La malattia di Alzheimer è ereditaria?

Il 21 settembre si celebra la Giornata mondiale dell’Alzheimer: con la neurologa Zaira Esposito facciamo il punto su una malattia che nella maggior parte dei casi non è ereditaria e sull’utilità di esami e test genetici per una diagnosi precoce

Il 21 settembre è la Giornata dedicata in tutto il mondo alla malattia di Alzheimer, una forma di demenza che secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce nel mondo tra i 21 e i 25 milioni di persone. Anche in Italia ha dimensioni rilevanti: secondo l’Istat circa 1 milione di italiani sono affetti da questa malattia e il numero dei nuovi casi è in crescita a causa dell’invecchiamento della popolazione. L’Alzheimer è una patologia che “ruba” letteralmente la persona, privandola della memoria, della sua personalità e della sua autonomia. L’espressione “con il paziente si ammala tutta la famiglia” fotografa il quadro reale dell’impegno psicologico e fisico necessario per l’assistenza al congiunto colpito dalla malattia. Sui familiari oltre a gravare l’angoscia per il futuro del proprio caro (il decorso della malattia può durare svariati anni) aleggia anche la preoccupazione che la patologia, per cui non esiste cura risolutiva, possa essere ereditaria. Su questo tema facciamo chiarezza con la dottoressa Zaira Esposito, neurologa, responsabile del Centro decadimento cognitivo dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

 

Chi sono i soggetti ad alto rischio di sviluppare la malattia?

I soggetti a maggior rischio sono gli anziani. L’età rappresenta il principale fattore di rischio non modificabile. La malattia colpisce in genere dopo i sessantacinque anni e, con l’ulteriore avanzare dell’età, la sua incidenza aumenta in modo esponenziale. Esistono tuttavia una serie di fattori di rischio modificabili che sono associati allo stile di vita e sui quali è possibile agire precocemente. Ciò ha ancora più valore se si considera che, nonostante la malattia si manifesti clinicamente in età senile, nella maggior parte dei casi i processi neurodegenerativi a livello cerebrale iniziano molti anni prima.

 

Quali sono i fattori di rischio modificabili?

I principali fattori di rischio modificabili sono la scarsa attività fisica o scarse attività di svago (fisiche, mentali, sociali), la bassa scolarità, il fumo, l’assunzione di alcol, la carenza di vitamine, il diabete, l’ipercolesterolemia, l’ipertensione arteriosa, la perdita di udito in età matura, la depressione. Prevenire e/o curare tali patologie, partecipare ad attività culturali e di svago mantenendo allenati fisico e cervello, coltivare relazioni sociali evitando l’isolamento, adottare uno stile di vita sano potrebbe ridurre in modo significativo il rischio di ammalarsi grazie al consolidamento della “riserva cognitiva”. Consideriamo che nel nostro cervello il numero di neuroni è di gran lunga superiore a quello necessario allo svolgimento delle funzioni cerebrali. Queste cellule di riserva possono imparare a svolgere nuove funzioni sostituendo quelle che muoiono a causa della neurodegenerazione.

 

 

La malattia di Alzheimer ha origine genetica?

Solo in una minoranza di casi (non superiore al 5%), la malattia di Alzheimer ha un’origine genetica con esordio più frequente in età presenile (prima dei 60-65 anni). Nella maggior parte dei casi la malattia si presenta in forma sporadica, cioè senza ereditarietà tra le generazioni di una famiglia, ed ha un esordio dopo i 65 anni. Nel 60% delle forme ad esordio precoce la malattia compare in due o più persone appartenenti alla stessa famiglia; tali forme sono denominate familiari. Di queste solo il 13% è causato dalla presenza di una mutazione genetica ed è trasmesso con modalità autosomico dominante (ogni successore di un soggetto portatore della mutazione ha il 50% di probabilità di ereditarla) con alta penetranza.

 

 

Che differenza c’è tra genetica e familiarità?

La familiarità è quella condizione per cui più membri della stessa famiglia sono affetti da una malattia in quanto predisposti a causa di fattori genetici, ma anche perché esposti ai medesimi fattori ambientali. Oltre alle mutazioni genetiche responsabili delle forme a trasmissione mendeliana, esistono fattori genetici di suscettibilità, ovvero geni che regolano la probabilità di insorgenza di una malattia.

 

I nuovi radiofarmaci permettono con esami PET di diagnosticare eventuali depositi di beta-amiloide (la proteina che viene ritenuta responsabile della malattia) sulle cellule neuronali. Scientificamente ha senso che un familiare di un malato di Alzheimer si sottoponga a questi esami?

Secondo le raccomandazioni del Gruppo di Lavoro Intersocietario Italiano per l’Utilizzo dell’Imaging di Amiloide nella Pratica Cinica, la PET amiloide non è indicata per individui asintomatici, anche in presenza di familiarità per demenza. Al momento attuale, l’utilizzo della PET amiloide in individui asintomatici o pazienti con disturbo cognitivo soggettivono in individui a rischio (ad esempio portatori di mutazioni genetiche o storia familiare), dovrebbe essere limitato all’ambito di ricerca

 

Cosa pensa di eventuali test genetici?

Ritengo che l’analisi genetica sia utile per la diagnosi precoce nei casi di malattia di Alzheimer ad esordio giovanile o di malattia di Alzheimer familiare, ma anche per identificare soggetti pre-sintomatici a rischio che potrebbero essere inseriti in sperimentazioni cliniche per valutare l’efficacia di nuovi farmaci. Tuttavia è fondamentale ottenere prima una storia dettagliata e accurata della famiglia, identificando le famiglie con storie coerenti con trasmissione mendeliana, piuttosto che famiglie con ereditarietà complessa. È inoltre essenziale effettuare tali indagini nel contesto di un counselling genetico che fornisca l’adeguato supporto psicologico, medico ed educazionale. Infatti le ripercussioni, a volte anche al di là dell’esito del test, possono essere profonde sia sul piano psicologico, che emotivo e relazionale.

 

Quali sono i sintomi che dovrebbero indurre un sospetto di Malattia di Alzhaimer?

All’esordio della malattia di Alzheimer la persona è autonoma, può continuare a lavorare, guidare e occuparsi delle proprie mansioni abituali, ma tende a compiere alcuni errori che dovrebbero rappresentare il “campanello d’allarme”. Generalmente i primi sintomi a comparire sono i disturbi di memoria: la persona dimentica eventi avvenuti di recente, gli appuntamenti, le incombenze come pagare le bollette, i numeri di telefono noti, la lista della spesa, la pentola sul fuoco, perde oggetti di uso comune talora incolpando gli altri se non trova qualcosa, tende a colmare le proprie lacune mnesiche con falsi ricordi. Altri sintomi comuni all’esordio della malattia sono la tendenza a perdere il “filo del discorso” oppure la capacità di pensare in modo astratto e i cambiamenti del carattere. Se le alterazioni comportamentali più gravi in genere si manifestano nelle fasi successive della malattia, all’esordio sono comuni modifiche caratteriali/comportamentali che possono presentarsi anche prima dei sintomi cognitivi. Ad esempio la persona può manifestare ansia o preoccupazione inusuale in occasione di situazioni che si discostano dalle abitudini, può ridurre le attività cui si interessava in passato, perdere l’iniziativa, chiudersi in se stessa, ridurre le relazioni sociali, presentare labilità emotiva, maggiore irascibilità e presentare comportamenti “irrispettosi”. E’ importante non sottovalutare tali aspetti soprattutto se rappresentano un cambiamento rispetto al passato e rivolgersi a un medico specialista.

Nella Photo Gallery: l’équipe del Centro di Decadimento Cognitivo

Da sinistra: dottor Paolo Spagnolli (geriatra), Anna Menegazzi (segretaria), dottoressa Zaira Esposito (neurologa), dottoressa Cristina Baroni (psicologa), dottoressa Paola Poiese (psicologa-psicoterapeuta), dottor Claudio Bianconi (direttore della Neurologia) e dottoressa Francesca Martinelli (assistente socialie)


Alla dottoressa Pertile il premio dei chirurghi europei della retina

Il direttore dell’Oculistica di Negrar è stato insignito dalla EVRS del premio “Reja Zivojnovic”, conferito annualmente ad uno specialista oftalmologo che a livello mondiale si è distinto nell’ambito della chirurgia vitrio-retinica

La dottoressa Grazia Pertile, direttore dell’Oculistica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, è stata insignita dalla Società Europea di Vitreo-Retina (EVRS) del premio “Reja Zivojnovic”, conferito annualmente ad uno specialista oftalmologo che a livello mondiale si è distinto nell’ambito della chirurgia vitrio-retinica. La cerimonia di consegna si è tenuta in occasione del congresso annuale dell’EVRS che ha avuto luogo a Praga dal 30 agosto al 2 settembre.

 

La dottoressa Pertile è la prima donna a ricevere questo prestigioso riconoscimento in 18 anni di vita del premio, dedicato a un pioniere della chirurgia vitreo-retinica, il dottor Zivojnovic, appunto. Al dottor Richard Spaide di New York è andato invece l’EVRS Award per i suoi studi sulla diagnostica delle patologie retiniche.

 

Cinquantadue anni, originaria di Asiago, dal 2003 è a capo dell’Oculistica di Negrar, dopo aver conseguito la specializzazione all’Università di Maastricht (Olanda) e aver lavorato dal 1999 al 2003 presso il Middelheim Hospital di Anversa (Belgio). Chirurgo di fama internazionale, fa parte dell’équipe per la realizzazione della retina artificiale fotovoltaica tutta “made in Italy”, progetto a cui partecipano il gruppo del professor Guglielmo Lanzani, fisico del Politecnico e direttore del Centro di nanoscienze e tecnologia dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Milano e quello del professor Fabio Benfenati, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e neurotecnologie dell’IIT di Genova (vedi articolo di approfondimento sul tema).

 

Sotto la sua guida, l’Oculistica del “Sacro Cuore Don Calabria” è diventata Centro di riferimento del Veneto per le malattie della retina e polo di attrazione da tutta Italia, con oltre il 60% dei pazienti con malattie retiniche provenienti da fuori regione.

 

Durante il congresso la dottoressa Pertile ha tenuto due relazioni.La prima relativa a 12 anni di esperienza dell’Oculistica di Negrar nel campo del trapianto autologo di coroide ed epitelio pigmentatoche viene effettuato in casi selezionati di degenerazione maculare senile che non possono beneficiare della terapia con iniezioni intraoculari. Si tratta di un intervento complesso che consiste nel trapianto di un lembo di coroide prelevato dalla periferia dello stesso occhio e posizionato al centro della retina, in modo da ripristinare l’apporto metabolico alla macula. Il trapianto autologo ha fornito inoltre importanti informazioni sulla possibilità di successo di un eventuale trapianto di epitelio proveniente dalla banca dei tessuti. L’altra relazione tenuta dalla dottoressa Pertile era incentrata sulle difficoltà tecniche della chirurgia nell’occhio affetto da miopia elevata e le strategie per superarle.


A Negrar il secondo incontro degli ospedali di don Calabria

Il 18 e 19 settembre il Sacro Cuore ospita i rappresentanti dei quattro nosocomi gestiti dall’Opera calabriana nel mondo: oltre all’ospedale della Valpolicella ci sono le strutture di Marituba (Brasile), Luanda (Angola) e Manila (Filippine).

Un’occasione per conoscersi e per creare sinergie al servizio degli ammalati e dei sofferenti in diverse parti del mondo, nel solco del Carisma di san Giovanni Calabria. E’ questo il significato del secondo incontro degli ospedali calabriani, in programma a Negrar martedì 18 e mercoledì 19 settembre e organizzato dall’Amministrazione Generale dei Poveri Servi della Divina Provvidenza.

 

All’evento partecipano i dirigenti delle quattro strutture sanitarie gestite dall’Opera Don Calabria in quattro diversi continenti: oltre al Sacro Cuore Don Calabria ci sono l’Hospital Divina Providência di Marituba (Brasile), l’Hospital Divina Providência di Luanda (Angola) e la Brother Francisco Perez Clinic di Manila (Filippine).

 

L’incontro si aprirà con un intervento del Superiore Generale dell’Opera, padre Miguel Tofful, sul tema del servizio agli ammalati così come voluto da don Giovanni Calabria. A seguire le varie strutture si confronteranno sui temi della formazione del personale, del rapporto con le istituzioni pubbliche nei Paesi di provenienza, delle rispettive sfide nel campo dell’assistenza sanitaria. L’obiettivo di fondo è quello di promuovere uno scambio di conoscenze e pratiche per sviluppare progetti di collaborazione. A tal proposito ci sarà uno spazio particolare per la presentazione del reparto di Malattie Infettive e Tropicali del Sacro Cuore, per il quale è stato dato il riconoscimento di IRCCS all’ospedale di Negrar. Un riconoscimento che apre nuove prospettive di sinergia con gli altri ospedali calabriani, tutti collocati in aree tropicali.

 

GLI OSPEDALI CALABRIANI: UN PO’ DI DATI

 

Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar: è un Ospedale classificato (cioè equiparato a un ospedale pubblico sebbene a gestione privata), presidio ospedaliero della Regione Veneto e non profit. Comprende 508 posti letto a cui se ne aggiungono 365 dell’area socio-sanitaria. E’ il quinto ospedale del Veneto per numero di ricoveri: nel 2017 sono stati effettuati 30.500 ricoveri e 1.340.000 prestazioni ambulatoriali. Comprende la gran parte delle specialità e in molti settori è un centro di riferimento di livello nazionale e internazionale.

 

Ospedale Divina Providencia di Marituba: è operativo dal 1997 a Marituba, centro abitato che fa parte dell’area metropolitana di Belem, città con un milione e mezzo di abitanti nella regione amazzonica. I posti letto sono 126, divisi tra i reparti di chirurgia, medicina, ostetricia, pediatria, terapia intensiva neonatale e terapia intensiva adulti. Nel 2017 i ricoveri sono stati 7.438, mentre sono state fornite oltre 90mila prestazioni ambulatoriali. L’HDP fa parte del “Sistema Único de Saúde” brasiliano, l’equivalente del nostro Servizio Sanitario Nazionale. Marituba, che vive le contraddizioni e le difficoltà della periferia brasiliana, è diventata la sede di un centro di cure ospedaliere e di cura di media e alta complessità. È uno dei pochi ospedali al di fuori di Belem, con una reale possibilità di fornire servizi ospedalieri di elevata complessità. Da circa nove anni il Ministero della Salute gli ha assegnato il titolo di “Ospedale Amico del Bambino”, per il forte impegno del servizio pediatrico a promuovere e praticare l’allattamento al seno.

 

Ospedale Divina Providencia di Luanda: nasce nel 1994 come piccolo ambulatorio nella periferia della capitale angolana, dove durante la guerra civile conclusasi solo nel 2002, andavano ammassandosi migliaia di profughi provenienti dalle regioni interne del paese, teatro principale degli scontri. Oggi questa zona periferica è una delle più popolate di Luanda in cui si stima che risiedano oltre 2 milioni di persone.

L’ospedale funziona in una vera e propria rete sanitaria che comprende 5 centri di salute decentralizzati, situati nei quartieri periferici, dove viene offerta l’assistenza sanitaria di 1º livello. L’unità centrale riceve i pazienti più gravi trasferiti dai Centri o da altre strutture sanitarie. Qui l’assistenza offerta è di 2º livello, caratterizzata dalla presenza di personale medico specializzato, mezzi diagnostici e prestazioni polivalenti. Nello stesso spazio dell’ospedale esiste una struttura che ospita due servizi di trattamento dei pazienti con HIV/AIDS e TB, nonché un centro per la lotta alla malnutrizione infantile.

L’HDP è diventato il punto di riferimento per il trattamento di patologie più complesse: sono disponibili servizi di internamento di pediatria, medicina, infettivologia e malnutrizione. Vengono prestate anche visite specialistiche, tra le quali, stomatologia, pneumologia, endocrinologia, dermatologia, gastroenterologia, ginecologia, urologia e ortopedia. L’ospedale centrale ha 136 posti letto divisi tra medicina, malattie infettive, pediatria, centro nutrizionale terapeutico. Nel 2017 i ricoveri sono stati 5.492, mentre quasi 90mila le visite effettuate, a cui sono da aggiungere le prestazioni dei centri di salute (123.515 visite, 76.758 vaccini, 55945 esami di laboratorio, 40.329 prestazioni di vigilanza nutrizionale).

 

Brother Francisco Perez Clinic di Manila: è un poliambulatorio fondato nel 1994 dai Poveri Servi della Divina Provvidenza con il prezioso aiuto dell’U.M.M.I. (Unione Medico Missionaria Italiana). La clinica si trova alla periferia di Manila, accanto alla parrocchia e alla scuola gestite dall’Opera calabriana. L’obiettivo principale della BFPC è quello di garantire alla popolazione meno abbiente le cure primarie ma anche alcuni servizi specialistici a cui difficilmente avrebbero accesso. Il centro, poiché non prevede l’ospedalizzazione dei pazienti, funziona dal mattino fino a tardo pomeriggio dal lunedì al sabato. I servizi forniti includono visite mediche e dentistiche, radiografie, ecografie, esami di laboratorio, la profilassi per la cura della tubercolosi e un dispensario farmaceutico. Nel corso del 2017 i pazienti ricevuti sono stati 15.195, con 13.575 visite effettuate nelle varie specialità presenti.


La chirurgia nelle malattie infiammatorie croniche dell'intestino

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Grazie all’approccio mininvasivo e a tecniche ricostruttive, la chirurgia per la malattia di Crohn e la colite ulcerosa non fa più paura. Un congresso internazionale organizzato dal gruppo multispecialistico MICI di Negrar

La chirurgia non è più l’estrema opzione terapeutica nel trattamento delle patologie infiammatorie croniche dell’intestino (malattia di Crohn e Colite ulcerosa), ma una delle opzioni nel percorso di cura che hanno come obiettivo, assieme ai farmaci biologici di ultima generazione, di garantire la qualità di vita del paziente. Questo grazie a un approccio sempre meno invasivo e all’affinamento di tecniche ricostruttive che, come nel caso della Colite ulcerosa, consentono al paziente di condurre una vita normale anche dopo l’asportazione del colon e del retto.

Proprio la “Strategia chirurgica nell’era dei farmaci biologici” è il tema al centro del Focus On IBD 2018 che si terrà venerdì 14 settembre (dalle ore 9) all’hotel Leon D’Oro di VeronaL’appuntamento sulle Inflammatory Bowel Disease (in italiano MICI, Malattie Infiammatorie Croniche dell’Intestino), giunto alla seconda edizione, è organizzato dai dottori Andrea Geccherle, Giacomo Ruffo, Paolo Bocus e dal professor Giuseppe Zamboni del gruppo multidisciplinare dell’IRCCS-Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (programma allegato)). Evidenze scientifiche, infatti, hanno dimostrato che la presa in carico del paziente da un team composto da gastroenterologi, endoscopisti, chirurghi e anatomopatologi consente risultati maggiori nella cura di patologie di cui in Italia sono affette circa 150mila persone (12.300 nel Veneto e oltre 3mila nell’Ulss 9 Scaligera). Il Centro per le Malattie infiammatorie croniche dell’intestino del “Sacro Cuore”, di cui è responsabile il dottor Andrea Geccherle, segue circa 1.300 pazienti con 300 nuove visite all’anno.

 

Al Congresso internazionale sarà presentata un’esperienza di multidisciplinarietà allargata al personale infermieristico da parte del St. Mark’s Hospital di Londra. Ospedale dove 40 anni fa è stata effettuata la prima Pouch, cioè la ricostruzione dell’invaso del retto in pazienti con colite ulcerosa sottoposti a proctolectomia, cioè all’asportazione dell’ultimo tratto dell’intestino e/o del colon. L’intervento, grazie al quale viene evitata una stomia permanente viene effettuato in laparoscopia dalla Chirurgia generale di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo.

 

Il ricorso alla chirurgia per i pazienti affetti da MICI è una complicanza frequente dovuta alle conseguenze dell’infiammazione (di origine autoimmune) che provoca ulcere e fistole intestinali. Si stima che circa il 70% delle persone colpite dal morbo di Crohn sia sottoposto nella vita ad almeno un intervento; il 20% per coloro che soffrono di Colite ulcerosa. “In particolare per il morbo di Crohn deve essere pianificata una strategia chirurgica al fine di evitare resezioni plurime dell’intestino che potrebbero sfociare nella complicanza del cosiddetto intestino corto, cioè la mancanza di tratti estesi dell’intestino deputati all’assorbimento di elementi nutrizionali fondamentali”, spiegano gli organizzatori.

 

Il ricorso alla chirurgia per la gran parte dei pazienti con morbo di Crohn è dovuto agli ascessi o alla fistole perianali, infezioni invalidanti a partenza dalla parete dell’ano-retto, che guadagnano i tessuti circostanti e tendono pian piano a farsi strada verso la cute perianale. La sessione conclusiva del congresso sarà dedicata alle ultime tecniche di trattamento di queste complicanze (tra cui l’utilizzo di cellule staminali). La chirurgia della malattia perianale è una peculiarità del Centro di Negrar che dispone di équipe specializzate sia in interventi ambulatoriali sia in sala operatoria.


Comitato Italiano Paralimpico e "Sacro Cuore" insieme per lo sport senza barriere

Viene ufficializzato oggi a Negrar un accordo tra il Dipartimento di Riabilitazione del “Sacro Cuore” e il Comitato Italiano Paralimpico per favorire la pratica di sport a livello anche agonistico tra i pazienti con disabilità motoria acquisita

L’esempio più eclatante è quello di Bebe Vio, che a causa di una meningite fulminante ha perso molte delle proprie funzionalità motorie, ma non si è arresa e ha trovato nello Fioretto una grande occasione di rinascita, fino a diventare un simbolo di tutto lo sport italiano. Di storie come la sua ce ne sono tante, magari meno note ma ugualmente straordinarie. Come quella di Federico Falco, costretto su una sedia a rotelle a seguito di un incidente, ricoverato per lungo tempo presso la il Dipartimento di Riabilitazione dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e oggi nazionale di tennistavolo paralimpico, pronto per partecipare alle olimpiadi di Tokyo 2020.

 

Altre storie come queste potrebbero nascere grazie ad una nuova convenzione tra ospedale di Negrar e il Comitato Italiano Paralimpico (CIP), per promuovere lo sport tra i pazienti che hanno acquisito una disabilità motoria in seguito ad un trauma e sono ricoverati nel reparto di Riabilitazione del nosocomio della Valpolicella. L’accordo sarà ufficializzato oggi al “Sacro Cuore Don Calabria”, in concomitanza con una gara di orienteering organizzata all’interno dell’ospedale per i pazienti dell’Unità Spinale. Sarà presente anche il vicepresidente del CIP Veneto, Giovanni Izzo.

 

La convenzione prevede che il CIP metta i propri tecnici a disposizione dei pazienti della Riabilitazione interessati a intraprendere uno sport paralimpico, offrendo loro una consulenza e, quando necessario, anche la strumentazione necessaria alla pratica scelta. I destinatari sono in particolare i pazienti adulti con patologie neurologiche (mielolesioni, gravi cerebrolesioni acquisite, malattie cerebrovascolari) in carico presso il “Sacro Cuore Don Calabria”.

 

L’idea alla base dell’iniziativa è che lo sport, praticato a livello amatoriale o agonistico, offra un grande supporto alla riabilitazione delle persone con una disabilità motoria acquisita, contribuendo al mantenimento dello stato di salute e alla prevenzione di ulteriori problemi. “All’interno del nostro reparto proponiamo già da tempo appuntamenti settimanali con la pratica sportiva amatoriale e collaboriamo già con molte società del territorio che fanno parte della Federazione Sport Paralimpici, come basket, tennistavolo, nuoto, tiro con l’arco e altri – spiega il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento di Riabilitazione – ora con questa convenzione pensiamo di proporre, naturalmente solo per chi lo desidera, un avvio ad un’attività anche agonistica con tecnici e strumenti adeguati”.

 

Proprio la gara di orienteering in programma oggi alle ore 14 nel giardino dell’ospedale (ritrovo ore 13) rappresenta la conclusione delle attività extraospedaliere, in particolare sportive, praticate durante l’anno dai pazienti dell’Unità Spinale, diretta dal dottor Giuseppe Armani. Durante l’evento gli utenti in carrozzina saranno impegnati su un percorso disegnato appositamente all’interno dell’ospedale. La gara si svolgerà su 15 punti distribuiti tra spazi comuni interni e parco esterno del nosocomio. La partecipazione sarà a coppie, in quanto ogni utente sarà affiancato da un volontario, anch’egli in carrozzina, del Galm Verona (Gruppo di Animazione dei Lesionati Midollari), associazione che da molti anni collabora con l’Ospedale e che, proprio all’interno del Servizio di Riabilitazione, ha uno sportello settimanale con presenza del suo presidente, Aldo Orlandi. Con questa presenza ed altre iniziative si occupa di dare supporto a coloro che sono affetti da lesione al midollo spinale a Verona e provincia.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.it

 


Avviso di selezione per medici infettivologi

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L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria indice una selezione riservata a medici specialisti in malattie infettive o titoli affini per attività di ricerca clinica presso il Dipartimento di malattie infettive e tropicali

È indetta una selezione, per titoli ed eventuale colloquio, finalizzata alla stipulazione di n. 4 contratti di prestazione d’opera, ai sensi degli artt. 2222 e segg. del codice civile, sotto forma di rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, riservato a medici specialisti in malattie infettive o titolo affine e finalizzato all’espletamento di attività clinica e di ricerca e presso il Dipartimento di Malattie infettive etropicali dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore – Don Calabria, nell’ambito del Progetto “Miglioramentodell’approccio diagnostico e della gestione delle NTDs in area endemica e non”.

In allegato (link) l’avviso di selezione con la modalità e i termini di presentazione della domanda (ENTRO IL 15 SETTEMBRE 2018). Per maggiori informazioni di carattere tecnico contattare il professor Zeno Bisoffi (zeno.bisoffi@sacrocuore.it, tel. 0456013326) o la dottoressa Dora Buonfrate (dora.buonfrate@sacrocuore.it, tel. 0456013326)


La prevenzione di alcuni tumori inizia dai vaccini

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L’Incontro oncologico del Triveneto affronta al “Sacro Cuore” la correlazione tra le infezioni provocate da alcuni virus e batteri e certe forme tumorali: l’efficace arma contro il cancro dei vaccini anti-Papilloma Virus e contro il virus dell’epatite B

Tra i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza dei tumori vi sono le infezioni. Si stima infatti che l’8,5% delle neoplasie in Italia sia dovuto all’azione oncogena di virus e batteri (dati AIOM 2017).Tra questi il Papilloma Virus 16-18 è responsabile del cancro della cervice uterina; l’Epstein-Barr Virus per le lesioni linfoproliferative e del cavo orale; l’Herpes-Virus 8 per il sarcoma di Kaposi e linfomi; l’Helicobacter Pylori per il carcinoma allo stomaco e il linfoma MALT; il virus dell’epatite B e C per il carcinoma epatocellulare. Le infezioni parassitarie da Trematodi diffuse nel Sud del mondo sono chiamate in causa per il colangiocarcinoma e quelle da Schistosoma per il carcinoma della vescica.

 

Prevenire le infezioni anche con i vaccini attualmente a disposizione, contrastarle o bloccarle significa in questi casi prevenire la forma neoplastica di cui sono causa. Di “Tumori e agenti infettivi” si parlerà venerdì 7 settembre all’IRCCS-Ospedale Sacro Cuore Don Calabria nel 42° incontro oncologico del Triveneto, promosso dal Coordinamento organizzativo ed educazionale della Rete Oncologica Veneta.

Coordinato scientificamente dalla dottoressa Stefania Gori, presidente degli oncologi italiani e direttore dell’Oncologia Medica di Negrar, l’incontro vede come relatori specialisti del Cancer Care Center e del Dipartimento Malattie infettive e tropicali del “Sacro Cuore”, ma anche provenienti dall’Istituto Oncologico Veneto, dal Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, dall’ospedale San Bortolo di Vicenza e dal Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna(programma allegato).

 

“Affronteremo la correlazione tra virus-cancro e tra batteri-cancro a 360° – spiega la dottoressa Gori -. Quindi tratteremo non solo i meccanismi che portano un’infezione ad essere causa di un tumore, ma anche le modalità di prevenzione primaria e secondaria di alcuni tumori (per esempio provocati da Papilloma Virus-HPV). Affronteremo anche – prosegue – le problematiche del trattamento antitumorale dei pazienti con infezioni croniche ed una sessione sarà dedicata alla cura del paziente oncologico sieropositivo o con AIDS conclamata. E’ fondamentale sottolineare – conclude la presidente AIOM – che oggi grazie al vaccino contro l’HPV abbiamo la possibilità di abbattere drasticamente le infezioni provocate da questo virus e le forme tumorali ad esse correlate, quali il tumore al collo dell’utero, alla vulva, alla vagina e ad altre parti del corpo come ano, pene, distretto testa-collo. E grazie al vaccino contro l’epatite B possiamo fare altrettanto per combattere il tumore del fegato. Sono vaccini sicuri: vaccinarsi e vaccinare i nostri figli oggi significa chiudere la porta in futuro a queste forme neoplastiche”.

 

Il Papilloma (HPV) e i virus che provocano l’epatite B (HBV) e l’epatite C (HCV) sono gli agenti infettivi più noti ad azione oncogena.


Il Papilloma Virus Umano

L’HPV infatti è la causa principale del tumore della cervice uterina.Non esiste la possibilità di insorgenza di questo tipo di cancro senza la presenza e l’azione trasformante di alcune forme di virus ad alto rischio oncologico come i genotipi 16 e 18. Nel 2017 sono stati stimati in Italia 2.300 casi di cancro alla cervice. Ma l’HPV ha un ruolo causale per i tumori di vulva (1.200 casi), vagina (200 casi), pene (500 casi), ano (300 tra maschi e femmine), cavità orale (4.600 casi tra maschi e femmine) e orafaringe (1.900 casi tra maschi e femmine). Se grazie al programma di screening che prevede il Pap test gratuito ogni tre anni per le donne da 25 ai 64 anni i casi di tumore alla cervice uterina sono drasticamente diminuiti in Italia, nel mondo si stimano circa 500.000 nuovi casi all’anno e 250.000 decessi dovuti a carcinoma della cervice; l’80% dei casi e oltre 85% delle morti avviene nei Paesi poveri.

Le infezioni da HPV si trasmettono per via sessuale e sono molto frequenti: il 75% delle donne sessualmente attive si infetta nel corso della vita, anche se poi la maggior parte della infezioni è transitoria, perché il virus viene eliminato dal sistema immunitario.

 

In Italia è offerto gratuitamente e attivamente dal Servizio sanitario Nazionale il vaccino anti-HPV che viene somministrato in due dosi alle ragazze e ai ragazzi nel corso del 12° anno di età. Sono disponibili tre diversi vaccini contro l’infezione da HPV: il bivalente che contiene i sierotipi 16 e 18, responsabili della maggior parte delle forme neoplastiche; il tetravalente, contenente oltre ai sierotipi 16 e 18, anche i sierotipi 6 e 11, causa dei condilomi (lesioni benigne di natura infettiva che compaiono nella zona genitale femminile e maschile), e il 9-valente, utile verso i tipi di Papillomavirus 6, 11, 16, 18, 31, 33 45, 52, 58 per prevenire il 90% dei ceppi oncogeni. Il vaccino non sostituisce il Pap-test perché non copre tutti genotipi di HPV che possono provocare il cancro.

 

Virus dell’epatite B e C ed epatocarcinoma

Oltre il 70% dei casi di tumori primitivi del fegato (nel 2017 sono stati stimati 13mila nuovi casi) è riconducibile a fattori di rischio noti, in primis collegati alla prevalenza dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV) e dell’epatite B (HBV). Entrambi i virus vengono trasmessi attraverso l’esposizione a sangue infetto o a fluidi corporei come sperma e liquidi vaginali. Inoltre l’epatite B può essere trasmessa dalla madre infetta al neonato. Se per l’epatite C non esiste un vaccino ma farmaci molto efficaci che portano alla guarigione nella maggioranza dei casi, per l’epatite B è un commercio da tempo un vaccino che viene somministrato gratuitamente in Italia dal Servizio Sanitario Nazionale al 3°, 5° e 11° mese di vita del bambino. Negli adolescenti e negli adulti si somministrano tre dosi al tempo 0 e dopo 3 e 6 mesi.

 

Altri virus oncogeni

Il congresso del 7 settembre si occuperà anche della correlazione tra il virus Epstein-Barr (EBV- responsabile della mononucleosi) e i linfomi; dell’Herpes Virus 8 (HHV8) e sarcoma di Kaposi che può manifestarsi con delle lesioni a livello di cute, mucose e organi interni; il Polyomavirus (MCV) e carcinoma a cellule di Merkel, una neoplasia neuroendocrina altamente maligna della cute che colpisce soprattutto le persone anziane e /o con una storia di immunodepressione; l’Human T-cell hymphotropic Virus type 1 responsabile del Linfoma a cellule T.

 

 

Non solo virus

L’infezione da Helicobacter Pylori (Hp) è il principale fattore di rischio per l’ulcera peptica ma anche per il tumore allo stomaco. La gastrite cronica provocata da HP induce una riduzione di fattori antiossidanti e una aumentata attività proliferativa ghiandolare, condizione di rischio per la successiva comparsa di tumore. Per l’eradicazione dell’HP ormai da molti anni, si utilizzano associazioni antibiotiche (la cosiddetta triplice terapia) a base di amoxicillina-claritromicina (o amoxicillina-metronidazolo), in associazione ad un inibitore della pompa protonica (la cosiddettatriplice). Purtroppo l’efficacia di tali terapie è in forte diminuzione in tutto il mondo per l’aumento della resistenza alla claritromicina. Attualmente in aree con elevata resistenza a questo antibiotico vengono raccomandati, come terapia di prima linea, i trattamenti con quadruplice terapia contenente anche bismuto. I tumori allo stomaco diagnosticati nel 2017 sono stati circa 13.000, la maggior parte dei quali in stadio avanzato. Proprio per questo motivo la prevenzione basata anche sull’eradicazione dell’HP rappresenta una modalità di lotta di questo tumore.


Servizio Civile al Sacro Cuore: parte il nuovo progetto

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È aperto il bando di selezione per nove giovani che svolgeranno il Servizio Civile presso Casa Nogarè, Casa Perez e Casa Clero a partire dall’autunno 2018. C’è tempo fino al 28 settembre per presentare la domanda di partecipazione

La musica come punto di partenza per risvegliare ricordi ed emozioni e per costruire una relazione profonda tra giovani e anziani. È questo il cuore del nuovo progetto di servizio civile nazionale che si svolgerà all’interno della Cittadella della Carità di Negrar a partire dall’autunno 2018, intitolato non a caso “Accordi e ricordi: sullo spartito delle emozioni”.

 

Il progetto prevede l’inserimento di nove volontari in servizio per un anno nelle tre residenze dell’area socio-sanitaria della Cittadella: Casa Nogarè (3 posti), Casa Perez (4 posti) e Casa Clero (2 posti). Il bando di selezione per i volontari è aperto fino al 28 settembre e possono partecipare tutti i giovani e le giovani di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Per presentare la propria candidatura bisogna mandare un’e-mail a csocialeperez@sacrocuore.it oppure educatrici@sacrocuore.it o ancora contattare telefonicamente il numero 045.6013066 (Mauro Cordioli) o 045.6013656 (Laura Dall’Ora). Per maggiori informazioni sul Servizio Civile si può consultare il sito www.serviziocivile.gov.it/.

 

Non sono richieste competenze specifiche ai volontari, se non la voglia di mettersi in gioco e la disponibilità a costruire una relazione con il personale e con gli utenti delle strutture. I volontari saranno impegnati in affiancamento agli educatori in varie attività: incontri d’equipe, colloqui con gli ospiti, accompagnamento degli ospiti nei loro spostamenti, predisposizione degli spazi e dei materiali per le attività, supporto al personale addetto agli interventi socio-educativi, affiancamento durante i pasti, accompagnamento nelle uscite… Con il minimo comun denominatore della musica in molti dei momenti trascorsi insieme agli ospiti (vedi sintesi progetto).

 

Un’attenzione particolare sarà dedicata alla formazione generale e specifica. La parte generale sui valori del servizio civile verrà svolta insieme ai volontari operativi nelle altre case dell’Opera Don Calabria (vedi pagina del Servizio Civile dell’Opera Don Calabria). La parte specifica sulla Cittadella della Carità si svolgerà invece a Negrar.

 

“Sono diversi anni che proponiamo progetti di Servizio Civile e finora i ritorni sono sempre stati molto positivi, sia per i giovani che hanno partecipato sia per gli ospiti delle nostre Case – dice Mauro Cordioli, educatore presso Casa Perez e referente del progetto – i volontari che arrivano qui hanno modo di interfacciarsi con le varie professionalità presenti nell’ospedale e possono sperimentare com’è organizzato il lavoro e quali sono le attitudini richieste per lavorare in questo campo. Ma la ricchezza maggiore, naturalmente, è quella che deriva dal rapporto con gli ospiti”.

 

L’impegno richiesto è di 30 ore alla settimana, distribuite su 6 giorni, con una certa flessibilità richiesta nell’alternare mattine e pomeriggi. Il rimborso previsto è di 433,80 euro netti mensili. Una volta scaduto il bando, il 28 settembre, il personale della struttura valuterà le candidature pervenute e procederà a un colloquio con ogni candidato. A seguire verranno scelti i nove volontari e in autunno inizierà il servizio vero e proprio.


Artrite psoriasica: i farmaci che curano la pelle e le articolazioni

Oggi la Reumatologia dispone di molteplici armi per la cura della patologia, dagli antinfiammatori non steroidei ai farmaci biotecnologici fino alle piccole molecole. La terapia è come un abito su misura per ogni paziente

Unisce due patologie, ognuna delle quali di per sé comporta rilevanti conseguenze sul piano fisico e anche psicologico. Si tratta dell’artrite psoriasica, una malattia infiammatoria articolare cronica che presenta nella maggior parte dei casi un interessamento della cute e contemporaneamente dell’apparato osteo-articolare.

 

Si stima che il 3-4%% della popolazione soffra di psoriasi, la dermatite di origine autoimmune caratterizzata da placche rilevate di colore rosso acceso, rivestite da squame biancastre. Circa il 20-30% delle persone colpite da questa patologia dermatologica sviluppano anche l’artrite. In genere compare prima la psoriasi e anche decenni dopo (soprattutto nella fascia di età tra i 20 e i 40 anni) i primi sintomi dolorosi a livello delle articolazioni, accompagnati da calore, rossore e gonfiore. Raramente si manifesta prima l’artrite e ci sono casi di artrite psoriasica senza dermatite, ma sono persone che hanno una storia familiare di psoriasi.

 

Non solo pelle e articolazioni, ma anche cuore. Studi recenti hanno rilevato che un paziente affetto da psoriasi o da artrite psoriasica ha un aumentato rischio di incorrere in malattie cardiovascolari (ictus ed infarto). Infatti l’infiammazione accelera l’insorgenza di arteriosclerosi e in genere il paziente interessato da queste due patologie è obeso, iperteso, dislipidemico (tasso di colesterolo e trigliceridi alto), diabetico e fumatore. Fattori di rischio probabilmente generati da forme depressive o di isolamento, causate dalle difficoltà relazionali che incontrano i pazienti affetti dalla psoriasi, una malattia, che è bene sottolineare, non è assolutamente contagiosa.

 

Sintomi

“L’artrite psoriasica ha caratteristiche ben precise rispetto alla artrite reumatoide, sia per quanto riguarda i sintomi sia per le indagini di laboratorio”, precisa il dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia dell’IRCCS-Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. In genere i pazienti giungono dal reumatologo dopo essere stati sottoposti a una serie di esami tutti negativi ma lamentando dolori articolari in particolare alle mani che presentano le caratteristiche dita “a salsicciotto” (dattilite). Lo stato doloroso può essere tuttavia localizzato anche a livello delle piccole articolazioni dei piedi e delle grandi articolazioni (gomiti, ginocchia e caviglie: l’infiammazione protratta del tendine di Achille è un sintomo). E non risparmia nemmeno l’area lombare con un mal di schiena infiammatorio che si manifesta soprattutto di notte svegliando il paziente e migliorando con il movimento.

 

Diagnosi

“L’artrite psoriasica fa parte delle spondiloartriti sieronegative – spiega il dottor Marchetta – proprio perché gli esami non rilevano la presenza nel sangue del fattore reumatoide né degli anticorpi anti-citrullina (anti-CCP) che sono i marcatori dell’artrite reumatoide. Spesso sono negativi anche gli indici di infiammazione come la VES e la proteina C reattiva (PCR)”. Frequentemente, però, si registra un aumento nel sangue dell’acido urico dovuto all’attività delle lesioni cutanee. Quindi non è raro che nella storia clinica di un paziente affetto da artrite psoriasica ci sia una diagnosi pregressa ed errata di Gotta, basata su un’artrite (magari all’alluce) e sull’iperuricemia. “Diviene quindi fondamentale l’esame obiettivo e l’anamnesi del paziente soprattutto quando non presenta tracce di psoriasi nelle zone classiche come gomiti, ginocchia o viso. La psoriasi bisogna saperla cercare – sottolinea il medico -. Può essere localizzata ovunque anche all’interno degli organi genitali o sul cuoio capelluto e, quando attacca le unghie, può essere confusa con un fungo (onicopatia psoriasica). Nei casi in cui non vi è traccia, in genere sono pazienti che hanno familiari di primo o secondo grado affetti dalla patologia delle pelle o dall’artrite psoriasaca”. La diagnosi viene completata con l’aiuto della ecografia osteo-articolare per le piccole e grandi articolazioni e della risonanza magnetica se il dolore interessa la colonna.

 

Terapia

Una diagnosi e un trattamento precoce dell’artrite psoriasica possono aiutare a prevenire o limitare il danno articolare che compare negli stadi avanzati della malattia. La terapia è consigliata dal reumatologo in base alla storia clinica del paziente, alla severità del coinvolgimento articolare e alla tollerabilità dei farmaci che hanno l’obiettivo di alleviare il dolore, ridurre il gonfiore e prevenire il danno alle articolazioni. Questi i farmaci oggi a disposizione.

 

FANS e COXIBS

Secondo le linee guida, in prima istanza si utilizzano i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) e i COXIB (inibitori della ciclo-ossigenasi) al bisogno e per brevi cicli. Essi non curano la malattia ma sono efficaci nel controllare il dolore e la rigidità articolare; agiscono rapidamente e il loro effetto si esaurisce dopo poche ore o nell’arco della giornata, per cui vanno assunti in maniera continuativa.

Farmaci di fondo

Qualora i FANS e i COXIB perdano efficacia o non sono tollerati (tra gli effetti collaterali: ipertensione arteriosa, disturbi gastroenterici, riduzione della diuresi) o la malattia mostra tendenza alla progressione è necessario iniziare l’uso dei farmaci di fondo (DMARDs), così chiamati perché agiscono anche sul gonfiore e sul danno articolare modificando il decorso della patologia. I più utilizzati: il metotrexate, la ciclosporina e la leflunomide, che possono essere usati anche in associazione tra loro. Essendo degli immunosoppressori possono avere degli effetti collaterali sulle cellule del sangue, del fegato e dei reni e quindi è necessario effettuare dei prelievi periodici per controllare eventuali alterazioni della funzione di questi organi.

 

Farmaci biotecnologici

Se anche i farmaci di fondo non danno i risultati sperati, da oltre venti anni sono disponibili i farmaci biotecnologi, prodotti dall’ingegneria genetica. Sono anticorpi monoclonali che si oppongono a una citochina (molecola proteica) molto importante nei processi infiammatori chiamata TNF-alfa (Tumor Necrosis Factor alfa). Tra i primi ad essere utilizzati l’infiximab, l’adalimumab e l’etanercept. Tali farmaci hanno efficacia anche nel trattamento della psoriasi e nelle gran parte dei pazienti si verifica una remissione della malattia anche per lungo tempo.

Da qualche anno sono a disposizione ulteriori farmaci, biotecnologici e non, molto più mirati e selettivi per la psoriasi e la artrite psoriasica che vanno a bloccare delle citokine diverse dal TNF-alfa. Si tratta dello ustekinumab (a somministrazione ogni 3 mesi) e del recente secukinumab (a somministrazione mensile). Infine l’apremilast (non biotecnologico, appartenete al numeroso gruppo delle cosiddette “piccole molecole “) in formulazione orale ( compresse).

 

“L’armamentario terapeutico oggi a disposizione del reumatologo per la cura della artrite psoriasica è assai ampio e il suo compito, non semplice, è quello di scegliere il farmaco più adatto al singolo paziente come un abito su misura”, conclude il dottor Marchetta.

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West Nile: l'identikit del virus del Nilo Occidentale

Viene trasmesso dalla puntura della zanzara Culex: l’80% delle persone infettate non sviluppa sintomi. Cosa fare per proteggersi e se insorge una febbre estiva, soprattutto se accompagnata da torpore e stato confusionale

La febbre del Nilo Occidentale è provocata dal virus West Nile, isolato per la prima volta in Uganda nel 1937 e arrivato negli anni ’90 del secolo scorso prima negli Stati Uniti e poi in Europa tramite le migrazioni di uccelli (in particolare passeriformi e corvidi) che sono gli ospiti definitivi di questo Flavivirus.

La trasmissione del virus

I vettori della trasmissione del virus sono le zanzare che appartengono al genere Culex, le comuni zanzare che vivono anche in Italia. Il virus, giunto tramite gli uccelli migratori, è così diventato autoctono nel nostro Paese, dove dieci anni fa sono stati segnalati i primi casi umani (in Veneto e Emilia Romagna). La zanzara infetta trasmette il virus agli animali mammiferi (in particolare ai cavalli) e all’uomo. Pertanto il contagio non avviene da uomo a uomo e le zanzare non si infettano pungendo una persona già colpita dal virus. Il periodo di incubazione dopo la puntura di zanzara è di 2-14 giorni.

Cosa provoca il virus

Su 2.500 persone infettate da West Nile, circa 2000 sono asintomatiche, 490 accusano sintomi simil-influenzali (febbre, male alle ossa, stanchezza, cefalea…), 9 sviluppano la forma neuroinvasiva (meningite, encefalite o paralisi flaccida) che viene superata con o senza sequele; una va incontro a decesso. Il rischio di malattia neuroinvasiva è più elevato fra gli adulti oltre i 60 anni e nelle persone con il sistema immunitario debilitato a causa di altre patologie. Quest’anno il numero dei casi di infezione (quindi anche il numero delle forme neuroinvasive) è particolarmente alto in Italia in quanto il proliferare delle zanzare è stato favorito da un’estate calda e umida iniziata già a giugno.

La febbre: cosa fare

Una febbre “influenzale” fuori stagione, priva di cause, deve sempre suscitare una certa attenzione. Se i sintomi persistono e soprattutto se insorge torpore e uno stato confusionale è fondamentale recarsi presso un reparto di Malattie Infettive per eseguire il test per il West Nile.

Terapia

Non esistono farmaci specifici, ma solo finalizzati ad alleviare i sintomi (come gli antipiretici e gli antiinfiammatori). Non è nemmeno disponibile un vaccino.

Prevenzione

Il controllo della diffusione del virus è possibile solo con la lotta alle zanzare. Nel 2010 la Regione Veneto ha istituito un progetto pilota per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie trasmesse dalle zanzare: West Nile, Zika, Dengue e Chikungunya) il cui responsabile scientifico è l’IRCSS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e a cui collaborano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e l’Istituto di Microbiologia e Virologia di Padova. Esso prevede la segnalazione del caso di infezione entro le 12 ore dal sospetto diagnostico al Servizio Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Ulss competente per il territorio che può attivarsi, attraverso i Comuni, per la disinfezione della zona limitrofa all’abitazione del paziente o nel luogo dove si è probabilmente infettato. La disinfezione deve avvenire periodicamente soprattutto nelle aree in cui le trappole dell’Istituto Zooprofilattico hanno raccolto zanzare infette o dove il virus è stato isolato nei cavalli.Ogni cittadino da parte sua deve eliminare ogni fonte di acqua stagnante o trattarla con larvicidi, in quanto ambienti ideali per il deposito delle uova e lo sviluppo delle larve di zanzare. Soprattutto dopo il tramonto, se si è all’aperto, si raccomanda di utilizzare repellenti cutanei e di indossare un abbigliamento protettivo (maglie a maniche lunghe e pantaloni lunghi, possibilmente di colore chiaro). Zanzariere e repellenti per l’ambiente sono mezzi efficaci per proteggersi dalle punture in luoghi chiusi.

Donazione di sangue e organi

Le segnalazione dei casi di infezione assume notevole importanza per il controllo sulle donazioni di sangue e organi. Il Centro Nazionale del Sangue prevede la sospensione dalle donazioni di sangue di almeno 28 giorni per tutti coloro che hanno soggiornato anche per una sola notte nella provincia dove sono presenti zanzare infette o in alternativa l’utilizzo del test NAT sulle sacche di sangue. Anche i donatori di organi vengono sottoposti allo screening. Sangue e organi infetti sono una via di trasmissione del West Nile molto pericolosa perché l’infezione andrebbe a colpire pazienti con un sistema immunitario depresso a causa della malattia o degli immunosoppressori per impedire il rigetto dell’organo.

Ha collaborato il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Dipartimento Malattie Infettive e Tropicali, diretto dal professor Zeno Bisoffi