La colonscopia: un esame importante di cui non avere paura

In un video il dottor Marco Benini, responsabile del Servizio di Endoscopia digestiva, spiega come si svolge la colonscopia, perché è importante farla per prevenire il tumore al colon-retto e perché non averne timore

La colonscopia è uno degli esami che suscitano più timori in chi deve sottoporvisi. Si teme la preparazione, fondamentale perché l’indagine sia accurata e meno fastidiosa possibile. E si teme che possa essere doloroso.

 

Il dottor Marco Benini, responsabile del Servizio di Endoscopia digestiva del “Sacro Cuore Don Calabria”, spiega in un video come in realtà si tratta di un’indagine che comporta limitati o inesistenti disagi all’utente. Oggi sono in commercio soluzioni per la preparazione a basso volume e l’esame viene eseguito in sedazione (vedi video).

 

Il dottor Benini spiega soprattutto l’importanza di questa metodica per la prevenzione e la diagnosi precoce del tumore al colon-retto. Infatti consente di esplorare in estrema sicurezza il grosso intestino, cioè il cieco, tutto il colon, il sigma e il retto attraverso lo sfintere anale.

Grazie a un tubo flessibile e molto sottile dotato di telecamera all’estremità vengono rilevate eventuali anomalie della parete o polipi che potrebbero evolversi in tumore, esportandoli anche se hanno delle discrete dimensioni.

 

Con 53mila nuove diagnosi di tumore al colon retto stimate nel 2017 in Italia (dati AIOM-AIRTUM), il tumore al colon-retto è il secondo tumore più frequente sia negli uomini sia nelle donne, dopo rispettivamente il cancro alla prostata e alla mammella. L’evolversi delle terapie mediche e chirurgiche ha portato la sopravvivenza a 5 anni al 66% per il cancro al colon e al 62% per il retto, garantendo una buona qualità di vita.

E’ raccomadabile effettuare la colonscopia ogni 5 anni a partire da 50/55 anni, prima se ci sono casi in famiglia di tumore al colon-retto o altri fattori di rischio o comportamenti anomali dell’intestino. In Italia è attivo un programma di screening indirizzato agli uomini e alle donne dai 50 ai 69 anni di età ed è costituito da un test di ricerca del sangue occulto nelle feci con ripetizione regolare ogni due anni. In caso di positività del test, il livello successivo di diagnosi è la colonscopia.

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Febbraio 1946 nasce ufficialmente l'ospedale "Sacro Cuore"

Il 12 febbraio di 72 anni fa, il prefetto di Verona Giovanni Uberti emana un decreto: grazie all’intensificarsi dell’attività sanitaria la Casa Sacro Cuore da ospizio diventa giuridicamente un ospedale

Da pochi giorni l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria ha compiuto 72 anni. Almeno sul piano giuridico, perché il 12 febbraio del 1946 la Casa Sacro Cuore otteneva il riconoscimento come ospedale “a seguito di una visita di sopralluogo da parte del medico provinciale”, come riporta Mario Gecchele, nel libro L’ospedale Sacro Cuore di Negrar (1922-1954), in Storia dell’Opera Don Calabria, volume II/3, 2011 di cui riportiamo ampi stralci (vedi foto degli anni Quaranta).

 

Scrive Gecchele: “…nello stesso anno iniziavano i lavori di profonda trasformazione edilizia, di consolidamento, di ammodernamento e di ingrandimento, che in pochi anni cambiarono il volto al Sacro Cuore aggiungendo soprattutto il grandioso Geriatrico, dedicato a San Giovanni Calabria.

 

Prefetto di Verona era il senatore Giovanni Uberti, ‘carissimo amico’ dell’Istituto Buoni Fanciulli. La direzione dell’ospedale, per ottenere il sospirato, e più volte negato a don Sempreboni (il parroco di Negrar fondatore del Casa di riposo Sacro Cuore, ndr), riconoscimento civile, nella relazione che accompagnava la domanda sottolineava la distanza dell’ospedale di Bussolengo (12 km) senza alcun collegamento, e da quello di Verona (13 Km) con collegamenti inefficienti e faceva presente il lavoro di ammodernamento che aveva visto aumentare il numero di ricoverati ‘da una trentina ad un centinaio’ con direttore il dottor Consolaro e primario chirurgico il dottor Zanuso, con l’aiuto del dottor Clementi per pediatria e il dottor Salgari per radiologia.

 

Nella domanda inoltrata nell’ottobre del 1945, dopo una breve cronistoria dell’ospedale, nella quale si ricordava che già altre volte erano state inoltrate le pratiche per il riconoscimento ed effettuati gli emendamenti suggeriti, si precisava che l’ospedale aveva lo scopo di ‘soddisfare i desideri e i bisogni della popolazione del capoluogo e della zona montana’, data la difficoltà di raggiungere altri ospedali come quello di Bussolengo e di Verona, per la scarsezza e la lentezza dei mezzi di comunicazione.

 

Di fronte alla dichiarazione dell’intensa attività sanitaria dell’ospedale (‘dal 1 Maggio 1944 al 20 Gennaio 1946 abbiamo avuto N. 22.680 presenze giornaliere con una media di N.36 presenze’, con posti letto totali di 55), il prefetto, dopo aver incaricato il medico provinciale di verificare sul posto la situazione, in data 12 febbraio 1946 emanava il decreto con cui ‘l’Ospedale S. Cuore di Negrar è classificato alla terza categoria prevista dall’art. 6 del R.D. 30 Settembre 1938 N. 1631′”.


Maculopatie: gli esami per la diagnosi precoce

Sono patologie a carico della parte centrale della retina che comportano un calo vistoso della vista fino alla cecità. Nel video allegato le strumentazioni tecnologicamente avanzate a disposizione dell’Oculistica di Negrar per la diagnosi e il follow up

Con il termine maculopatie s’intendono tutte le patologie che colpiscono la macula, la piccola porzione della retina (ampia 1,5-2 mm.) che serve alla visione distinta centrale dell’occhio, grazie alla quale noi possiamo “mettere a fuoco” i particolari di un oggetto o anche leggere.

Chi ne è colpito ha una visione dell’immagine distorta (come se vedesse attraverso l’acqua o un vetro smerigliato) e frammentata, tanto che per vedere la parte mancante è costretto a continui movimenti dell’occhio.

Inoltre può verificarsi, per esempio nelle maculopatie degenerative dell’anziano (ne soffre una persona su 20 con età superiore ai 70 anni), un calo della vista che se importante può rendere molto difficoltoso il recupero dell’acuità visiva o la sua stabilizzazione anche con le nuove terapie a disposizione. La maculopatia degenerativa rappresenta la maggior causa di cecità nel mondo occidentale per quanto riguarda la popolazione anziana.

Nel video allegato, il dottor Alessandro Alfano – medico oftalmologo – presenta la strumentazione tecnologicamente avanzata per la diagnosi e il follow up della patologia retinica di cui è dotata l’Oculistica del “Sacro Cuore Don Calabria” diretta dalla dottoressa Grazia Pertile. Come per esempio OTC (Topografia Ottica a luce Coerente) o le particolari “macchine fotografiche” per la video angiografia oculare con fluoresceina o verde di indocina


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Anestesia e analgesia in Ostetricia: cosa sono e quando vengono effettuate

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Sono procedure mediche differenti con obiettivi diversi. Ce lo spiega il dottor Leonardo Bianciardi, anestesista del “Sacro Cuore Don Calabria”, promotore di due giornate di formazione sul tema rivolte agli operatori sanitari

L’anestesia è una procedura medica che suscita nel paziente sempre una certa preoccupazione, ma ancora di più nelle donne partorienti che temono anche per la salute del bambino. “In ostetricia il nostro intervento interessa contemporaneamente due persone, la donna e il bambino. Ma i rischi connessi a questa pratica anestesiologica possono essere ridotti al massimo quando si possiede il quadro completo della storia clinica della donna e della sua gravidanza”, spiega il dottor Leonardo Bianciardi, anestesista del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretto dal dottor Luigi Giacopuzzi.

 

Dipartimento che proprio sull’anestesia in Ostetricia ha promosso due giornate formative, la prima delle quali si è svolta il 27 gennaio all’ospedale di Negrar con notevole successo di partecipazione. La seconda, dedicata soprattutto a casi specifici di emergenza e urgenza, si terrà sabato 24 febbraio sempre nella sala convegni “Fr. Perez”. Folto il numero dei relatori, provenienti da molte realtà ospedaliere italiane (vedi programma allegato).

 

Dottor Bianciardi, quando si interviene con l’anestesia in ostetricia?

Si parla di anestesia (abolizione della sensibilità, della coscienza e del dolore, associato a rilassamento muscolare) in ostetricia quando si deve effettuare un intervento chirurgico come il taglio cesareo programmato o in urgenzaoppure interventi chirurgici non ostetrici (per esempio appendicite acuta) in donna gravida. L’anestesia può essere loco-regionale o generale. Cosa diversa è l’analgesia (abolizione del dolore) o meglio la parto-analgesia, che viene effettuata quando si desidera ridurre o abolire il dolore durante il travaglio del parto.

 

Cosa determina la scelta tra l’anestesia loco-regionale o l’anestesia generale?

La scelta del tipo di anestesia è legata al tipo di intervento chirurgico da eseguire; per gli interventi di taglio cesareo è dimostrato che l’anestesia loco-regionale è la metodica più sicura per la mamma e il feto; inoltre con tale tipo di anestesia è possibile per la mamma effettuare il cosiddetto pelle-a-pelle immediatamente dopo la nascita Tuttavia, ci sono eccezioni per le quali è necessario eseguire l’anestesia generale.

 

Quali?

Le eccezioni sono legate al tipo di urgenza del parto cesareo, al rifiuto della donna o alla presenza di patologie che controindicano l’utilizzo dell’anestesia loco-regionale.

 

L’anestesia in generale suscita molti timori, ma in particolare in una donna che deve subire un parto cesareo…

E’ una paura comprensibile e un certo livello di stress è inevitabile. Ma l’anestesia in ostetricia non deve far paura. A condizione, però, che si conosca la storia medica della paziente e della sua gravidanza e che la stessa paziente sia completamente informata della metodica anestesiologica scelta.

 

Prima dell’anestesia vengono effettuati particolari esami?

Considerata l’età delle partorienti, in generale vengono eseguiti solamente alcuni esami ematochimici (emocromo, INR/PTT, fibrinogeno).

 

Quali sono le differenze tra l’anestesia e la parto-analgesia?

La parto-analgesia è la tecnica più efficace per ridurre o togliere il dolore del travaglio del partoNon è un’anestesia, perché la donna può muoversi liberamente e assumere la posizione che più gradisce durante il travaglio. Questo è possibile perché i farmaci utilizzati vengono somministrati in dosi molto inferiori rispetto a quelle impiegate per l’anestesia e in relazione allo stato del travaglio. Ci aiuta in questo anche quanto ci riferisce la donna dopo somministrazione, cioè se il dolore persiste, se si è attenuato o se è scomparso.

 

Come viene somministrata la parto-analgesia?

Nella gran parte dei casi si utilizza l’analgesia peridurale, che prevede la somministrazione dei farmaci attraverso un tubicino (catetere) che viene inserito tramite un ago sottile nello spazio peridurale nella zona lombare. I farmaci possono essere somministrati in infusione continua oppure – ed è la soluzione più efficace – a boli programmati. Quando invece il travaglio è molto avanzato e la donna ha raggiunto una dilatazione completa, si può procedere con l’analgesia subaracnoidea o “one shot”. Si tratta di una singola iniezione (sempre nella zona lombare) che consente alla donna di non provare dolore nel poco tempo che la separa dalla nascita del suo bambino.

 

Tutte le donne possono usufruire della parto-analgesia?

Tutte le donne possono farne richiesta. Al “Sacro Cuore Don Calabria” il Servizio è attivo dal 2005 e assicura l’analgesia epidurale gratuita 24 ore su 24 per tutti i giorni dell’anno. Nell’ambito del programma di assistenza alla gravidanza, il tema del controllo del dolore in travaglio di parto verrà affrontato in appositi incontri, nei quali un anestesista fornirà tutte le informazioni riguardanti l’analgesia epidurale. Sono incontri che consentono sia di illustrare in modo esauriente la tecnica, sia di rispondere alle varie domande, chiarendo eventuali dubbi, spiegare in modo chiaro i vantaggi, le indicazioni ma anche i rischi, le controindicazioni e le potenziali complicanze.

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Pacemaker collegati al cellulare: al "Sacro Cuore" i primi impianti in Italia

Un ulteriore avanzamento tecnologico nell’ambito del controllo da remoto dei pazienti grazie al bluetooth di cui sono dotati i pacemaker

All’ospedale Sacro Cuore Don Calabria sono stati impiantati per la prima volta in Italia pacemaker sempre ‘connessi’ con il cellulare del paziente (vedi Photo Gallery). Un’importante evoluzione tecnologica che semplifica ulteriormente il controllo da remoto di eventuali anomalie del ritmo cardiaco e del corretto funzionamento del dispositivo.

 

Grazie al bluetooth di cui sono dotati, questi innovativi pacemaker sono in grado di inviare i dati all’app dello smartphone o del tablet collegata a sua volta al sever dell’azienda produttrice a cui noi, grazie a una password, possiamo accedere per il controllo delle informazioni“, spiega il dottor Giulio Molon (nella foto di copertina), responsabile della Elettrofisiologia e Cardiostimolazione della Cardiologia di Negrar, diretta dal professor Enrico Barbieri.

Al “Sacro Cuore Don Calabria” il controllo da remoto è stato introdotto nel 2008 e da allora ha interessato più di mille pazienti.Negli anni precedenti i portatori di pacemaker e di defibrillatori dovevano recarsi in Cardiologia rispettivamente ogni 6/12 e 3/6 mesi per la verifica del buon funzionamento dei dispositivi. In seguito i pazienti sono stati forniti di un ‘comunicatore’ capace di scaricare e spedire i dati semplicemente sostando accanto ad esso, grazie ad un’antenna di cui sono dotati i pacemaker, i defibrillatori e anche i ‘loop recorder’ (piccoli registratori sottocutanei per il monitoraggio, con durata fino a tre anni, del comportamento del cuore).

“Un doppio vantaggio per il paziente – sottolinea il dottor Molon – che non deve recarsi più in ospedale a scadenze fisse. Ma soprattutto grazie all’accesso al sever dell’azienda produttrice, noi possiamo effettuare controlli più ravvicinati e intervenire se rileviamo anomalie del cuore o del funzionamento del dispositivo”.

Ora un ulteriore evoluzione tecnologica dei pacemaker mette in ‘soffitta’ anche il ‘comunicatore’. “I pacemaker con il bluetooth possiedono delle interessanti potenzialità – conclude il cardiologo -. Potrebbero, per esempio, essere ‘connessi’ alla centrale del 118, ad altri numeri di emergenza o personali del paziente. Diventerebbero così un dispositivo di sicurezza eccezionale in caso di malori improvvisi”.


La nuova palazzina è arrivata al piano terra

Proseguono i grandi progressi nei lavori per quello che sarà il nuovo ingresso dell’intero ospedale “Sacro Cuore-Don Calabria”. Nelle foto all’interno le immagini dei lavori e alcune simulazioni di come sarà la palazzina una volta ultimata

Ha raggiunto il piano terra la nuova palazzina dell’ospedale, che una volta ultimata fungerà da ingresso unico a tutti i percorsi all’interno del “Sacro Cuore Don Calabria”. La prima pietra era stata posata dal presidente del Veneto Luca Zaia e benedetta dal Casante padre Miguel Tofful lo scorso 4 ottobre in occasione della festa di San Giovanni Calabria (vedi articolo).

Nelle foto è possibile vedere il rapidissimo progresso dei lavori, con scatti effettuati a distanza di alcune settimane l’uno dall’altro, fino al momento attuale (vedi photo-gallery).

Proprio al piano terra sarà realizzata la grande e unica hall dell’ospedale, della quale è possibile vedere una simulazione nella foto di copertina e nella foto 6 in gallery. La palazzina verrà innalzata fino al quarto piano e ospiterà il Centro Prelievi, gli ambulatori per visite ed esami pre-operatori, gli uffici amministrativi e quelli della direzione.

Oltre alla nuova palazzina i lavori di riqualificazione prevedono la realizzazione di percorsi coperti (anche da un giardino pensile) di collegamento tra la struttura del “Sacro Cuore” e quella del “Don Calabria”; un parcheggio multipiano di oltre 500 posti auto; l’ampliamento del Pronto Soccorso; un nuovo reparto di Oncologia; un Centro di Ricerca per le Malattie Tropicali e infine un Centro congressi da 500 posti.

Servizio a cura di

matteo.cavejari@sacrocuore.it


«Gli ammalati, pupilla dei miei occhi»

Con le parole di San Giovanni Calabria, vogliamo esprimere la vicinanza a tutti i pazienti della Cittadella della Carità e a tutte le persone sofferenti in occasione della XXVI Giornata Mondiale del Malato che si celebra oggi

Oggi si celebra la XXVI Giornata Mondiale del malato, evento istituito per la prima volta da papa Giovanni Paolo II nel 1992 nella ricorrenza della Beata Vergine di Lourdes. Quest’anno il tema è la vocazione materna della Chiesa verso le persone bisognose e gli ammalati (vedi discorso di papa Francesco).

 

Una vocazione verso i bisognosi e gli ammalati che anche don Calabria sentì durante tutta la sua vita, fin da quando nel 1895, durante il servizio militare, fu assegnato come assistente all’ospedale militare di Verona. Ecco come parlava degli ammalati in una lettera del 1947, che rappresenta ancora oggi un manifesto programmatico per un ospedale calabriano come il “Sacro Cuore”. Ed è con le parole del santo fondatore che vogliamo dedicare un pensiero a tutti gli ammalati presenti alla Cittadella della Carità in questo giorno a loro dedicato:

 

Fin dalla mia lontana gioventù i malati sono stati sempre la pupilla dei miei occhi, e la bella provvidenziale opera dell’Apostolato degli Infermi ha occupato sempre un posto di privilegio nel mio cuore.La Casa di Negrar: cellula divina, destinata a diventare grande, per accogliere nei suoi padiglioni tanti fratelli ammalati… per valorizzare così, il più possibile… la carità cristiana, unico mezzo per riportare nostro Signore Gesù Cristo nella società di oggi, così turbata e sconvolta“.

 

E se da una parte il santo aveva questo particolare amore per gli ammalati, dall’altra aveva una vera e propria ammirazione per chi era chiamato a prendersi cura dei sofferenti. Nel testo qui sotto, ripreso da un’altra lettera di don Calabria, egli parla del ruolo del medico, attribuendo a questa professione una dignità quasi “divina”. Lo pubblichiamo a beneficio di tutti gli operatori sanitari, affinchè trovino in queste parole rinnovata motivazione per prendersi cura dei fratelli sofferenti:

 

Come voi sapete, sento in me una esuberanza di amore, di stima e di affetto, direi quasi di venerazione, per i Medici; fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale ho avuto frequenti occasioni di vedere da vicino, e apprezzare l’opera pietosa del Medico. Non dubito di affermare che, dopo la missione divina del Sacerdote, quella del Medico sia la professione più nobile che il Creatore possa affidare ad un uomo sulla terra. Che cosa è infatti un Medico? E’ diretto collaboratore di Dio autore e conservatore della vita.

[…] Oh, quale merito per il Sanitario, soccorrere il fratello! E quale nobilitazione della scienza e dello studio! Forse mai come nel Medico la scienza ha un ideale più alto e sublime di questo: salvare la vita. Il Medico, allora, appare ed è il ministro di Colui, che disse “Io sono la vita”. Cristo non intendeva solamente la vita dell’anima, che più conta; ma anche quella del corpo, che è tanto preziosa; infatti il corpo è strumento essenziale dell’anima nel servire ed amare l’Autore della vita“.

* Vedi video con la voce di don Calabria che parla della malattia e della sofferenza


"In trentanove anni quante vite ho aiutato a venir al mondo!"

Va in pensione il dottor Sante Burati, responsabile dell’Ostetricia: “Quando ho iniziato era un’altra era: non esisteva l’ecografia e i papà erano lasciati fuori dalla sala parto. Ho sempre invidiato alla donna l’esperienza della maternità”

“Se potessi rinascere donna, lo farei solo per provare l’esperienza della maternità. Dolore del parto escluso, s’intende”. Un delicato peccato d’invidia che il dottor Sante Burati (foto di copertina), 70 anni ad aprile e da circa 20 anni responsabile dell’Ostetricia del Sacro Cuore Don Calabria, nutre da sempre nei confronti del sesso femminile. Perché lui, in 39 anni di medico ginecologo, il ‘venir alle luce’ lo ha visto tante volte, ma quello straordinario passaggio dal dolore più cupo alle gioia immensa che si legge sul viso di una donna, ha potuto sempre sfiorarlo e mai provarlo fino in fondo.

 

“Per un uomo resta un mistero – afferma a pochi giorni dalla sua nuova vita da pensionato -: la stessa donna che un momento prima era sfigurata dalla sofferenza fisica, improvvisamente grazie a quella craturina nelle sue braccia si trasforma, quasi si illumina. Credo che dentro di sé provi un senso straordinario di onnipotenza, datole dal mettere al mondo una nuova vita e nello stesso tempo un’ondata di benessere, gioia e amore che non ha pari in nessun’altra situazione di vita”.

 

Su questo mistero il dottor Burati si è interrogato ogni volta che ha sentito un vagito nelle sue mani. Quante volte? “Non sarei assolutamente in grado di ipotizzare un numero – risponde facendo emergere un sorriso dalla barba bianca -. So solo che da alcuni anni tra le mie gestanti hanno iniziato ad esserci le figlie o le nuore di coloro che ho aiutate a mettere al mondo”.

 

Il dottor Burati è arrivato a Negrar il 1° giugno del 1979. “Ho fatto la specializzazione all’ospedale di Borgo Trento (Verona) – racconta -. Quando ho iniziato Medicina volevo fare Pediatria. Poi ho assecondato il fascino che esercitava su di me il mondo femminile, la psicologia e la personalità delle donne di cui ho scoperto, grazie a questa professione, la grande capacità di soffrire ed amare”.

 

Quello di Negrar è stato il primo incarico formale per il dottor Burati. Incarico durato ben 39 anni e tre primari: il dottor Claudio Nenz, il dottor Luca Minelli e, l’ultimo, il dottor Marcello Ceccaroni.“In quasi 40 anni non ho mai sentito il bisogno di andare altrove. Il motivo? Mi sono sempre trovato bene al ‘Sacro Cuore’. Fin dall’inizio – ci tiene a sottolineare il dottor Burati – quando in Ginecologia eravamo solo quattro medici e in tutto l’ospedale una quarantina (oggi sono più di 300!. ndr). Approfittavamo del momento dei pasti, nella mensa comune, per scambiarci le idee e le opinioni sui casi, ma anche per fraternizzare e per creare gruppo“. Quei quattro medici erano il primario Nenz, il dottor Amerigo Riolfi, scomparso quando non aveva nemmeno 60 anni, e il dottor Antonio Montebelli.

 

Era un altro ospedale e un’altra era per quanto riguarda l’ostetricia – prosegue -. A fine anno contavamo solo 500-600 parti, si partoriva ancora molto a casa e l’induzione al parto aveva scadenza fiscale al termine della gravidanza, quando adesso si va anche oltre la 41° settimana”. Erano anche i tempi in cui le donne venivano sottoposte prima del parto a tricotomia e al clistere, si partoriva obbligatoriamente nella posizione ginecologica e i papà erano banditi dalla sala parto. “Per far entrare i padri ho dovuto vincere bonariamente un ‘braccio di ferro’ con l’allora direttore sanitario Gastone Orio. Non ne voleva sapere. Diceva che il parto era roba da donne e gli uomini era meglio che restassero fuori. Ma oramai – sottolinea il medico – molti ospedali prevedevano la presenza del padre al momento del parto, perché era giusto così”.

 

Anche l’esame ecografico in quei tempi era ancora agli albori: “Mia figlia è nata a fine giugno dello stesso anno in cui sono stato assunto. Avevo sentito che all’ospedale maggiore di Verona era arrivato un ecografo per l’ostetricia, così portai mia moglie. Mi seppero dire solo che era maschio per le sue dimensioni… è nata una bambina. Oggi l’ecografia è uno strumento preziosissimo, perché, tra le altre cose, ci permette di gestire le gravidanze oltre il termine con serenità, lasciando, dove è possibile, che il travaglio inizi naturalmente. Prima si doveva procedere allo scadere del termine e il più delle volte si sottoponeva la donna a ore e ore di dolori. Ora questo non succede più”.

 

Il dottor Burati ha vissuto da protagonista l’intera evoluzione dell’ostetricia, iniziata più di vent’anni fa. “Ho proposto alle mie ostetriche di andare a visitare gli altri ospedali per vedere da vicino cosa stavano facendo – prosegue -. In particolare ci siamo recati a turno per una settimana all’ospedale di Gavardo, nel Bresciano, che allora era la punta di diamante del parto naturale. Guardavamo anche all’estero, dove si stava affermando la possibilità per le donne di avere il bambino nella posizione che sembra a loro più congeniale. Devo dire che fin dall’inizio ho lavorato con un gruppo di ostetriche propositivo e con sempre tanta voglia di fare. Nel tempo si sono succedute le figure, ma lo spirito è rimasto sempre lo stesso: l’entusiasmo di trovare nuove soluzioni per far star bene il più possibile la donna in questo particolare momento della sua vita. La forza dell’Ostetricia di Negrar sono sempre state le ostetriche” .

 

Serba un ricordo in particolare? “La prima volta che una donna ha partorito in posizione alternativa – risponde -. Non rammento perché il marito non c’era, forse non se la sentiva di assistere al parto. Comunque la signora si era messa in ginocchio su letto aggrappandosi a me, come supporto, mentre l’ostetrica Loredana Cambiolli, adesso in pensione, controllava l’espulsione del bambino da dietro la schiena della signora. Sembra facile, ma significava cambiare completamente la prospettiva del parto. Fu un’esperienza che ci ha entusiasmati perché ci dimostrò che avevamo le capacità per farlo. Oggi la donna da noi ha tutti comfort per partorire come vuole, anche nella vasca con l’acqua”. E soprattutto senza eccessivo dolore… “Con orgoglio posso affermare che siamo stati tra i primi ospedali del Veronese a introdurre l’analgesia epidurale gratuita e h24. Devo dar merito all’allora presidente fratel Mario Bonora, che ha accolto l’idea e ha fatto in modo che si realizzasse, incrementando l’organico degli anestesisti”.

 

Cosa le mancherà di più di questo lavoro? La risposta non tarda a venire. “La sala parto, non c’è dubbio. Perché quando si porta a termine un parto, magari laborioso e vedi la felicità nel volto di quella madre che tiene in braccio un bimbo sano, tutte le ansie e le paure delle ore precedenti svaniscono. La sala operatoria non fa ingrigire come la sala parto. Anche quando si hanno anni di esperienza sulle spalle, non si smette mai di temere per quelle due vite che ti sono affidate. Il vantaggio dell’età è che con il tempo s’impara a metabolizzare la tensione e gestire la situazione con la freddezza necessaria. Il parto – prosegue – viene seguito dalle ostetriche, noi ginecologi veniamo chiamati quando il travaglio o il parto escono dai parametri della fisiologia. Non per forza devono essere prese delle decisioni invasive. Anche decidere di continuare ad assicurare alla madre un parto naturale senza far correre a lei e al suo bambino dei rischi, non è semplice. La strada facile del cesareo per togliersi qualsiasi pensiero, per uno come me, con tanti anni di lavoro, appare un tradimento verso la donna”.

 

Come sarà adesso la sua agenda senza l’Ostetricia di Negrar? “Continuerò ad alimentare il mio orgoglio e i miei ricordi rallegrandomi ogni volta che le ‘mie’ mamme, riconoscendomi, mi fermano per strada. Poi mi dedicherò ai miei grandi hobby: la lettura e i viaggi. Ho quasi le valigie pronte per l’India…”.

 

elena.zuppini@sacrocuore.it


Epatocarcinoma: al "Sacro Cuore" la sperimentazione di un nuovo farmaco

L’ospedale di Negrar partecipa allo studio internazionale di fase I-II di un vaccino riservato ai pazienti affetti da tumore al fegato in uno stadio molto precoce, precoce ed intermedio e che sono candidati a trattamenti locali

Dal 12 gennaio 2018 è attivo presso l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria lo studio clinico di fase I-II HEPAVAC-101, che valuta per la prima volta nell’uomo il vaccino IMA970A, un prodotto innovativo specifico nei confronti dell’epatocarcinoma.

HEPAVAC-101 è uno studio internazionale che si svolge in Germania, Spagna, Francia, Belgio, Gran Bretagna e Italia. Nel nostro Paese vede coinvolti solo due centri: l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (in collaborazione con l’Università dell’Insubria) e l’Istituto Nazionale Tumori “Pascale” di Napoli.

La sperimentazione è riservata ai pazienti con epatocarcinoma in fase iniziale (ad uno stadio molto precoce, precoce ed intermedio), che sono candidati ad un trattamento locale (intervento chirurgico, termoablazione o ablazione mediante radiofrequenza e microonde, chemioembolizzazione, radioembolizzazione).

Per informazioni è disponibile il numero 800 143 143 Numero Verde del Cancer Care Center – Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 12.00).

Scopo dello studio è valutare la tollerabilità del vaccino IMA970A e verificare se questo, somministrato dopo la regressione della malattia ottenuta con il trattamento locale, è in grado di indurre una risposta immunitaria nei confronti del tumore. Se il vaccino IMA970A dimostrasse di indurre una risposta immunitaria, potrebbe ritardare la progressione del tumore o favorire una ulteriore regressione del tumore stesso.

Cos’è l’Epatocarcinoma?

L’Epatocarcinoma è il tumore maligno più frequente del fegato, con una incidenza nel mondo di 750.000 nuovi casi l’anno. Oltre il 70% di questi tumori è riconducibile a fattori di rischio noti e tra questi i più frequenti sono: l’infezione da virus dell’epatite C (HCV), da virus dell’epatite B (HBV), da abuso di bevande alcoliche. In Italia sono stati diagnosticati nel 2017 circa 13.000 nuovi casi. A 5 anni dalla diagnosi la sopravvivenza è del 20%.

Al momento le opzioni terapeutiche per questo tumore sono limitate e nel 2014 si sono verificati in Italia oltre 9.900 decessi per tumori del fegato: è dunque necessario sviluppare terapie innovative per l’epatocarcinoma al fine di migliorarne la prognosi.

Attualmente i pazienti con epatocarcinoma in fase iniziale vengono sottoposti a procedure locali che consistono nella resezione chirurgica del tumore laddove possibile, o nella distruzione dei noduli tumorali mediante termoablazione, ablazione con radiofrequenza e microonde, chemioembolizzazione o radioembolizzazione. Nonostante tali trattamenti possano ottenere una distruzione del tessuto vitale del tumore, nel tempo la malattia è destinata a recidivare o a peggiorare nella maggior parte dei casi.

Cos’è IMA970A?

IMA970A è un vaccino a base multipeptidica sviluppato nell’ambito del progetto HEPAVAC, una iniziativa internazionale finanziata dall’Unione Europea che vede la partecipazione di 9 partner europei dei settori farmaceutico ed universitario. I peptidi contenuti nel vaccino sono stati isolati e selezionati a partire dal tessuto tumorale di epatocarcinomi provenienti da centinaia di pazienti. Questi peptidi sono specifici, in quanto presenti soltanto nell’epatocarcinoma e non nei tessuti sani.

Come si svolge lo studio?

I pazienti che prenderanno parte alla sperimentazione verranno sottoposti ad alcuni esami di screening per verificare la loro idoneità a partecipare allo studio, prima di ricevere il trattamento locale standard. I pazienti che, dopo il trattamento locale, non presentano evidenza di tumore vitale riceveranno la terapia sperimentale che prevede una unica infusione endovenosa di una bassa dose di ciclofosfamide (un farmaco chemioterapico con funzione immuno-modulante). Dopo pochi giorni viene iniziata la vaccinazione vera e propria.

La vaccinazione consiste nella somministrazione intradermica (con ago sottile, a livello della cute del braccio) sia del vaccino IMA970A che di una sostanza adiuvante (che serve cioè a potenziare l’immunogenicità del vaccino e che contiene RNA). Sono previste 9 somministrazioni totali intradermiche del vaccino: le prime 4 vengono effettuate ogni settimana e le altre 5 ogni tre settimane.

Dove si svolge lo studio?

La sperimentazione si svolge presso l’Unità Operativa di Oncologia Medica, diretta dalla dottoressa Stefania Gori, in collaborazione con il dottor Alberto Masotto dell’Unità Operativa di Gastroenterologia, diretta dal dottor Paolo Bocus.


"Si può sorridere alla vita, nonostante il cancro"

In occasione della Giornata mondiale contro il cancro e della Giornata nazionale per la vita, raccontiamo la storia di Mara, una donna che non ha lasciato che la malattia dominasse la sua quotidianità: “Si può, dando fiducia ai medici e a se stessi”

Sono coincidenze che fanno riflettere. Quest’anno la Giornata mondiale contro il cancro coincide con la celebrazione della Giornata nazionale per la vita, domenica 4 febbraio. La prima è stata promossa dell’Unione Internazionale contro il Cancro, un’organizzazione non governativa che rappresenta migliaia di associazioni nel mondo impegnate nella diffusione della cultura dell’informazione e della prevenzione della malattia tumorale. La seconda è stata istituita nel 1978 dalla Conferenza Episcopale Italiana dopo l’approvazione della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, per promuovere il valore della vita in ogni circostanza, dal concepimento alla morte naturale.

L’ospedale di Negrar vuole celebrare entrambe, raccontando la storia di una vita che si è imposta sul cancro, non accettando che la “bestia” e tutti i demoni che essa porta con sé scandissero e manipolassero la sua quotidianità, i suoi affetti… la sua voglia di vivere. E’ la storia di Mara, una paziente del “Sacro Cuore Don Calabria”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Il suo primo capitolo di malata oncologica inizia nel marzo del 2012,in un ambulatorio di Radiologia, con una dottoressa che le comunica l‘esito della biopsia. Quel nodulo che in poche settimane era diventato da palpabile a visibile, era un carcinoma mammario. “Frastornata – racconta Mara, 47 anni – è l’unica definizione che mi viene in mente ripensando a quel momento che ho vissuto assieme a mia figlia. Non riuscivo a capacitarmi che quella parola cancro riguardasse proprio me.

‘E se muoio? Se lascio sole le mie figlie?’, ho chiesto in lacrime alla dottoressa che con tutta la gentilezza e il tatto che possedeva cercava di rassicurarmi, sottolineando che tra le sue pazienti aveva signore la cui diagnosi risaliva a più di 20 anni fa. Sentivo dentro di me che non era tanto il tumore a terrorizzarmi, quanto la sofferenza delle cure (soprattutto la chemioterapia) e lo stravolgimento totale della mia vita e quella della mia famiglia”.

La dottoressa, racconta Mara, era stata tanto comprensiva quanto ferma: “Signora, deve essere presa in carico da un chirurgo senologo, si riservi qualche giorno per decidere a quale struttura ospedaliera rivolgersi’. Era come mi avessero lanciato con una catapulta in un mondo che non conoscevo. E adesso cosa faccio? Una persona di fiducia mi ha indicato il dottor Alberto Massocco, responsabile della Chirurgia senologica di Negrar. Dal lato umano e medico è la migliore scelta che potessi fare”.

La prima arma imbracciata da Mara e dai medici che la prendono in carico contro la “bestia”, come chiama lei il tumore, è la chemioterapia neoadiuvante, per ridurre la massa tumorale al fine di un intervento più conservativo possibile. “La chemio… il mio incubo – prosegue -. Ma era un incubo costruito dalla mia mente. Si perdono i capelli (e per noi donne è psicologicamente devastante), la pelle si trasforma in peggio. Ma poi scopri che oltre alle parrucche e ai foulard, ci sono le creme che ti aiutano a vederti più bella. Esistono soprattutto dei farmaci che controllano gli effetti collaterali. Sicuramente non è stata una passeggiata, ma ho sofferto meno di quanto pensassi. Il merito va anche alle infermiere del Day Hospital dell’Oncologia, dei veri angeli sempre attente a ogni nostro malessere, sempre pronte ad intervenire anche con una sola parola rassicurante, che spesso è più efficace di una pillola”.

Terminato il trattamento con la chemioterapia, Mara viene sottoposta a intervento di quadrantectomia, poi alla radioterapia. “Nel gennaio del 2013 sono ritornata ad essere una persona libera… dalle cure. Dovevo recarmi in ospedale solo per il normale follow up”. Un sollievo durato solo tre anni perché il 13 ottobre del 2016, a Mara viene diagnosticata una recidiva.

“Alla notizia di questo nuovo nodulo che si era nascosto anche al mio tatto, è inutile dirlo, non ho reagito in modo razionale – prosegue nel racconto Mara -. Mi sono fatta guidare dalla confusione che regnava nella mia mente, lasciando che la paura e l’ansia prendessero il sopravvento. Avevo un pensiero fisso: ‘Perché proprio a me? Perché la bestia è ritornata?‘. Assurdamente nutrivo il senso di colpa di essermi ammalata, perché, nella mia testa, venivo meno al mio ruolo madre che invece di accudire le mie figlie, costringevo le mie figlie ad accudire me. Non mi riconoscevo più come persona né psicologicamente né fisicamente”.

Vedendola in seria difficoltà, la dottoressa Monica Turazza, oncologa, consiglia a Mara di rivolgersi al Servizio di Psicologia Clinica. “Ho conosciuto così il dottor Matteo Giansante. Mi sono avvicinata al primo colloquio con un po’ di scetticismo. Non capivo come potesse aiutarmi una persona che non mi conosceva e non condivideva il mio problema. Un problema che per lo più avevo già affrontato e da sola. Ma già alla fine della prima ‘chiacchierata’ ho capito che parlandone potevo stare meglio e affrontare così, più serena e propositiva, la mia nuova battaglia. Ho preso consapevolezza di cosa mi stava accadendo, ho accettato la paura come un’amica con cui qualche volta ci si può scontrare ma con cui si può convivere. Ho messo nero su bianco i timori che non mi permettevano più di condurre la vita di prima. Io che alla tenera età di 43 anni avevo imparato a nuotare, non mi recavo più in piscina perché per me era impensabile affrontare lo spogliatoio, lo sguardo delle persone, il sentirmi fuori posto perché ero malata. Dare un nome ai nostri demoni fa bene. Perché si capisce come affrontarli”.

Un’accettazione della propria fragilità che paradossalmente ha dato a Mara la forza di affrontare con serenità le nuove cure chemioterapiche: “Quando sono ritornata al Day Hospital e ho visto il sorriso delle ‘mie ragazze’, perché per me le infermiere sono tali, mi sono detta: ‘Sei in famiglia, qui ce la puoi fare”.

Subita la mastectomia e radioterapia, da alcuni giorni Mara si è sottoposta alla ricostruzione mammaria. “Sto bene, conduco una vita normale. Il cancro si può combattere impedendo alla ‘bestia’ di prendere il sopravvento su di noi, sulla nostra voglia di vivere. E’ possibile, dando fiducia ai medici e non perdendo mai la fiducia in noi stessi”.