato. Diffuso maggiormente in Asia rispetto a Stati Uniti ed Europa, è il sesto tumore più frequente a livello mondiale e la seconda causa di morte per neoplasia. In Italia è più raro: nel 2023 sono state stimate circa 12mila diagnosi con un rapporto di circa 2 a 1 tra uomini e donne.

I fattori di rischio di oltre il 70% dei casi di tumori primitivi del fegato sono: infezione da virus dell’epatite C (HCV) e da virus dell’epatite B (HBV); abuso di bevande alcoliche; sindrome metabolica (obesità, diabete, ipertensione arteriosa); steatoepatite (“fegato grasso”) non alcolica correlata a sindrome metabolica; fumo di sigaretta.

Il colangiocarcinoma è il secondo tumore primitivo del fegato e ha origine dalle delle vie biliari. È una neoplasia rara: si stima che nel 2020 abbia colpito in Italia circa 5.400 persone (Airtum, I numeri del cancro in Italia 2020), ma l’incidenza sta aumentando in tutto il mondo.
Il colangiocarcinoma presenta un esordio clinico molto subdolo e continua a essere tra i carcinomi più difficili da curare con efficacia, in quanto sono disponibili ancora poche informazioni su questo tipo di tumore.

Anche i fattori di rischio sono ancora oggetto di studio. Ad oggi sappiamo che ad aumentare il rischio di colangiocarcinoma potrebbero essere alcune malattie delle vie biliari, come la colangite sclerosante primitiva, la presenza di calcoli nei dotti biliari e nella cistifellea, le cisti del coledoco. Meno chiaro è se le probabilità di ammalarsi possano essere influenzate da obesità, sindrome metabolica, cirrosi, infezioni da virus dell’epatite B e C e da comportamenti a rischio come il fumo o da sostanze ambientali inquinanti.

Più frequenti sono invece i tumori secondari, ovvero le metastasi che colonizzano il fegato provenendo da altri organi. Il fegato, infatti, proprio per la sua funzione di filtro dell’organismo, riceve il sangue da quasi tutti i distretti corporei e quindi è facilmente sede di metastasi di altri tumori che trovano nel fegato una sede favorevole al loro sviluppo

 


Malattie infettive emergenti: la ricercatrice Tiberti dell'IRCCS di Negrar tra i vincitori delle borse di Fondazione INF-ACT

La dottoressa Natalia Tiberti, ricercatrice dell’IRCCS di Negrar, è una dei tre vincitori della borsa di ricerca sostenuta dalla Fondazione INF-ACT, in collaborazione con la Fondazione Armenise-Harvard Il suo progetto, finanzianto con 150mila euro,  ha l’obiettivo di ricercare nuovi bio-marcatori per contribuire alla diagnosi precoce di febbri acute causate da arbovirus, quali ad esempio il virus West Nile e il virus Dengue. Tali bio-marcatori consentirebbero di migliorare la gestione dei pazienti febbrili, di contribuire al controllo di eventuali epidemie. 

 

La dottoressa Natalia Tiberti, ricercatrice dell’IRCCS di Negrar, è una dei tre vincitori della borsa di ricerca sostenuta dalla Fondazione INF-ACT, in collaborazione con la Fondazione Armenise-Harvard. Gli altri due ricercatori premiati con un finanziamento di 150mila euro ciascuno sono Roberto Rusconi dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Paolo Gabrieli dell’Università degli Studi di Milano.

I tre progetti sono stati selezionati tra i lavori presentati dai 25 partner del Consorzio INF-ACT, il network di Centri di ricerca, Università e Irccs impegnati nel progetto sulle malattie infettive emergenti, finanziato nell’ambito del PNRR con 114,5 milioni di euro.  La selezione è avvenuta attraverso le rigorose procedure della Fondazione Giovanni Armenise-Harvard, che nasce con l’obiettivo di sostenere la ricerca di base in campo biomedico, e sono stati scelti perché accomunati da un approccio innovativo alla ricerca sulle malattie infettive, finalizzata alla gestione di possibili nuove epidemie.

Il progetto della dottoressa Tiberti ha l’obiettivo di ricercare nuovi bio-marcatori per contribuire alla diagnosi precoce di febbri acute causate da arbovirus, quali ad esempio il virus West Nile e il virus Dengue. Tali bio-marcatori consentirebbero di migliorare la gestione dei pazienti febbrili, di contribuire al controllo di eventuali epidemie causate da arbovirosi di importazione, di monitorare in modo più accurato l’epidemiologia di queste infezioni nel nostro territorio e di evitare l’utilizzo inappropriato di antibiotici.

“Siamo molto soddisfatti perché abbiamo ricevuto candidature da ricercatori impegnati nei diversi aspetti che le malattie infettive emergenti richiedono di fronteggiare, con approcci innovativi, trasversali e multidisciplinari. Questi fondi costituiscono un’ulteriore assegnazione di risorse destinate alle attività ricerca all’interno del progetto PNRR gestito dalla Fondazione INF-ACT. Le tre borse assegnate garantiranno a questi validi scienziati di proseguire i loro studi e di esplorare le potenzialità della moderna ricerca scientifica, in cui la salute umana è interconnessa alla salute animale e ambientale (One Health)” ha dichiarato Federico Forneris, presidente della Fondazione INF-ACT.

La particolarità del bando di assegnazione delle borse è stata quella di essere rivolto solo ai ricercatori in attività da almeno 5 anni ma meno di 12. “La scarsità, tra i finanziamenti, di fondi dedicati a chi è a metà del proprio percorso professionale, spesso mette a rischio carriere avviate, compromettendo la possibilità di portare a fruizione gli investimenti fatti in fase di avvio di un laboratorio e, soprattutto, rischia di vanificare il raggiungimento delle scoperte scientifiche. L’esperienza di oltre 20 anni della Fondazione Armenise Harvard è emblematica: col programma Career Development Award (CDA) abbiamo sostenuto le ricerche in Italia di oltre 30 scienziati che, a loro volta, hanno raccolto fondi per quasi 100 milioni di euro, pubblicando più di 1000 peer-reviewed paper con un H-index medio di 26 e più di 4300 citazioni medie. Nonostante ciò, però, anche i nostri ricercatori soffrono di questa situazione inaccettabile“, ha affermato Elisabetta Vitali, direttore dei programmi italiani alla Fondazione Armenise Harvard

“L’Armenise Harvard INF-ACT Mid-Career award rappresenta un importante supporto per la mia carriera scientifica – ha sottolineato dal dottoressa Tiberti – Grazie a questo finanziamento avrò la possibilità di ampliare il mio gruppo di ricerca e di impiegare nei miei studi approcci innovativi quali l’analisi di vescicole extracellulari, ossia nanoparticelle, rilasciate dalle cellule umane in risposta a diversi patogeni, che possono contenere informazioni biologiche specifiche del tipo di infezione in atto”.

Tiberti, originaria di Parma, dopo la laurea triennale in Biotecnologie e la laurea specialistica in Biotecnologie Mediche, ha iniziato il percorso da ricercatrice nell’ambito delle malattie infettive e tropicali conseguendo il dottorato di ricerca presso l’Università di Ginevra (Svizzera) sotto la supervisione del prof. Jean-Charles Sanchez. Successivamente ha perfezionato le competenze come post-doc presso l’Università di Sydney e la University of Technology Sydney (Australia) nel gruppo della Prof.ssa Valery Combes. Dal 2018 è ricercatrice indipendente presso il Dipartimento di Malattie Infettive, Tropicali e Microbiologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, dove si occupa di ricerca biomedica traslazionale con particolare interesse allo studio di bio-marcatori per le malattie infettive e tropicali, e dei meccanismi di interazione tra l’ospite umano e diversi tipi di agenti infettivi.

Gli altri progetti vincitori

Il progetto proposto dal professor Roberto Rusconi – responsabile del Laboratorio di fisica applicata, biofisica e microfluidica di Humanitas e associato in Humanitas University – si concentra sui biofilm, comunità batteriche protette da una matrice extracellulare prodotta dai batteri stessi.  I biofilm rappresentano una delle principali cause di infezioni persistenti negli ospedali e si presentano in particolare in associazione all’uso di dispositivi biomedici. Concentrandosi sulle strutture particolari che i biofilm formano in condizioni di flusso, come nei cateteri o negli stent, il progetto mira a comprendere come questi biofilm si formano e resistono agli antibiotici, indagando specificamente il ruolo svolto dal DNA batterico rilasciato nella matrice extracellulare.  L’obiettivo è scoprire nuove strategie per combattere queste colonie batteriche resilienti, portando potenzialmente a nuovi metodi di controllo delle infezioni.

Il progetto vincitore del professor Paolo Gabrieli – docente di Zoologia presso il dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano –  ha lo scopo di sviluppare una nuova tecnica eco-compatibile di controllo delle zanzare tramite la modificazione della loro riproduzione. Ad oggi, le zanzare vengono controllate per lo più utilizzando insetticidi, che sono dannosi per l’ambiente e l’uomo e stanno perdendo la loro efficacia. È necessario, quindi, sviluppare metodi che rispettino l’ambiente, ma che abbiano un’efficacia e una velocità di azione paragonabile agli insetticidi.  Una delle caratteristiche fondamentali di questi insetti, che li rende importanti vettori di malattie umane, è quella di poter generare tantissima prole in poco tempo: limitando la possibilità di questi insetti di riprodursi si può dunque limitare il loro numero e controllare le loro popolazioni.


Nuova missione dell'Opera Don Calabria in Guinea Bissau

Una comunità dell’Opera Don Calabria è presente da alcune settimane nella città di Buba, in Guinea Bissau. La nuova missione è stata aperta ufficialmente l’8 febbraio e i primi religiosi sono partiti il 10 febbraio,  accompagnati dal Casante don Massimiliano Parrella. Tra le attività previste, oltre alla parrocchia, anche una scuola professionale agraria.

Da alcune settimane l’Opera Don Calabria, di cui fa parte anche l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, ha aperto una nuova missione in Guinea Bissau, nella diocesi di Bafatà in cui da alcuni anni sono presenti anche i missionari fidei donum della diocesi di Verona. L’apertura ufficiale è stata lo scorso 8 febbraio, quando il Casante don Massimiliano Parrella ha celebrato a San Zeno in Monte la Messa di invio della prima comunità religiosa calabriana in Guinea, composta dal brasiliano don Luciano Gervasoni e dall’angolano fratel Miranda Andrè Bambi.

I due missionari sono partiti per Bissau il 10 febbraio e per i primi 20 giorni della loro permanenza è rimasto con loro anche il Casante. La comunità dell’Opera è ospitata attualmente nella casa dei sacerdoti diocesani a Buba, una cittadina di circa diecimila abitanti dove i religiosi stanno studiando il creolo, cioè la lingua derivante da una commistione tra il portoghese e alcune lingue locali, che viene usata dalla maggior parte della popolazione anche se la lingua ufficiale è il portoghese.

 

I due missionari dell’Opera davanti alla scuola agraria di Buba

L’inserimento nella realtà locale sta avvenendo in modo molto graduale. Dopo questa prima fase a Buba, nei prossimi mesi la comunità dovrebbe stabilirsi nel villaggio di Fulacunda dove si lavorerà per avviare una parrocchia. A Buba invece verrà presa in gestione dai missionari una scuola agraria della diocesi. Altre attività di assistenza potrebbero essere avviate a Tite, villaggio a circa 30 chilometri da Fulacunda. Si tratta di un contesto estremamente povero, sia dal punto di vista sociale che sanitario, educativo e pastorale.

Nella lettera con cui ha annunciato l’apertura della missione, il Casante ha ricordato che

«La nuova missione sarà intitolata a Maria, Padrona dell’Opera e Madre della Provvidenza, con il titolo di Missione “Nossa Senhora da Natividade” per la riconciliazione e la Pace, a ricordo della prima presenza cristiana nell’Africa Occidentale: i primi missionari portoghesi arrivarono in Guinea Bissau nel 1660 e la prima chiesa in questa terra fu così, appunto intitolata.

In questo travagliato momento storico mondiale, intendiamo affermare, secondo lo spirito del “buseta e taneta”, che la riconciliazione fra i popoli e la Pace si ottengono solo con l’impegno a cercare il santo Regno di Dio là dove non c’è nulla da ripromettersi…».

La Guinea Bissau è il terzo Paese africano in cui è presente l’Opera, dopo l’Angola e il Kenya. Le comunità calabriane sono presenti inoltre in Europa (Italia, Romania e Portogallo), America Latina (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Repubblica Dominicana), Asia (India e Filippine), Oceania (Papua Nuova Guinea).