Influenza: per il vaccino si è ancora in tempo

A gennaio è previsto il picco dei contagi, ma la profilassi può essere ancora utile soprattutto per le categorie a rischio. Alcune regole igieniche per non ammalarsi e cosa fare quando si è colpiti dal virus

Natale e Capodanno sotto le coperte per oltre 23mila veneti (ultimi dati disponibili) colpiti dall’influenza, che nel mese di gennaio dovrebbe raggiungere il picco di contagi. Sebbene sul filo di lana, la vaccinazione è ancora raccomandata, soprattutto per le persone che hanno più di 65 anni, quelle affette da malattie croniche e per gli operatori sanitari. Purtroppo sono ancora pochi gli italiani che si sottopongono a questa forma di profilassi, sottovalutando un’arma efficace per evitare in particolare l’insorgenza di complicanze, a volte mortali.

 

Già 2 milioni gli italiani colpiti

Dall’inizio della sorveglianza epidemiologica (ottobre) sono in totale 66.988 i veneti che hanno contratto il virus. Si stima che dall’inizio della stagione siano oltre 2 milioni gli italiani che hanno dovuto arrendersi a febbre, tosse, raffreddore e dolori articolari, i sintomi influenzali più comuni.

 

Sono questi i dati diffusi dal bollettino Influnet dell’Istituto Superiore della Sanità, secondo il quale, per ora, l’andamento dell’epidemia è paragonabile a quello che si è registrato l’anno scorso, quando furono colpiti dal virus 5 milioni di italiani.

 

Nel Veneto – come in tutta Italia – dal 25 al 31 dicembre la fascia di età maggiormente colpita è stata quella dei bambini da zero a 4 anni. Segue quella dei bambini e ragazzi dai 5 ai 14 anni, mentre è più contenuto il tasso di incidenza tra gli adulti e gli anziani.

 

Pochi anziani si vaccinano

Merito di una maggiore adesione alla campagna vaccinale degli over 65, una delle classi più a rischio di complicanze? I dati definitivi non sono ancora disponibili. Si registra tuttavia un lieve aumento negli anni degli anziani che si sottopongono al vaccino, ma non è ancora sufficiente visto che lo scorso anno gli ultrasessantacinquenni vaccinati sono stati solo il 56% degli anziani residenti in Veneto quando la soglia di copertura fissata dall’Oms per gli over 65 e le categorie a rischio è del 75% .

 

Ma il cattivo esempio lo danno gli operatori sanitari

La mancanza di consapevolezza dell’utilità del vaccino per la salute personale e pubblica non riguarda solo quelli di “una certa età”, visto che la scorsa stagione si sono vaccinati 774.409 veneti su una popolazione di quasi 5 milioni di abitanti. E in particolare lo scettro del cattivo esempio va proprio al personale sanitario, categoria che lo scorso anno ha raggiunto (si fa per dire) solo il 15% di adesione al vaccino.

 

Eppure restando sempre dentro i confini regionali dal 2010 sono stati oltre 600 i ricoveri in ospedale per influenza, con 95 decessi. Nel 2017 sono state ricoverate 101 persone con 8 decessi. Quest’anno in Veneto si registra già il primo decesso correlabile all’influenza: un uomo di 53 anni con patologie pregresse. A dimostrazione che l’influenza può non essere una banale malattia.

L’impatto economico

Anche l’impatto economico non è banale. Secondo uno studio realizzato dall’Alta Scuola di economia e management dei sistemi sanitari (Altems) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, dal titolo “Adulti Vaccinati”, solo per la vaccinazione antinfluenzale, tra giornate di lavoro che non vengono perse e minore spesa previdenziale, la vaccinazione impatta per 500 euro a persona nell’arco dell’anno. Se si riuscisse a “convincere” 900mila adulti in età lavorativa in più a vaccinarsi (rispetto ai circa 2 milioni di italiani che attualmente si vaccinano in età adulta) il sistema economico “guadagnerebbe” ben 450 milioni di euro ogni anno.

 

Prevenzione: vaccino e poche regole igieniche

Di motivi per vaccinarsi quindi ce ne sono molti e resta ancora del tempo per farlo, secondo gli esperti, sebbene si andrà a una progressiva diminuzione di casi nelle prossime settimane. Nel frattempo è bene cercare di prevenire il contagio per sé e gli altri applicando delle banali regole igieniche: lavarsi spesso le mani (in assenza di acqua si possono usare gel alcolici); coprirsi bocca e naso con il fazzoletto quando si starnutisce e si tossisce; non recarsi al lavoro o in luoghi frequentati quando si è influenzati; usare la mascherina se si è costretti ad andare in ospedale o dal medico nonostante l’influenza.

 

La cura: riposo, antipiretici e mai antibiotici L’influenza di solito si risolve spontaneamente nel giro di pochi giorni restando a riposo, assumendo bevande calde e un’alimentazione leggera. Salvo complicanze, per esempio a livello respiratorio. In quei casi è necessario rivolgersi al medico. Farmaci antipiretici e antinfiammatori attenuano i sintomi come la febbre e il “male alle ossa”. La somministrazione dei farmaci richiede particolare attenzione per i bambini, le donne in gravidanza e le persone affette da qualche patologia. Da non dimenticare mai: gli antibiotici non sono solo inutili, ma pure dannosi, perché l’influenza è causata da un virus, e contro i virus gli antibiotici non possono fare nulla, tranne nel caso di complicazioni batteriche che devono essere diagnosticate da un medico.


Farmaci per le malattie tropicali neglette: l'appello degli specialisti

Istituzioni e Centri impegnati nella cura delle malattie tropicali in Italia si sono incontrati a Verona nel congresso organizzato dall’ospedale Sacro Cuore-Don Calabria. Un video raccoglie le interviste ai protagonisti dell’evento

Ora o mai più. È questo il momento di arrivare al riconoscimento, anche in Italia, dei farmaci essenziali per la cura delle malattie tropicali. Farmaci che in alcuni casi non rientrano nemmeno nel prontuario farmaceutico nazionale, pur essendo raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e nonostante siano farmaci indispensabili per la cura di patologie di importazione che negli ultimi anni sono ricomparse anche nel nostro Paese.

Il messaggio è emerso con forza durante il congresso “Ivermectin days”, organizzato dal Centro per le Malattie Tropicali dell’ospedale Sacro Cuore-Don Calabria, diretto dal dottor Zeno Bisoffi, per affrontare il problema dell’accesso ai farmaci per le malattie tropicali neglette (vedi articolo di approfondimento).

Nel video qui sotto sono raccolte le interviste ad alcuni protagonisti dell’evento, al quale hanno partecipato tutti i principali attori coinvolti, dal Ministero della Salute all’Istituto Farmaceutico Militare di Firenze, dall’OMS ai Centri che si occupano direttamente di queste patologie, dalle principali ONG in ambito sanitario alla Società Italiana di Medicina Tropicale.

Video a cura di

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Il suo nome è Piercarlo ed è un "miracolo" di Natale

Era il 26 dicembre di sette anni fa quando il bimbo arrivò in Pediatria in gravissime condizioni a causa della malaria contratta in Costa D’Avorio. Tutti gli anni ritorna a Negrar per abbracciare il sui “angeli in camice bianco”

Lui era un fagottino di due mesi e non ricorda nulla di quel terribile Santo Stefano di sette anni fa, quando arrivò a Negrar in preda alla malaria. Ma per i suoi genitori e per i medici e gli infermieri della Pediatria del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dal dottor Antonio Deganello, Piercarlo Bertolini rimane un “miracolo di Natale”. E come accade spesso, quando le storie hanno un lieto fine, è bello ritrovarsi periodicamente per ricordare i brutti momenti, ma anche per rinnovare la gratitudine di averli superati assieme.

Un “amarcord” che si è ripetuto anche quest’anno con la visita di Piercarlo e dei suoi genitori, Lorenzo e Cynthia, agli “angeli in camice bianco”, che il 26 dicembre del 2010 soccorsero il piccolo in gravi condizioni (nella foto di copertina Piercarlo è il bambino con la maglia gialla accanto al dottor Zavarise).

“Il bambino arrivò a mezzogiorno da Modena – racconta il dottor Zavarise -. Eravamo stati allertati dallo zio medico da cui i genitori, con i cinque figli, si erano recati per le feste natalizie. Secondo il parere del fratello di Lorenzo Bertolini (che ora vive con la famiglia negli Stati Uniti) era malaria e aveva ragione perché il piccolo accolto dal medico di guardia, la dottoressa Daniela Benini, presentava febbre molto alta, e una compromissione fisica generale: non mangiava e non beveva più. Fu il laboratorio del Centro per le Malattie Tropicali a confermare in brevissimo tempo la diagnosi“.

Piercarlo aveva contratto la malattia in Costa d’Avorio dove i genitori, funzionari della Banca Mondiale, si erano trasferiti da Washington per lavoro. “Le condizioni del bambino erano molto gravi – prosegue Zavarise – e decidemmo di trattarlo con l’Artesunato, un farmaco che in Italia (ma anche nel resto d’Europa) ancora oggi non è registrato ed è necessario acquistarlo in CinaGrazie al Centro per le Malattie Tropicali avevamo utilizzato il farmaco per altri casi, ma mai per pazienti in così tenera età. L’alternativa è il Chinino, che però è meno efficace in caso di malaria grave e fa effetto dopo un lasso di tempo che Piercarlo non poteva permettersi“.

La scelta si dimostrò quella giusta, perché già la mattina del 27 dicembre la febbre era sparita. Una settimana dopo Piercarlo era già tornato a casa senza nessuna conseguenza (in Photo Gallery il momento delle dimissioni).

“E’ una vicenda che ricordiamo tutti con grande emozione – sottolinea il pediatra -. La storia di Piercarlo rimane un “Christmas miracle”, come ama ripetere la mamma Cynthia. I suoi genitori sono molto credenti e quel 26 dicembre chiesero le preghiere dei gruppi che frequentano la loro chiesa a Washington”.

La malaria provoca nei Paesi in cui è endemica mezzo milione di morti all’annoIn Africa è tra le prime cause di morte, soprattutto per i bambini, insieme alle infezioni del tratto respiratorio, le diarree, la tubercolosi e il morbillo. Questo dovrebbe far riflettere in un momento di acceso dibattito, non sempre razionale, sui vaccini.

“Ogni anno vediamo una decina di piccoli pazienti affetti da di malaria – dice il dottor Zavarise -. Sono bambini nati in Italia che si recano nel Paese di origine dei genitori, viaggi oggi facilitati dal costo contenuto dei voli low cost. Rispetto a qualche anno fa il numero dei casi è diminuito in quanto si sta diffondendo anche tra i migranti la cultura della profilassi. Per quanto riguarda i bambini italiani viaggiatori, abbiamo avuto un solo caso l’anno scorso“.

La malaria è una malattia infettiva, ma non contagiosa ed è causata dal parassita Plasmodium (la forma mortale è provocata dal Plasmodium falciparum). La malattia si trasmette attraverso le punture di zanzare infette della specie Anopheles, zanzare che non sono presenti in Italia, ma vivono in Africa, in America Centrale e del Sud ed in Asia. La malattia può essere trasmessa anche per via ematica (puntura accidentale di ago infetto o trasfusione) o da madre a figlio durante la gestazione.

elena. zuppini@sacrocuore.it

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Natale: Dio si rivela nella fragilità di un bimbo

Dall’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria l’augurio di un sereno Natale con la riflessione di padre Miguel Tofful, superiore generale dei Poveri Servi della Divina Provvidenza

La riflessione che propongo in occasione del Natale 2017 ha come tema centrale la fragilità (un argomento che presento nella mia ultima lettera La gioia della profezia). La festa del Natale è un’occasione meravigliosa per renderci conto di quanto sia importante nella nostra vita fermarci e fare silenzio per accogliere dal più profondo del cuore il significato della nascita di Gesù.

 

 

Il mondo oggi valorizza molto l’apparenza, la forza, l’esteriorità e tutto quello che si mostra potente, bello e straordinario; nasconde invece le debolezze e le fragilità. Nasconderle, è un atteggiamento quasi istintivo, per ciascuno di noi. Invece l’esperienza della fragilità è insita nella nostra natura e la sperimentiamo fin dal primo momento della nostra esistenza. Siamo esseri vulnerabili. Usando un linguaggio biblico, possiamo dire che siamo “terra e polvere”.

 

In un certo senso la scienza e la tecnica ci fanno anche credere che tutto si possa “aggiustare”, “sostituire”, “mutare” per “apparire e vivere meglio”, per essere sempre belli e giovani, per essere felici. Questo non significa che non si debba lottare contro la malattia per offrire qualità di vita e dare speranza alle persone. Anzi! E’ un dovere umano e cristiano.

 

 

Tuttavia la fragilità, proprio perché connaturata alla nostra condizione umana, gioca un ruolo importante nella nostra umanizzazione e nella nostra crescita spirituale. Non sapere tutto, non poterlo controllare o dominare è una cosa buona, non un limite o una barriera, perché ci spinge e ci permette di creare relazioni, di mettere in atto processi di solidarietà, complementarietà e comunione nella diversità e reciprocità. Dalla nostra condizione di fragilità deriva la capacità di entrare in relazione con gli altri e soprattutto con l’Altro.

 

“Quando sono debole (fragile), è allora che sono forte” ci ricorda San Paolo. Dio stesso pur potendo salvare il mondo da solo, sceglie la via della fragilità, dell’incarnazione e della collaborazione dell’uomo nel piano salvifico. Cerca la cooperazione dell’umanità, della nostra umanità, crea relazioni, in altre parole Lui che poteva tutto si fa aiutare dagli uomini e chiede la nostra collaborazione. È un mistero grande questo atteggiamento di Dio, anche difficile da capire in un mondo tanto individualista. La scelta di un Dio che prende la via della fragilità per manifestare la sua salvezza ci sconvolge.

 

 

Propongo tre passi significativi partendo dall’invito della Parola di Dio per aiutarci nella nostra riflessione e preparazione al Natale:

 

“E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero la più piccola delle città di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo Israele” (Mt. 2,6).

 

Bellissima questa profezia di Michèa, che ci svela il senso profondo dell’agire di Dio: la sua preferenza per ciò che non conta agli occhi del mondo, di ciò che è umile, di ciò che è piccolo e nascosto. E perché questa preferenza di Dio? Perché possa risplendere con evidenza la grandezza della sua potenza, del suo amore misericordioso.

 

 

Il Dio che si rivela nella Sacra Scrittura ama e non si scandalizza dei piccoli e dei limiti. Lui di solito sceglie i luoghi più piccoli per manifestarsi, che la sua presenza rende grandi. Betlemme era la più piccola e meno considerata città di Giuda, ma per Dio non è piccola. Ciò che rende piccola o grande una realtà non è l’apparenza esterna come la nostra logica ci può indicare. È Lui che rende grande ogni realtà geografica e umana. Per Dio contano altri criteri.

 

 

Perché Betlemme essendo materialmente piccola non lo è agli occhi di Dio? Perché ha la capacità di accogliere il Salvatore, perché nonostante la sua insignificanza geografica, la sua fragilità apparente, ha una forza, una dinamica e una potenzialità che la rende all’altezza di ricevere e di accogliere. Una capacità che Dio non cancella mai, è sempre insita nei nostri cuori.

Anche noi, ogni giorno ci troviamo a fare i conti con l’esperienza della “piccolezza”, della fragilità umana, della vulnerabilità nostra e degli altri. Come diceva Don Calabria: “Zero e miseria, buone condizioni”. Anche San Giovanni sentiva i suoi limiti e la sua fragilità, ma Dio ha fatto un monumento alla sua misericordia usando proprio l’umanità fragile di don Calabria.

 

 

Dio, l’Onnipotente si fa Bambino… abbraccia me, sceglie di farsi bisognoso di tutto, così vicino alla mia esperienza perché io possa accoglierlo, senza nessuna paura… Dio si fa fragile come me! Lui non ha paura della mia fragilità… perché io non ne abbia paura, più ancora, perché io lo incontri e lo porti nella mia fragilità.

 

 

Il Natale ci ricorda che Dio abita la fragilità, questo è il grande segno che ricevono i pastori che corrono per incontrare il Salvatore e sono pieni di luce.

 

 

“Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoria” (Lc. 2,12)

 

 

Come allora, oggi viene rivelato a noi in modo significativo quanto manifestato ai pastori nella notte della nascita di Gesù in Betlemme, perché il Natale è la celebrazione di questo grande evento accaduto per tutta l’umanità: la nascita del Salvatore.

 

 

“Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoria” (Lc. 2,10-12).

 

Una notizia così eclatante, un annuncio di grande gioia, fatto con importante solennità per indicare la nascita di un Salvatore, si riduce poi a un segno a prima vista insignificante: “Troverete un bambino avvolto in fasce”.

 

L’incontro con il bambino avvolto in fasce e adagiato in una mangiatoia, ci rende più umani e illumina oggi la nostra vita. Questo bambino esprime la scelta di Dio di abitare nella fragilità. Un Dio che spiega con questo segno cosa significa la fragilità e cosa significa prendersi cura della fragilità dell’altro: diventando fasce di amore concreto che abbraccia e accoglie.

 

Sono tante oggi le forme di fragilità dove Dio abita, dove Dio si manifesta e che incontriamo e tocchiamo con mano ogni giorno. Siamo invitati ad avvolgerle con le fasce dell’amore e la tenerezza, prendendoci cura di esse.

 

 

La fragilità del bambino di Betlemme è un invito a guardare le nostre fragilità che Gesù ha abbracciato e amato sin dall’inizio, e di andare incontro alle condizioni di fragilità e alle ferite dell’uomo del nostro tempo, come ci ricorda frequentemente papa Francesco.

 

Anche don Calabria è stato un innamorato dell’umanità fragile di Gesù incarnato. I suoi grandi amori e la sua mistica partivano dalla grotta del presepe, passando per l’eucaristia fino la croce. Anche lui ha saputo riconoscere Gesù nel piccolo bambino che ha accolto tra gli stracci e nelle tante altre persone che ha accolto con profonda tenerezza, prendendosi cura di loro.

 

Noi membri della Famiglia Calabriana oggi non possiamo soltanto farci abbagliare da cose grandi ed eclatanti per scoprire la meraviglia di un Dio che abita in mezzo a noi. Lui si manifesta nella semplicità e nella piccolezza di un bambino.

 

 

Contemplare Gesù nella mangiatoia avvolto in fasce, toccando con mano la sua fragilità e quella di tanti nostri fratelli e sorelle, ci rende più umani, più vicini, meno giudicanti e pieni di gioia, capaci di sorriso e di tenerezza. Questa è la strada che Lui ha scelto per abitare in mezzo a noi.

 

 

“Alzati, prendi con te il bambino e sua madre …” (Mt. 2,13)

 

 

In questo brano troviamo la Parola e l’ordine che Dio rivolge a Giuseppe dopo la nascita di Gesù a Betlemme: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre”. Un invito che Dio aveva già rivolto a Giuseppe, quando il falegname aveva saputo che Maria aspettava un figlio. Giuseppe nelle due occasioni ha risposto positivamente accogliendo il bambino e sua madre. Questo stesso invito viene rivolto a tutti noi in questo Natale: prendi con te il bambino e sua madre…

 

 

Quale bambino? Quello del presepe, che abbiamo addobbato e preparato in casa? Il bambino ideale, pieno di poesia e di sentimentalismo? Il bambino della superficialità commerciale di queste feste? No! Prendi il bambino che si rivela nella tua fragilità, abbraccialo e portalo con te nell’accettazione dei tuoi limiti. Prendi il bambino che si rivela nella fragilità della tua famiglia nel quotidiano. Prendi il bambino che si manifesta nella situazione di sofferenza che ti coinvolge. Prendi il bambino che si mostra nella fragilità degli altri e che tu non supporti e non accetti. Prendi il bambino che trovi nello sguardo della persona che si rivolge a te. Prendi il bambino nell’umanità e nei gesti concreti delle persone. Prendi il bambino che compromette la tua vita e ti scomoda non lasciandoti in pace. Prendi quel Gesù che ti è stato donato ed è arrivato in maniera imprevista. Quel Gesù che non hai scelto e che sarà il tuo salvatore, perché le situazioni che non si scelgono ma ci si trova a vivere, possono diventare la nostra salvezza. Prendi con te Gesù che è presente nella tua vita. È qui che il Signore ti chiama a una fedeltà nuova. Ecco il bambino che si rivela nella fragilità e diventa per noi salvezza quando è accolto nella nostra umanità rendendoci più umani.

Giuseppe sa che Gesù è il figlio di Dio. È un bambino da custodire, da proteggere e da amare. Questo bambino ha il segno della fragilità ma ha dentro di sé la potenza di Dio. Noi siamo invitati a custodirlo, custodendo la nostra fede quando viene minacciata. Custodire e amare Gesù amando la nostra vocazione e il nostro servizio verso gli altri nel lavoro quotidiano.

 

Proviamo in questo Natale a guardare il bambino che giace nella mangiatoia avvolto in fasce per renderci più consapevoli della nostra fragilità e sensibili alle fragilità degli altri, per costruire un mondo e una società nuova dove regni l’amore e il rispetto per tutti e non l’odio e la prepotenza. Per essere segno e profezia di un amore pieno che manifesta la paternità di Dio che abita fra noi.

 

 

Concludo con questa bellissima preghiera che parla di un Dio che sceglie la via della fragilità e della debolezza per nascere in mezzo a noi dando il vero significato alla nostra vita.

Sono nato nudo, dice Dio, perché tu sappia spogliarti di te stesso.

Sono nato povero, perché tu possa considerarmi l’unica ricchezza.

Sono nato in una stalla, perché tu impari a santificare ogni ambiente.

Sono nato debole, dice Dio, perché tu non abbia mai paura di me.

Sono nato per amore, perché tu non dubiti mai del mio amore.

Sono nato di notte, perché tu creda che io posso illuminare qualsiasi realtà.

Sono nato persona, dice Dio, perché tu non abbia mai a vergognarti di essere te stesso.

Sono nato uomo, perché tu possa essere “dio”.

Sono nato perseguitato, perché tu sappia accettare le difficoltà.

Sono nato nella semplicità, perché tu smetta di essere complicato.

Sono nato nella tua vita, dice Dio, per portare tutti alla casa del Padre.

 

p. Miguel Tofful


Un ambulatorio che indaga le cause della "fame d'aria"

La dispnea può essere il campanello d’allarme di una patologia polmonare o cardiologica: al “Sacro Cuore Don Calabria” un percorso che facilita il paziente nella diagnosi

“Dottore, quando faccio uno sforzo ho il fiato corto”. E’ una delle espressioni più ricorrenti con cui i pazienti raccontano la dispnea, la sensazione soggettiva di difficoltà dell’atto respiratorio, non necessariamente sotto sforzo.

 

Spesso viene sottovalutata; si attende che passi; la si incolpa al sovrappeso, al raffreddore, alla mancanza di allenamento o al cambiamento del tempo e anche allo smog. Ma quando la sensazione di “fame d’aria” persiste e non si risolve spontaneamente in un breve lasso di tempo, può essere il campanello d’allarme di una patologia respiratoria oppure cardiaca, ma non è nemmeno da escludere una malattia muscolare o metabolica.

 

Al “Sacro Cuore Don Calabria”, nell’ambito della Pneumologia, di cui è responsabile il dottor Carlo Pomari, è attivo un ambulatorio multidisciplinare per lo studio della dispnea, che vede la collaborazione del pneumologo con il cardiologo.

 

 

“L’obiettivo dell’ambulatorio – spiega Pomari – è quello di ottenere una diagnosi completa dell’origine della dispnea, entro breve tempo, risparmiando così al paziente un tortuoso percorso tra gli esami necessari con il rischio che a trarre le conclusioni non sia una figura medica adeguata”.

 

Il paziente preso in carico dall’ambulatorio viene sottoposto inizialmente, tramite una serie di esami che avvengono nello stesso giorno, all’analisi dei flussi e dei volumi respiratori e della diffusione alveolo capillare (pletismografia corporea).

 

“Se dalle prove emerge qualche anomalia – prosegue il medico – si procede con ulteriori indagini a livello polmonare al fine di comprendere la causa dei valori alterati”. Se invece la pletismografia corporea è normale, il paziente nello stesso giorno prosegue il suo percorso e viene sottoposto alla visita cardiologica a cui segue l’Ecocardiocolordoppler.

“Di fronte ad un ulteriore esito negativo – sottolinea il dottor Pomari – si passa all’esame cardiopolmonare, cioè l’ergospirometria”. Si tratta di un test da sforzo eseguito con il paziente su una cyclette (cicloergometro) o su un tapis roulant.

 

“Durante la prova viene intensificato progressivamente lo sforzo fisico del paziente mediante l’aumento della resistenza opposta alla pedalata dal cicloergometro o attraverso l’incremento della velocità e della pendenza del tapis roulant – illustra il pneumologo -. Nel corso dell’esame vengono misurati i volumi polmonari e la diffusione alveolocapillare e nello stesso tempo l’attività elettrica del cuore tramite elettrocardiogramma. Il test viene interrotto dal paziente perché esausto dallo sforzo o dal cardiologo a causa di alterazioni cardiografiche che indicano una sofferenza del miocardio oppure in caso di bronco ostruzione acuta da sforzo in presenza di asma bronchiale”.

 

Ma se anche gli accertamenti cardiologici non rilevano alcuna anomalia? “Non sempre c’è una patologia in atto – sottolinea il dottor Pomari -. A volte l’unica indicazione che diamo al paziente è quella di perdere peso o di fare movimento, perché la dispnea è provocata da mancanza di allenamento o dal sovrappeso. L’importante è che siano accertate le cause oggettive di questa “fame d’aria” e questo può avvenire solo con degli esami specialistici. Tuttavia escluse le malattie polmonari (asma o BPCO) e quelle cardiologiche – conclude il pneumologo – il medico deve valutare se ci possono essere altre cause, ad esempio osteomuscolari, come nelle malattie reumatologiche, o metaboliche, come il diabete, o l’ipertensione polmonare primitiva e procedere ad ulteriori accertamenti”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Cardiologia: oltre mille pazienti controllati a distanza

Dal 2008 cresce ogni anno il numero di pazienti con defibrillatori, pacemaker o loop recorder monitorati a distanza, senza muoversi da casa, grazie alla telemedicina, tecnologia rispetto alla quale la Cardiologia di Negrar è un centro all’avanguardia

Sono più di mille i pazienti della Cardiologia del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dal professor Enrico Barbieri, “controllati” a distanza grazie alla “telemedicina”. Sono uomini e donne ai quali è stato impiantato un pacemaker o un defibrillatore oppure un piccolissimo registratore, denominato “Loop Recorder”, in grado di monitorare fino a tre anni il comportamento del cuore.

Dal 2008 i pazienti portatori di dispositivi non devono più andare periodicamente in ospedale per “scaricare” dai loro apparecchi i dati fondamentali per il cardiologo al fine di valutare eventuali anomalie cardiache e il corretto funzionamento dei dispositivi stessi.

Alla comodità si aggiunge, cosa più importante, un’ulteriore sicurezza per il paziente. “Prima di introdurre il controllo da remoto, i pazienti si recavano in Cardiologia ogni 3/6 mesi e ogni 6/12 mesi rispettivamente per i portatori di defibrillatori e pacemaker, al fine di controllare i loro dispositivi. Oggi abbiamo la possibilità di un monitoraggio potenzialmente giornaliero e senza che il paziente si muova da casa”, spiega il dottor Giulio Molon, responsabile del Servizio di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione di Negrar.

 

Ma come avviene il controllo da remoto? Ogni paziente viene fornito a domicilio di un ‘comunicatore’ in grado di scaricare e spedire i dati semplicemente sostando accanto ad esso, grazie ad una ‘antenna’ di cui sono dotati i pacemaker, i defibrillatori e l’impianto di monitoraggio cardiaco.

“Automaticamente i dati vengono inviati al server dell’Azienda che ci fornisce i dispositivi, a cui noi abbiamo accesso tramite una password – prosegue il dottor Molon -. Al paziente viene precedentemente fatto firmare il consenso informato e nel pieno rispetto della normativa della privacy ci viene consentito di prendere in visione solo le informazioni relative ai nostri assistititi”.

Il numero notevole di pazienti coinvolti in questo servizio non consente un controllo giornaliero sistematico delle informazioni acquisite dal server. “E’ necessario distinguere i pazienti con pacemaker e defibrillatori da coloro a cui è stato inserito un monitoraggio cardiaco – precisa Molon -. I primi sono in terapia e i loro dispositivi sono dei salvavita. I secondi sono monitorati per effettuare una diagnosi. Pertanto per i defibrillatori e i pacemaker stabiliamo dei giorni precisi in cui il paziente deve sostare obbligatoriamente davanti al ‘comunicatore’ per inviarci i dati. Il valore aggiunto del controllo remoto per tutti e tre gli impianti è dato dalla piattaforma informatica che ci consente di selezionare giornalmente i pazienti che hanno avuto episodi critici o relativi al funzionamento degli apparecchi (per esempio la batteria in esaurimento) da tutti gli altri. E contattarli, se è necessario”.

Come è avvenuto poche settimane fa, quando il controllo remoto ha segnalato per un paziente una fibrillazione ventricolare, aritmia maligna, risolta immediatamente dal defibrillatore. “Era successo di notte e la mattina dopo lo abbiamo subito contattato telefonicamente – racconta il cardiologo -. Dormiva e non si era accorto di nulla. Senza il defibrillatore sarebbe morto”. Un episodio da cui prende spunto il dottor Molon per ribadire che “i dispositivi salvavita sono i pacemaker e i defibrillatori, non il ‘comunicatore’. Questo registra e invia i dati, ma non è in contatto con il 118 che deve essere chiamato in caso di necessità e non è un sostituto degli apparecchi di telesoccorso”.

Anche se il veloce sviluppo della tecnologia in questo campo, non esclude che in un prossimo futuro questo possa avvenire. “Già adesso il ‘comunicatore’ può essere sostituito da uno smartphone o un tablet – precisa Molon -, sebbene sia ancora necessario un mediatore, che, avvicinato al pacemaker o al defibrillatore, è in grado di inviare i dati all’app dello smartphone o al tablet collegata al server del controllo remoto. Si tratta di un momento di passaggio. Infatti è già disponibile un pacemaker dotato di bluetooth che si collega direttamente con il cellulare e da lì al server del controllo remoto. Noi saremo tra i centri che lo useranno in anteprima, vista la grande esperienza acquisita in questi anni. Credo che ci siano tutte le condizioni perché il contatto possa avvenire anche con la centrale del 118 o con altri numeri. Sarebbe un dispositivo di sicurezza eccezionale in caso di malori improvvisi”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

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Cancro al seno: diagnosi più accurate con l'Ecografia 3D

Si chiama ABVS e a differenza dell’Ecografia tradizionale acquisisce le immagini tridimensionali dell’intero volume della mammella, in modo oggettivo, cioè indipendentemente dall’esperienza del medico, fornendo maggiori informazioni diagnostiche

Da alcuni mesi la Sezione di Senologia del Servizio di Diagnostica per immagini dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Giovanni Carbognin, dispone di un sistema ecografico volumetrico, noto come ABVS (Automated Breast Volume Scanner) o ecografia robotica.

Una risorsa importante per lo studio del tumore alla mammella, in grado di aumentare la accuratezza diagnostica e fornire informazioni preziose al chirurgo che deve eseguire l’intervento.

“Rispetto ai sistemi ecografici tradizionali – spiega il dottor Carbognin – l’ABVS agisce come un’indagine TC, quindi trasforma l’ecografia da metodica soggettiva, cioè dipendente dall’esperienza dell’operatore, a metodica oggettiva”.

Si tratta di un apparecchio dotato di braccio robotizzato con sonda ad alta risoluzione che viene appoggiata sulla mammella e acquisisce con tre scansioni in pochi minuti, indipendentemente dal medico, un volume che può essere visualizzato come singole immagini in tutti i piani dello spazio attraverso monitor dedicati.

“La risoluzione delle immagini è decisamente migliore – prosegue il medico radiologo – di conseguenza lo sono le informazioni diagnostiche ottenibili. Il processo è simile a quanto viene già ottenuto con i mammografi tridimensionali con Tomosintesi, da tempo in dotazione nella nostra Sezione di Radio-Senologia”.

Ma quando viene impiegata l’ecografia tridimensionale? “L’ABVS è indicato in generale nelle donne, quasi sempre giovani, con seno denso, e innanzitutto per pazienti affette da carcinoma mammario al fine della stadiazione locale – risponde il dottor Carbognin – in particolare nelle lesioni complesse o in quelle in cui non sia chiara la sede o l’estensione della lesione tumorale nell’esame ecografico tradizionale”.

L’ecografia robotica viene utilizzata anche per una migliore valutazione della cicatrice nelle donne operate al seno, soprattutto nei casi dubbi di una possibile recidiva della malattia.

Si dimostra molto efficace come ‘seconda opinione’ quando dalla Risonanza Magnetica delle mammelle emerge qualche elemento di sospetto, ma anche nelle donne molto giovani che presentano mammelle con numerosi fibroadenomi (la forma di tumore al seno benigna più diffusa e più frequente nelle donne sotto i 30 anni, ndr), per consentirne un più accurato follow up. Infine, come ‘second-opinion’ grazie alla possibilità di invio e revisione dei volumi acquisiti da parte di un altro specialista“, conclude il dottor Carbognin,

L’ecografia tridimensionale completa l’offerta diagnostica della Sezione di Radio-Senologia, che dispone anche di due mammografi digitali con Tomosintesi. La mammografia digitale con Tomosintesi consente, a differenza di quella eseguita dai mammografi tradizionali (o bidimensionali), l’acquisizione in 3D delle immagini mammografiche, sezionando, come una TC, in strati sottilissimi, il volume della mammella.

Secondo studi più recenti – spiega ancora il primario – questa metodica è in grado di incrementare significativamente sensibilità ed accuratezza diagnostiche nelle neoplasie non palpabili. Inoltre, i mammografi sono dotati di Stereotassi con Tomosintesi, sistema che consente di ‘guidare’ le procedure interventistiche mini-invasive della mammella, come il centraggio preoperatorio o come il sofisticato prelievo di tessuto mammario con tecnica ‘vuoto assistita’, in modo molto più veloce e preciso”.

L’esame senologico all’ospedale di Negrar prevede di routine anche l’ecografia grazie alla disponibilità di due apparecchi di alta fascia tarati specificatamente per la senologia. Vi accedono tutte le donne dopo aver effettuato la mammografia o come primo esame per quelle giovani (sotto i 30 anni) che non presentano sintomi.

La Sezione di Senologia ha, inoltre, accesso a tre apparecchi di Risonanza Magnetica ad alto campo (1,5 Tesla).

Nel 2016 sono state seguite circa 15mila donne e sono stati condotti: 13mila esami senologici completi, 655 aghi aspirati, 365 prelievi con tecnica “vuoto assistita” (con guida Ecografica, Tomografica o di Risonanza Magnetica), e 350 indagini RM delle mammelle con mezzo di contrasto

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Il Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica di Verona e Rovigo presenta la sua attività

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Giovedì 7 dicembre il Comitato Etico delle due province venete e il Nucleo di Ricerca Clinica si confrontano in un convegno con tutti gli attori della sperimentazione clinica

L’attività del Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica (CESC) delle province di Verona e Rovigo sarà presentata giovedì 7 dicembre in un convegno all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria(vedi programma allegato). L’incontro rientra tra le iniziative di formazione in materia di sperimentazione clinica promosse dai Comitati Etici e destinate agli operatori sanitari e si propone di presentare le procedure e le modalità di lavoro del CESC e del Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar. L’obiettivo dell’incontro è quello formulare proposte condivise di miglioramento – a partire da un confronto aperto tra sperimentatori, promotori e Regione Veneto – sulle criticità nell’iter autorizzativo di una sperimentazione.

I componenti dei CESC sono tecnici/specialisti (medici, farmacisti, bioeticisti, statistici, solo per citarne alcuni), ma anche rappresentanti dei malati. E sono proprio i pazienti ad essere al centro dell’interesse dei Comitati Etici per la Sperimentazione Clinica, come viene sottolineato dal decreto ministeriale di istituzione dei CESC, secondo il quale i Comitati Etici sono “organismi indipendenti che hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere delle persone in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tutela”. Tutelano quindi i malati che entrano in uno studio clinico sperimentale, ma anche tutti noi come possibili fruitori in futuro di quel farmaco o di quel dispositivo medico, quando approvati.

Ogni nuovo farmaco per essere immesso in commercio deve superare quattro fasi di valutazione clinica, ognuna delle quali necessita di specifici protocolli di sperimentazione che devono essere presentati e approvati dai Comitati Etici. Si inizia dalla prima fase su volontari sani o su categorie mirate di pazienti che richiedono una certa terapia (oncologici o patologie rare), per passare alla seconda e alla terza fase che riguardano l’efficacia e la sicurezza dell’impiego del farmaco. La fase conclusiva, la quarta, viene definita “post-marketing” e consiste nel monitoraggio del farmaco sulla popolazione generale per evidenziare eventuali effetti non riscontrabili in popolazioni mirate.

Il parere del CESC è vincolante e si basa sulla garanzia che i pazienti vengano informati sui rischi e sui benefici a cui potrebbero andare incontro con la partecipazione agli studi clinici sperimentali. Ma esso mira anche a far comprendere che la corretta rilevazione dei dati e la precisa interpretazione dei risultati da parte degli sperimentatori possono portare a vantaggi che vanno oltre il singolo individuo, ma coinvolgono l’intera società.

La valutazione dei CESC può riguardare protocolli non solo su farmaci ma anche su dispositivi medici o nuove procedure terapeutiche.

I protocolli sperimentali o osservazionali, una volta approvati dal CESC, richiedono un monitoraggio che viene svolto prevalentemente dagli sponsor degli studi e dai Nuclei per la Ricerca Clinica (NRC), presenti a Verona presso l’ULSS9, l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona e l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

Compito del NRC è verificare la correttezza del protocollo di sperimentazione, coordinarsi con gli sperimentatori sulla stesura del protocollo e completezza della documentazione, presentare gli studi al CESC, monitorare la sperimentazione nel tempo e formalizzare i contratti con gli sponsor degli studi clinici.

La segreteria del CESC, invece, verifica tutta la documentazione, struttura l’istruttoria per i componenti del comitato, tiene i contatti con gli enti regolatori (AIFA, ISS, Ministero della Salute),con gli sponsor e con i NRC, redige i verbali che danno avvio alla sperimentazione.

Nel corso del 2016 il “Sacro Cuore Don Calabria” si è collocato al secondo posto tra i centri afferenti al CESC delle province di Verona e di Rovigo dopo l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. A novembre del 2017 sono 81 gli studi su cui ha lavorato il Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar per la presentazione al CESC.


Quando la disabilità arriva all'improvviso

In occasione della Giornata internazionale della disabilità, che si celebra il 3 dicembre, siamo andati nel reparto di Riabilitazione Intensiva dove vengono ricoverati per lunghi mesi i gravi lesionati midollari e le persone colpite da trauma cranico.

Il reparto di Riabilitazione Intensiva dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria è abitato da uno dei tanti volti della disabilità. Quella che una persona non porta con sé dalla nascita, ma arriva all’improvviso per un evento traumatico o per una patologia neurologica acuta. Un fulmine che trasporta repentinamente l’individuo da uno stato di benessere e di piena autonomia alla parziale o totale dipendenza.

La struttura è costituita dall’Unità Gravi Cerebrolesi e dall’Unità Spinale, dove afferiscono le persone con lesioni midollari. Giungono a Negrar, circa 110 all’anno, dalla Terapia Intensiva Neurochirurgica o dalla Neurochirurgia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona con l’obiettivo di raggiungere la migliore qualità di vita in relazione alle mutate condizioni di salute.

Sono soprattutto giovani vittime che presentano danni neurologici acuti dovuti a traumatismo o eventi ischemici, emorragici, tumorali, infiammatori, infettivi o per mancanza di ossigeno a causa di infarto. Il lavoro di riabilitazione è una salita che dura in media quattro e sette mesi rispettivamente per i lesionati midollari paraplegici e quelli tetraplegici e tre mesi per i pazienti cerebrolesi.

L’attività dei medici di reparto – ne fanno parte un internista, un neurologo, due neurochirurghi e due fisiatri – è quella di, in stretta collaborazione con il personale infermieristico e di supporto, ricercare una stabilizzazione clinica del paziente affinché possa utilizzare al meglio le capacità residue per ridurre la dipenza.

La presa in carico del paziente è multidisciplinare: un’équipe composta da psicologa, fisioterapista del motorio e del cognitivo, infermiere, assistente sociale, medico, logopedista, arteterapeuta favoriscono la creazione di un programma personalizzato non solo dal punto di vista riabilitativo, ma per il reinserimento in famiglia, nella scuola e nel mondo del lavoro. In altre parole per aiutare il paziente a “nascere” una seconda volta, ad avere una vita completa nonostante la disabilità.

Un traguardo in generale non facile da raggiungere in un mondo in cui le barriere fisiche e sociali stentano a cadere, come viene ribadito ogni anno il 3 dicembre in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità.

“Per comprendere di cosa hanno bisogno le persone affette da una disabilità acquisita di cui io mi occupo – spiega il dottor Giuseppe Armani, direttore del reparto – è necessario focalizzarsi sia su cosa queste persone hanno perso. La loro vita e quella delle loro famiglie è stata improvvisamente sconvolta. I risvolti psicologici sono enormi, ma spesso ci si dimentica di quelli pratici che se non risolti comportano delle ripercussioni importanti sul paziente e sul suo nucleo familiare”.

Il problema si presenta soprattutto al momento delle dimissioni dall’ospedale.

“I più giovani quasi sempre fanno ritorno a casa – prosegue -. Ma spesso i genitori sono anziani e, a causa della mutazione storica della famiglia, non sono supportati da una rete parentale allargata. Lo stesso problema si presenta al coniuge. Ancora più difficile è la situazione di chi vive da solo”. A tutto questo si aggiunge l’impegno economico per riadattare la casa alle nuove esigenze o addirittura per trasferirsi in un alloggio più adatto.

“Come ospedale “Sacro Cuore” siamo collegati con il Centro Polifunzionale Don Calabria di Verona – spiega ancora il dottor Armani – che comprende un Presidio di Riabilitazione extraospedaliera realtà del Dipartimento Riabilitativo, di cui facciamo parte e diretto dal dottor Renato Avesani. Qui diversi nostri pazienti, una volta dimessi, proseguono la riabilitazione dal lunedì al venerdì, ritornando nelle loro case solo nel fine settimana. Sicuramente è un elemento di sollievo per le famiglie e offre al paziente la possibilità di consolidare il recupero motorio e cognitivo ed apprendere autonomie elevate”.

E i pazienti anziani? “Per loro le dimissioni coincidono spesso con l’ingresso in casa di riposo – continua il medico -. Ma il passaggio non è semplice a causa della quota sanitaria che talora rimane a lungo a carico del paziente. E’ una situazione che mette in serie difficoltà le famiglie e un costo inutile per il Servizio sanitario nazionale. Questi pazienti talora rimangono impropriamente in ospedale anche se il loro percorso riabilitativo si è concluso e, come sappiamo, un posto letto ospedaliero pesa sul bilancio molto di più che l’inserimento in una casa di riposo. Bisognerebbe prevedere l’erogazione di quote sanitarie per il ricovero in strutture protette in relazione alle effettive richieste sul territorio”.

I diritti delle persone disabili rimangono quindi ancora sulla carta? “Lavoro da 27 anni in questo ambito – risponde il dottor Armani – e ho visto un’evoluzione culturale di inclusione della persona disabile. Tuttavia molto resta da fare. Ad iniziare da un sistema che faciliti fisicamente l’accesso e la permanenza in ospedale, nei reparti e ai servizi. Sul piano ancora del reinserimento o ricollocamento lavorativo. O nella scuola dove dovrebbero essere implementate figure di sostegno e di assistenza. E infine nel supporto alle famiglie. Noi aiutiamo le persone a riprendere la maggiore autonomia possibile, ma fuori dall’ospedale ci devono essere le condizioni perché sia pienamente realizzata”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Nella foto parte l’équipe del reparto di Riabilitazione Intensiva: da sinistra Anna Scarpa, dottoressa Silvia Richelli, dottoressa Marcella Rossi, Caterina Sartori, dottor Giuseppe Armani, dottoressa Monica Baiguini, dottor Mauro Menarini, Debora Zanotti, Mariangela Fracaroli, Veronica Hasford, Simone Bajardo, dottor Luigino Corradi

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Sessualità e oncologia: è ora di parlarne

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Il cancro e le terapie per combatterlo spesso si insinuano nella sfera più intima del paziente oncologico, minandone il benessere psicologico. Un convegno al “Sacro Cuore” mette in rilievo quanto il problema meriti l’attenzione di medici e psicologi

A Carla è stato diagnosticato un tumore al seno. Non ha ancora affrontato l’intervento e le successive cure, ma già pensa che ci saranno gravi conseguenze sul suo essere donna e sulla sua vita di coppia, nonostante il marito manifesti nei suoi confronti un atteggiamento rassicurante e protettivo.

Il nome della paziente è di fantasia, ma non la storia. Si tratta di una tra le tante che il dottor Giuseppe Deledda, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica, raccoglie durante i suoi colloqui al primo piano dell’ospedale Don Calabria. Storie di vita che dimostrano quanto quella sessuale sia una sfera in cui il cancro si insinua, anche se non colpisce direttamente organi interessati a questa funzione.

“Il tema della sessualità relativa al paziente oncologico è da sempre poco affrontato nonostante sia molto importante – spiega il dottor Deledda – . La persona malata di cancro durante i suoi percorsi oncologici vive forti ripercussioni in ambito sessuale e inevitabilmente li vive la coppia. Come qualsiasi perdita, anche quella della salute mette in discussione la nostra identità. Provoca cambiamenti nell’immagine corporea, quindi mina la fiducia di piacere all’altro. Tutto questo si ripercuote sulla sessualità e viceversa, perché non essere più in grado o avere difficoltà nei rapporti intimi ha conseguenze sull’identità e su come viene visto il proprio corpo. La sessualità è una sfera non secondaria della nostra vita – sottolinea -. Se subentrano problemi in questo ambito, ne risente tutto il benessere psicologico che per un paziente oncologico è ancora più importante al fine di affrontare la malattia”.

Di sessualità ed oncologia si parlerà lunedì 4 dicembre al “Sacro Cuore Don Calabria” in occasione del convegno organizzato dal Servizio di Psicologia Clinica di Negrar con la Società italiana di Psico-oncologia (Sezione Veneto Trentino Alto Adige), di cui il dottor Deledda è coordinatore, e con la collaborazione e il contributo dell’Ordine degli Psicologi del Veneto e di Trento. (vedi programma)

“La mattinata si aprirà con un’esposizione generale delle varie teorie sull’immagine corporea e della sessualità – illustra il dottor Deledda -. Teorie che poi verranno calate nell’ambito della psiconcologia. La seconda sessione, invece, avrà come protagonisti i medici, oncologi e chirurghi che ci spiegheranno l’impatto dei trattamenti per la cura del tumore sulla sessualità anche alla luce dei farmaci oncologici innovativi e delle tecniche chirurgiche conservative. Si parlerà di neoplasie che colpiscono specificatamente l’uomo e la donna, ma anche di altre forme di cancro – sottolinea -. Infatti spesso le cure farmacologiche provocano cambiamenti fisici, come, per esempio, il gonfiore provocato dal cortisone, o cutanei. Credo che sia molto importante che anche gli psicologi siano informati sull’aspetto medico, per meglio comprendere le ripercussioni psicologiche delle terapie sul paziente”.

Così come, prosegue lo psicologo, “è bene che il medico conosca i disagi psicologici che derivano dagli effetti relativi alla cura della malattia per non fare l’errore di considerarli secondari e per trovare, in collaborazione con lo psiconcologo, le strategie che meglio si adattano a ogni paziente per superarli”.

La giornata avrà come relatore d’eccezione Mary Hughes dell’Anderson Cancer Center di Houston (Texas), infermiera specializzata nell’ambito della sessualità, che terrà una lezione magistrale sulla sessualità e l’intimità dopo il cancro, illustrando le modalità da mettere in atto per il benessere del paziente e quindi della coppia.

Il convegno si concluderà con il conferimento dell’onorificenza SIPO alla dottoressa Eleonora Capovilla, responsabile dell’UOS di Psicologia dell’Istituto Oncologico del Veneto, fondatrice nel Veneto della Società Italiana di Psicologia Oncologica.

elena.zuppini@sacrocuore.it

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