«Gli ammalati, pupilla dei miei occhi»

Con le parole di San Giovanni Calabria, vogliamo esprimere la vicinanza a tutti i pazienti della Cittadella della Carità e a tutte le persone sofferenti in occasione della XXVI Giornata Mondiale del Malato che si celebra oggi

Oggi si celebra la XXVI Giornata Mondiale del malato, evento istituito per la prima volta da papa Giovanni Paolo II nel 1992 nella ricorrenza della Beata Vergine di Lourdes. Quest’anno il tema è la vocazione materna della Chiesa verso le persone bisognose e gli ammalati (vedi discorso di papa Francesco).

 

Una vocazione verso i bisognosi e gli ammalati che anche don Calabria sentì durante tutta la sua vita, fin da quando nel 1895, durante il servizio militare, fu assegnato come assistente all’ospedale militare di Verona. Ecco come parlava degli ammalati in una lettera del 1947, che rappresenta ancora oggi un manifesto programmatico per un ospedale calabriano come il “Sacro Cuore”. Ed è con le parole del santo fondatore che vogliamo dedicare un pensiero a tutti gli ammalati presenti alla Cittadella della Carità in questo giorno a loro dedicato:

 

Fin dalla mia lontana gioventù i malati sono stati sempre la pupilla dei miei occhi, e la bella provvidenziale opera dell’Apostolato degli Infermi ha occupato sempre un posto di privilegio nel mio cuore.La Casa di Negrar: cellula divina, destinata a diventare grande, per accogliere nei suoi padiglioni tanti fratelli ammalati… per valorizzare così, il più possibile… la carità cristiana, unico mezzo per riportare nostro Signore Gesù Cristo nella società di oggi, così turbata e sconvolta“.

 

E se da una parte il santo aveva questo particolare amore per gli ammalati, dall’altra aveva una vera e propria ammirazione per chi era chiamato a prendersi cura dei sofferenti. Nel testo qui sotto, ripreso da un’altra lettera di don Calabria, egli parla del ruolo del medico, attribuendo a questa professione una dignità quasi “divina”. Lo pubblichiamo a beneficio di tutti gli operatori sanitari, affinchè trovino in queste parole rinnovata motivazione per prendersi cura dei fratelli sofferenti:

 

Come voi sapete, sento in me una esuberanza di amore, di stima e di affetto, direi quasi di venerazione, per i Medici; fin dai primi anni del mio ministero sacerdotale ho avuto frequenti occasioni di vedere da vicino, e apprezzare l’opera pietosa del Medico. Non dubito di affermare che, dopo la missione divina del Sacerdote, quella del Medico sia la professione più nobile che il Creatore possa affidare ad un uomo sulla terra. Che cosa è infatti un Medico? E’ diretto collaboratore di Dio autore e conservatore della vita.

[…] Oh, quale merito per il Sanitario, soccorrere il fratello! E quale nobilitazione della scienza e dello studio! Forse mai come nel Medico la scienza ha un ideale più alto e sublime di questo: salvare la vita. Il Medico, allora, appare ed è il ministro di Colui, che disse “Io sono la vita”. Cristo non intendeva solamente la vita dell’anima, che più conta; ma anche quella del corpo, che è tanto preziosa; infatti il corpo è strumento essenziale dell’anima nel servire ed amare l’Autore della vita“.

* Vedi video con la voce di don Calabria che parla della malattia e della sofferenza


"In trentanove anni quante vite ho aiutato a venir al mondo!"

Va in pensione il dottor Sante Burati, responsabile dell’Ostetricia: “Quando ho iniziato era un’altra era: non esisteva l’ecografia e i papà erano lasciati fuori dalla sala parto. Ho sempre invidiato alla donna l’esperienza della maternità”

“Se potessi rinascere donna, lo farei solo per provare l’esperienza della maternità. Dolore del parto escluso, s’intende”. Un delicato peccato d’invidia che il dottor Sante Burati (foto di copertina), 70 anni ad aprile e da circa 20 anni responsabile dell’Ostetricia del Sacro Cuore Don Calabria, nutre da sempre nei confronti del sesso femminile. Perché lui, in 39 anni di medico ginecologo, il ‘venir alle luce’ lo ha visto tante volte, ma quello straordinario passaggio dal dolore più cupo alle gioia immensa che si legge sul viso di una donna, ha potuto sempre sfiorarlo e mai provarlo fino in fondo.

 

“Per un uomo resta un mistero – afferma a pochi giorni dalla sua nuova vita da pensionato -: la stessa donna che un momento prima era sfigurata dalla sofferenza fisica, improvvisamente grazie a quella craturina nelle sue braccia si trasforma, quasi si illumina. Credo che dentro di sé provi un senso straordinario di onnipotenza, datole dal mettere al mondo una nuova vita e nello stesso tempo un’ondata di benessere, gioia e amore che non ha pari in nessun’altra situazione di vita”.

 

Su questo mistero il dottor Burati si è interrogato ogni volta che ha sentito un vagito nelle sue mani. Quante volte? “Non sarei assolutamente in grado di ipotizzare un numero – risponde facendo emergere un sorriso dalla barba bianca -. So solo che da alcuni anni tra le mie gestanti hanno iniziato ad esserci le figlie o le nuore di coloro che ho aiutate a mettere al mondo”.

 

Il dottor Burati è arrivato a Negrar il 1° giugno del 1979. “Ho fatto la specializzazione all’ospedale di Borgo Trento (Verona) – racconta -. Quando ho iniziato Medicina volevo fare Pediatria. Poi ho assecondato il fascino che esercitava su di me il mondo femminile, la psicologia e la personalità delle donne di cui ho scoperto, grazie a questa professione, la grande capacità di soffrire ed amare”.

 

Quello di Negrar è stato il primo incarico formale per il dottor Burati. Incarico durato ben 39 anni e tre primari: il dottor Claudio Nenz, il dottor Luca Minelli e, l’ultimo, il dottor Marcello Ceccaroni.“In quasi 40 anni non ho mai sentito il bisogno di andare altrove. Il motivo? Mi sono sempre trovato bene al ‘Sacro Cuore’. Fin dall’inizio – ci tiene a sottolineare il dottor Burati – quando in Ginecologia eravamo solo quattro medici e in tutto l’ospedale una quarantina (oggi sono più di 300!. ndr). Approfittavamo del momento dei pasti, nella mensa comune, per scambiarci le idee e le opinioni sui casi, ma anche per fraternizzare e per creare gruppo“. Quei quattro medici erano il primario Nenz, il dottor Amerigo Riolfi, scomparso quando non aveva nemmeno 60 anni, e il dottor Antonio Montebelli.

 

Era un altro ospedale e un’altra era per quanto riguarda l’ostetricia – prosegue -. A fine anno contavamo solo 500-600 parti, si partoriva ancora molto a casa e l’induzione al parto aveva scadenza fiscale al termine della gravidanza, quando adesso si va anche oltre la 41° settimana”. Erano anche i tempi in cui le donne venivano sottoposte prima del parto a tricotomia e al clistere, si partoriva obbligatoriamente nella posizione ginecologica e i papà erano banditi dalla sala parto. “Per far entrare i padri ho dovuto vincere bonariamente un ‘braccio di ferro’ con l’allora direttore sanitario Gastone Orio. Non ne voleva sapere. Diceva che il parto era roba da donne e gli uomini era meglio che restassero fuori. Ma oramai – sottolinea il medico – molti ospedali prevedevano la presenza del padre al momento del parto, perché era giusto così”.

 

Anche l’esame ecografico in quei tempi era ancora agli albori: “Mia figlia è nata a fine giugno dello stesso anno in cui sono stato assunto. Avevo sentito che all’ospedale maggiore di Verona era arrivato un ecografo per l’ostetricia, così portai mia moglie. Mi seppero dire solo che era maschio per le sue dimensioni… è nata una bambina. Oggi l’ecografia è uno strumento preziosissimo, perché, tra le altre cose, ci permette di gestire le gravidanze oltre il termine con serenità, lasciando, dove è possibile, che il travaglio inizi naturalmente. Prima si doveva procedere allo scadere del termine e il più delle volte si sottoponeva la donna a ore e ore di dolori. Ora questo non succede più”.

 

Il dottor Burati ha vissuto da protagonista l’intera evoluzione dell’ostetricia, iniziata più di vent’anni fa. “Ho proposto alle mie ostetriche di andare a visitare gli altri ospedali per vedere da vicino cosa stavano facendo – prosegue -. In particolare ci siamo recati a turno per una settimana all’ospedale di Gavardo, nel Bresciano, che allora era la punta di diamante del parto naturale. Guardavamo anche all’estero, dove si stava affermando la possibilità per le donne di avere il bambino nella posizione che sembra a loro più congeniale. Devo dire che fin dall’inizio ho lavorato con un gruppo di ostetriche propositivo e con sempre tanta voglia di fare. Nel tempo si sono succedute le figure, ma lo spirito è rimasto sempre lo stesso: l’entusiasmo di trovare nuove soluzioni per far star bene il più possibile la donna in questo particolare momento della sua vita. La forza dell’Ostetricia di Negrar sono sempre state le ostetriche” .

 

Serba un ricordo in particolare? “La prima volta che una donna ha partorito in posizione alternativa – risponde -. Non rammento perché il marito non c’era, forse non se la sentiva di assistere al parto. Comunque la signora si era messa in ginocchio su letto aggrappandosi a me, come supporto, mentre l’ostetrica Loredana Cambiolli, adesso in pensione, controllava l’espulsione del bambino da dietro la schiena della signora. Sembra facile, ma significava cambiare completamente la prospettiva del parto. Fu un’esperienza che ci ha entusiasmati perché ci dimostrò che avevamo le capacità per farlo. Oggi la donna da noi ha tutti comfort per partorire come vuole, anche nella vasca con l’acqua”. E soprattutto senza eccessivo dolore… “Con orgoglio posso affermare che siamo stati tra i primi ospedali del Veronese a introdurre l’analgesia epidurale gratuita e h24. Devo dar merito all’allora presidente fratel Mario Bonora, che ha accolto l’idea e ha fatto in modo che si realizzasse, incrementando l’organico degli anestesisti”.

 

Cosa le mancherà di più di questo lavoro? La risposta non tarda a venire. “La sala parto, non c’è dubbio. Perché quando si porta a termine un parto, magari laborioso e vedi la felicità nel volto di quella madre che tiene in braccio un bimbo sano, tutte le ansie e le paure delle ore precedenti svaniscono. La sala operatoria non fa ingrigire come la sala parto. Anche quando si hanno anni di esperienza sulle spalle, non si smette mai di temere per quelle due vite che ti sono affidate. Il vantaggio dell’età è che con il tempo s’impara a metabolizzare la tensione e gestire la situazione con la freddezza necessaria. Il parto – prosegue – viene seguito dalle ostetriche, noi ginecologi veniamo chiamati quando il travaglio o il parto escono dai parametri della fisiologia. Non per forza devono essere prese delle decisioni invasive. Anche decidere di continuare ad assicurare alla madre un parto naturale senza far correre a lei e al suo bambino dei rischi, non è semplice. La strada facile del cesareo per togliersi qualsiasi pensiero, per uno come me, con tanti anni di lavoro, appare un tradimento verso la donna”.

 

Come sarà adesso la sua agenda senza l’Ostetricia di Negrar? “Continuerò ad alimentare il mio orgoglio e i miei ricordi rallegrandomi ogni volta che le ‘mie’ mamme, riconoscendomi, mi fermano per strada. Poi mi dedicherò ai miei grandi hobby: la lettura e i viaggi. Ho quasi le valigie pronte per l’India…”.

 

elena.zuppini@sacrocuore.it


Epatocarcinoma: al "Sacro Cuore" la sperimentazione di un nuovo farmaco

L’ospedale di Negrar partecipa allo studio internazionale di fase I-II di un vaccino riservato ai pazienti affetti da tumore al fegato in uno stadio molto precoce, precoce ed intermedio e che sono candidati a trattamenti locali

Dal 12 gennaio 2018 è attivo presso l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria lo studio clinico di fase I-II HEPAVAC-101, che valuta per la prima volta nell’uomo il vaccino IMA970A, un prodotto innovativo specifico nei confronti dell’epatocarcinoma.

HEPAVAC-101 è uno studio internazionale che si svolge in Germania, Spagna, Francia, Belgio, Gran Bretagna e Italia. Nel nostro Paese vede coinvolti solo due centri: l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (in collaborazione con l’Università dell’Insubria) e l’Istituto Nazionale Tumori “Pascale” di Napoli.

La sperimentazione è riservata ai pazienti con epatocarcinoma in fase iniziale (ad uno stadio molto precoce, precoce ed intermedio), che sono candidati ad un trattamento locale (intervento chirurgico, termoablazione o ablazione mediante radiofrequenza e microonde, chemioembolizzazione, radioembolizzazione).

Per informazioni è disponibile il numero 800 143 143 Numero Verde del Cancer Care Center – Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (dal lunedì al venerdì dalle ore 9.00 alle ore 12.00).

Scopo dello studio è valutare la tollerabilità del vaccino IMA970A e verificare se questo, somministrato dopo la regressione della malattia ottenuta con il trattamento locale, è in grado di indurre una risposta immunitaria nei confronti del tumore. Se il vaccino IMA970A dimostrasse di indurre una risposta immunitaria, potrebbe ritardare la progressione del tumore o favorire una ulteriore regressione del tumore stesso.

Cos’è l’Epatocarcinoma?

L’Epatocarcinoma è il tumore maligno più frequente del fegato, con una incidenza nel mondo di 750.000 nuovi casi l’anno. Oltre il 70% di questi tumori è riconducibile a fattori di rischio noti e tra questi i più frequenti sono: l’infezione da virus dell’epatite C (HCV), da virus dell’epatite B (HBV), da abuso di bevande alcoliche. In Italia sono stati diagnosticati nel 2017 circa 13.000 nuovi casi. A 5 anni dalla diagnosi la sopravvivenza è del 20%.

Al momento le opzioni terapeutiche per questo tumore sono limitate e nel 2014 si sono verificati in Italia oltre 9.900 decessi per tumori del fegato: è dunque necessario sviluppare terapie innovative per l’epatocarcinoma al fine di migliorarne la prognosi.

Attualmente i pazienti con epatocarcinoma in fase iniziale vengono sottoposti a procedure locali che consistono nella resezione chirurgica del tumore laddove possibile, o nella distruzione dei noduli tumorali mediante termoablazione, ablazione con radiofrequenza e microonde, chemioembolizzazione o radioembolizzazione. Nonostante tali trattamenti possano ottenere una distruzione del tessuto vitale del tumore, nel tempo la malattia è destinata a recidivare o a peggiorare nella maggior parte dei casi.

Cos’è IMA970A?

IMA970A è un vaccino a base multipeptidica sviluppato nell’ambito del progetto HEPAVAC, una iniziativa internazionale finanziata dall’Unione Europea che vede la partecipazione di 9 partner europei dei settori farmaceutico ed universitario. I peptidi contenuti nel vaccino sono stati isolati e selezionati a partire dal tessuto tumorale di epatocarcinomi provenienti da centinaia di pazienti. Questi peptidi sono specifici, in quanto presenti soltanto nell’epatocarcinoma e non nei tessuti sani.

Come si svolge lo studio?

I pazienti che prenderanno parte alla sperimentazione verranno sottoposti ad alcuni esami di screening per verificare la loro idoneità a partecipare allo studio, prima di ricevere il trattamento locale standard. I pazienti che, dopo il trattamento locale, non presentano evidenza di tumore vitale riceveranno la terapia sperimentale che prevede una unica infusione endovenosa di una bassa dose di ciclofosfamide (un farmaco chemioterapico con funzione immuno-modulante). Dopo pochi giorni viene iniziata la vaccinazione vera e propria.

La vaccinazione consiste nella somministrazione intradermica (con ago sottile, a livello della cute del braccio) sia del vaccino IMA970A che di una sostanza adiuvante (che serve cioè a potenziare l’immunogenicità del vaccino e che contiene RNA). Sono previste 9 somministrazioni totali intradermiche del vaccino: le prime 4 vengono effettuate ogni settimana e le altre 5 ogni tre settimane.

Dove si svolge lo studio?

La sperimentazione si svolge presso l’Unità Operativa di Oncologia Medica, diretta dalla dottoressa Stefania Gori, in collaborazione con il dottor Alberto Masotto dell’Unità Operativa di Gastroenterologia, diretta dal dottor Paolo Bocus.


"Si può sorridere alla vita, nonostante il cancro"

In occasione della Giornata mondiale contro il cancro e della Giornata nazionale per la vita, raccontiamo la storia di Mara, una donna che non ha lasciato che la malattia dominasse la sua quotidianità: “Si può, dando fiducia ai medici e a se stessi”

Sono coincidenze che fanno riflettere. Quest’anno la Giornata mondiale contro il cancro coincide con la celebrazione della Giornata nazionale per la vita, domenica 4 febbraio. La prima è stata promossa dell’Unione Internazionale contro il Cancro, un’organizzazione non governativa che rappresenta migliaia di associazioni nel mondo impegnate nella diffusione della cultura dell’informazione e della prevenzione della malattia tumorale. La seconda è stata istituita nel 1978 dalla Conferenza Episcopale Italiana dopo l’approvazione della legge sull’interruzione volontaria di gravidanza, per promuovere il valore della vita in ogni circostanza, dal concepimento alla morte naturale.

L’ospedale di Negrar vuole celebrare entrambe, raccontando la storia di una vita che si è imposta sul cancro, non accettando che la “bestia” e tutti i demoni che essa porta con sé scandissero e manipolassero la sua quotidianità, i suoi affetti… la sua voglia di vivere. E’ la storia di Mara, una paziente del “Sacro Cuore Don Calabria”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Il suo primo capitolo di malata oncologica inizia nel marzo del 2012,in un ambulatorio di Radiologia, con una dottoressa che le comunica l‘esito della biopsia. Quel nodulo che in poche settimane era diventato da palpabile a visibile, era un carcinoma mammario. “Frastornata – racconta Mara, 47 anni – è l’unica definizione che mi viene in mente ripensando a quel momento che ho vissuto assieme a mia figlia. Non riuscivo a capacitarmi che quella parola cancro riguardasse proprio me.

‘E se muoio? Se lascio sole le mie figlie?’, ho chiesto in lacrime alla dottoressa che con tutta la gentilezza e il tatto che possedeva cercava di rassicurarmi, sottolineando che tra le sue pazienti aveva signore la cui diagnosi risaliva a più di 20 anni fa. Sentivo dentro di me che non era tanto il tumore a terrorizzarmi, quanto la sofferenza delle cure (soprattutto la chemioterapia) e lo stravolgimento totale della mia vita e quella della mia famiglia”.

La dottoressa, racconta Mara, era stata tanto comprensiva quanto ferma: “Signora, deve essere presa in carico da un chirurgo senologo, si riservi qualche giorno per decidere a quale struttura ospedaliera rivolgersi’. Era come mi avessero lanciato con una catapulta in un mondo che non conoscevo. E adesso cosa faccio? Una persona di fiducia mi ha indicato il dottor Alberto Massocco, responsabile della Chirurgia senologica di Negrar. Dal lato umano e medico è la migliore scelta che potessi fare”.

La prima arma imbracciata da Mara e dai medici che la prendono in carico contro la “bestia”, come chiama lei il tumore, è la chemioterapia neoadiuvante, per ridurre la massa tumorale al fine di un intervento più conservativo possibile. “La chemio… il mio incubo – prosegue -. Ma era un incubo costruito dalla mia mente. Si perdono i capelli (e per noi donne è psicologicamente devastante), la pelle si trasforma in peggio. Ma poi scopri che oltre alle parrucche e ai foulard, ci sono le creme che ti aiutano a vederti più bella. Esistono soprattutto dei farmaci che controllano gli effetti collaterali. Sicuramente non è stata una passeggiata, ma ho sofferto meno di quanto pensassi. Il merito va anche alle infermiere del Day Hospital dell’Oncologia, dei veri angeli sempre attente a ogni nostro malessere, sempre pronte ad intervenire anche con una sola parola rassicurante, che spesso è più efficace di una pillola”.

Terminato il trattamento con la chemioterapia, Mara viene sottoposta a intervento di quadrantectomia, poi alla radioterapia. “Nel gennaio del 2013 sono ritornata ad essere una persona libera… dalle cure. Dovevo recarmi in ospedale solo per il normale follow up”. Un sollievo durato solo tre anni perché il 13 ottobre del 2016, a Mara viene diagnosticata una recidiva.

“Alla notizia di questo nuovo nodulo che si era nascosto anche al mio tatto, è inutile dirlo, non ho reagito in modo razionale – prosegue nel racconto Mara -. Mi sono fatta guidare dalla confusione che regnava nella mia mente, lasciando che la paura e l’ansia prendessero il sopravvento. Avevo un pensiero fisso: ‘Perché proprio a me? Perché la bestia è ritornata?‘. Assurdamente nutrivo il senso di colpa di essermi ammalata, perché, nella mia testa, venivo meno al mio ruolo madre che invece di accudire le mie figlie, costringevo le mie figlie ad accudire me. Non mi riconoscevo più come persona né psicologicamente né fisicamente”.

Vedendola in seria difficoltà, la dottoressa Monica Turazza, oncologa, consiglia a Mara di rivolgersi al Servizio di Psicologia Clinica. “Ho conosciuto così il dottor Matteo Giansante. Mi sono avvicinata al primo colloquio con un po’ di scetticismo. Non capivo come potesse aiutarmi una persona che non mi conosceva e non condivideva il mio problema. Un problema che per lo più avevo già affrontato e da sola. Ma già alla fine della prima ‘chiacchierata’ ho capito che parlandone potevo stare meglio e affrontare così, più serena e propositiva, la mia nuova battaglia. Ho preso consapevolezza di cosa mi stava accadendo, ho accettato la paura come un’amica con cui qualche volta ci si può scontrare ma con cui si può convivere. Ho messo nero su bianco i timori che non mi permettevano più di condurre la vita di prima. Io che alla tenera età di 43 anni avevo imparato a nuotare, non mi recavo più in piscina perché per me era impensabile affrontare lo spogliatoio, lo sguardo delle persone, il sentirmi fuori posto perché ero malata. Dare un nome ai nostri demoni fa bene. Perché si capisce come affrontarli”.

Un’accettazione della propria fragilità che paradossalmente ha dato a Mara la forza di affrontare con serenità le nuove cure chemioterapiche: “Quando sono ritornata al Day Hospital e ho visto il sorriso delle ‘mie ragazze’, perché per me le infermiere sono tali, mi sono detta: ‘Sei in famiglia, qui ce la puoi fare”.

Subita la mastectomia e radioterapia, da alcuni giorni Mara si è sottoposta alla ricostruzione mammaria. “Sto bene, conduco una vita normale. Il cancro si può combattere impedendo alla ‘bestia’ di prendere il sopravvento su di noi, sulla nostra voglia di vivere. E’ possibile, dando fiducia ai medici e non perdendo mai la fiducia in noi stessi”.


Va in pensione un protagonista della storia dell'Urologia di Negrar

Trentotto sono gli anni di carriera di cui ventotto trascorsi al “Sacro Cuore Don Calabria”: il dottor Mauro Pastorello ha vissuto l’evoluzione dell’Urologia, sia diagnostica che interventistica

Nei trentotto anni di professione medica (o come lui sottolinea: “40 meno 2”), ha vissuto da protagonista l’evolversi dell’Urologia, sia dal punto di vista diagnostico che terapeutico. Ora per il dottor Mauro Pastorello (nella foto di copertina), responsabile del Servizio di Urodinamica e medico-chirurgo dell’Urologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, è arrivato il momento di appendere il “camice al chiodo”.

In totale serenità, sottolinea, “nella consapevolezza di aver vissuto un’esperienza che mi ha dato molto e che, soprattutto a Negrar, mi ha fatto crescere e mi ha offerto la possibilità di un’empatia straordinaria con i pazienti e con i miei colleghi”. Il tempo libero che ha davanti non lo spaventa. Anzi “finalmente potrò dedicarmi ai miei tanti hobby, in particolare allo sci alpinistico”, racconta a pochi giorni dall’inizio della sua nuova vita da “pensionato”. Inoltre, dice, “nella mia ‘terza età’ manterrò comunque uno stretto rapporto con il mondo urologico, non solo proseguendo la consulenza ambulatoriale presso il nostro Ospedale ma anche come Consigliere nazionale della Società italiana di Urodinamica”.

Non le mancherà nulla quindi della sua ‘precedente vita’? “Mi manca già… la sala operatoria – risponde – E’ un mondo tutto particolare, dove nascono sinergie, amicizie e fidelizzazioni molto forti tra colleghi, infermieri fino agli operatori. Si sviluppano e si consolidano rapporti davvero significativi. Proprio alla sala operatoria è legato uno dei miei ricordi più belli ed emozionanti: la prima volta che realizzai (era il 1993) da solo un intervento di neovescica ileale ortotopica, cioè la ricostruzione della vescica tramite un segmento dell’intestino, una metodica ancora oggi validissima”.

La storia del dottor Pastorello al “Sacro Cuore Don Calabria” inizia nel 1989, a migliaia di chilometri dalla Valpolicella. “Ero ad Atene per un corso internazionale – racconta – e venni avvicinato dal dottor Ivano Sigillino, allora primario dell’Urologia di Negrar. Mi disse: ‘E’ lei il Pastorello che si occupa di Urologia funzionale e Urodinamica?’. A quei tempi la specializzazione in Urodinamica (il settore dell’Urologia che studia la funzionalità delle vie urinarie inferiori, cioè vescica, uretra e pavimento pelvico, ndr) non era molto diffusa. Io mi sono formato a Modena, dove ho frequentato anche l’Università. Il professor Umberto Musiani, uno dei big di sempre dell’Urologia italiana, mi avviò a questa branca nel 1979, ancora prima che mi specializzassi. In pratica sono urologo da sempre”.

Poco dopo quell’incontro, l’ospedale di Negrar avviò un Centro di Urodinamica, sotto la responsabilità del dottor Pastorello, che ancora oggi è tra quelli veneti con maggiore attività. “In questi 28 anni ho assistito al passaggio da un’urologia tradizionale a un’urologia digitale – prosegue- . E’ stata un’evoluzione rapida che da parte di chi opera ha imposto un costante aggiornamento, ma nello stesso tempo ha offerto ampie possibilità di crescita professionale”.

Negli anni Novanta l’esame urodinamico era una procedura puramente manuale. Consisteva in una boccia d’acqua posta in alto e in un’infusione di soluzione fisiologica nella vescica, regolata manualmente per mimare artificialmente quello che avviene nel nostro corpo. “Oggi – spiega il medico – l’esame è gestito da un software avanzato che controlla l’input, cioè l’erogazione dei fluidi, e nello stesso tempo registra le risposte detrusoriali e mioelettriche del pavimento pelvico e fornisce tante altre importanti informazioni. L’esame consente risultati scientificamente perfetti: si possono verificare degli errori, ma sono errori di sistema che possono accadere quando l’esame non è impostato correttamente e ben condotto”.

L’evoluzione della diagnostica è avvenuta di pari passo con quella della terapia chirurgica. “Si è partiti da una chirurgia open per arrivare alla robotica, passando per la laparoscopia e per la chirurgia endoscopica – prosegue il dottor Pastorello -. Soprattutto nell’endoscopia, di cui mi sono occupato particolarmente, ho vissuto una vera rivoluzione tecnologica. Ricordo che all’inizio dovevo cambiare gli occhiali almeno una volta all’anno, in quanto disponevo di ottiche che si appoggiavano alle lenti creando un fastidioso cerchio. Poi le cose sono cambiate. A Negrar sono stato il primo ad utilizzare la telecamera, con uno schermo che era poco più grande di un francobollo. Oggi si dispone di strumenti con magnificazioni fantastiche, grazie ai quali abbiamo una visione ottimale all’interno del sistema urinario”.

Ma i grandi risultati avvengono raramente per caso e soprattutto non si ottengono mai da soli. “In questo ospedale ho sempre sperimentato un clima di grande collaborazione – sottolinea -. Quando il “Sacro Cuore Don Calabria” era una struttura relativamente piccola la sinergia tra colleghi medici, chirurghi, fisiatri era fisicamente evidente perché eravamo in pochi. Oggi, per la legge dei numeri, la collaborazione deve essere coordinata, ma è sempre molto forte e ha dato a ciascuno la possibilità di crescere”.

Il dottor Pastorello passa in rassegna ad uno a uno le figure più significative della sua carriera al “Sacro Cuore Don Calabria”, con il timore, come accade in queste occasioni, di dimenticare qualcuno: “Ho provato un’empatia particolare con il dottor Sigillino e con il dottor Angelo Molon, il mio penultimo direttore. Angelo è stato un fratello, oltre che un sodale e un collega molto apprezzato. Insieme abbiamo sviluppato una serie di innovazioni gestionali che hanno coinvolto sia il reparto che la sala operatoria. Ma ricordo con molta simpatia e gratitudine tutti i colleghi con cui ho trascorso la vita di reparto e anche quelli della Chirurgia generale, dal professor Corrado Castelli al dottor Rolando Lughezzani e al dottor Giacomo Ruffo. Non da ultimo, il professor Stefano Cavalleri, attuale direttore dell’Urologia, con il quale ho condiviso negli anni più recenti l’evoluzione scientifica nella disciplina urologica, in uno spirito di piena e armonica collaborazione non disgiunto da un rapporto di stima e sincera amicizia”.

 

elena.zuppini@sacrocuore.it


La bronchiolite: il virus di "stagione" che colpisce i più piccoli

E’ un’infezione ai bronchi che può affliggere i bimbi nel primo anno di vita: quando un semplice raffreddore si trasforma in difficoltà respiratoria che impedisce al bambino di alimentarsi adeguatamente, è bene rivolgersi alle cure del pediatria.

Molto spesso esordisce con un banale raffreddore, ma ben presto subentra la tosse e una certa difficoltà respiratoria che impedisce al bambino di alimentarsi adeguatamente: segnali tipici che dovrebbero indurre un genitore a rivolgersi al pediatra. Si tratta della bronchiolite, un’infezione dei bronchi, che colpisce i bimbi nel primo anno di vita, soprattutto nei mesi invernali, da novembre a marzo. “Si stima che 1-2% della popolazione dei lattanti fino a sei mesi venga ricoverata per bronchiolite. L’ospedalizzazione non è sempre necessaria: ci sono forme lievi, che possono essere trattate a domicilio, e forme più gravi, che invece richiedono il ricorso alla terapia intensiva pediatrica”, spiega il dottor Cesare Zanotto (nella Photo Gallery) della Pediatria del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dal dottor Antonio Deganello.

Dottor Zanotto, da cosa è provocata la bronchiolite?

E’ una malattia virale e nella metà dei casi è causata dal virus respiratorio sincizialeUn ruolo non marginale, lo hanno anche il rinovirus, lo stesso del raffreddore, e altri virus come quelli influenzali e parainfluenzali, l’adenovirus o i metapneumovirus.

Quali sono i sintomi?

La bronchiolite inizia con i sintomi di un’infezione delle alte vie aeree, quindi con un raffreddore, seguito da tosse. Successivamente subentra la difficoltà respiratoria con tachipnea (aumento della frequenza respiratoria, ndr) e tachicardia (aumento della frequenza cardiaca, ndr). All’auscultazione polmonare, si rileva la presenza di rantoli crepitanti e un respiro sibilante (brancospasmo). Nella metà dei casi abbiamo la febbre.

Come viene trattata?

Innanzitutto con una terapia di supporto. E’ fondamentale mantenere libere le cavità nasali dalle secrezioni di muco tramite frequenti lavaggi con soluzione fisiologica e successiva aspirazione delle secrezioni. Questo fa sì che il bambino – che nei primi sei mesi di vita ha una respirazione essenzialmente nasale – inizi a respirare meglio. La pervietà delle vie aree facilita anche l’alimentazione e, quindi, soprattutto nei lattanti, l’idratazione. Consigliamo, per non affaticare il bambino, di fare pasti meno abbondanti e più frequenti. Infine la terapia di supporto deve mantenere sotto controllo, e questo lo può fare solo il pediatra, l’ossigenazione tramite la misurazione della saturazione transcutanea. Se la saturazione scende sotto il 90%-92%, il bambino deve essere ricoverato e sottoposto all’ossigenoterapia. Negli ultimi anni la somministrazione di ossigeno con cannule nasali ad alti flussi ha dato buoni risultati in termini di miglioramento o comunque di prevenzione del peggioramento del quadro clinico. Ha inoltre ridotto notevolmente la percentuale di piccoli pazienti ricoverati in terapia intensiva pediatrica”.

Per quanto riguarda i farmaci?

Il trattamento farmacologico della bronchiolite è uno dei più controversi degli ultimi 50 anni, con continui aggiornamenti delle linee guida. Si è passati dalla somministrazione per via aerosolica di salina ipertonica al 3%, la cui efficacia è però stata smentita da alcuni recenti lavori. Lo stesso è successo per il salbutamolo, per il cortisone, l’adrenalina. L’esperienza clinica insegna che di fronte a un bambino in seria difficoltà respiratoria è necessario valutare momento per momento e caso per caso le singole terapie.

Sono indicati gli antibiotici?

Essendo una malattia virale, non avrebbero nessun effetto. Tuttavia vanno impiegati in presenza di sovrainfezione batterica ( documentabile da accertamenti radiologici, ematochimici e culturali).

Quando è necessario il ricovero?

Il ricovero è indicato nei bambini con bronchiolite moderata-severa, nei casi in cui il bambino mangia meno del 50% della sua abituale quota, o ha una saturazione di ossigeno inferiore del 90%-92%; il ricovero, inoltre, è indicato per quei piccoli già affetti da patologie che potrebbero complicarsi anche con una bronchiolite lieve. Mi riferisco in particolare agli ex prematuri, ai bambini con cardiopatie congenite o fibrosi cistica, a quelli con immunodeficienza o affetti da sindrome di Down.

Come avviene la trasmissione del virus?

Attraverso la saliva di un bambino che è affetto dall’infezione, ma anche di un adulto con un raffreddore, visto che la bronchiolite è provocata dal rinovirus. Per questo raccomandiamo alle madri raffreddate di proteggersi la bocca con una mascherina e di lavarsi molto spesso le mani. Inoltre è bene non portare i bambini in ambienti affollati tra novembre e marzo e di non esporli al fumo di sigaretta. Questo sempre, ma soprattutto se sono lattanti.

Ci sono dei fattori protettivi?

L’allattamento al seno è uno di questi. Anche la supplementazione di vitamina D, nei primi mesi di vita riducendo il rischio di infezioni virali, sembra ridurre il rischio di contrarre la bronchiolite.

E’ disponibile un vaccino?

Non ancora. Sono in atto studi per un vaccino contro il virus respiratorio sinciziale, ma finora non hanno dato risultati efficaci.Contro questo virus è a disposizione invece un farmaco profilattico, l’anticorpo monoclonale Palivizumab. Anche per l’alto costo, il farmaco viene prescritto nei primi mesi di vita solo in casi selezionati. In particolare ai bambini cardiopatici o ai prematuri sotto le 32 settimane. Ai piccoli sopra le 32, solo se soggetti a rischio, cioè con fratellini che vanno all’asilo e potrebbero quindi trasmettere il contagio o che vivono in condizioni ambientali tali da favorire l’infezione. Viene somministrato per via intramuscolare una volta al mese per cinque mesi nel periodo epidemico. Il Polivizumab ha ridotto il numero di ospedalizzazioni, la durata della malattia e delle ospedalizzazioni nei casi menzionati

elena.zuppini@sacrocuore.it


La sfida della diagnosi precoce per combattere la lebbra

Domenica 28 gennaio si celebra la giornata mondiale dei malati di lebbra, patologia per la quale il Centro Malattie Tropicali è riferimento regionale. Quattro i pazienti seguiti a Negrar nel 2017, mentre nel mondo sono stati oltre 200mila i nuovi casi

La lebbra fa parte di quelle malattie che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce come dimenticate. Eppure ogni anno nel mondo si verificano più di 200mila nuovi casi, concentrati soprattutto nel sud-est asiatico e in Brasile, con una percentuale molto alta di ragazzi e ragazze che vengono infettati (quasi 20mila tra i nuovi casi del 2016 avevano meno di 15 anni).

Proprio per dare maggiore visibilità a questa situazione domenica 28 gennaio si celebra la Giornata Mondiale dei malati di lebbra, organizzata da Aifo, che tocca da vicino anche l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Infatti il Centro per le Malattie Tropicali diretto dal professor Zeno Bisoffi è Centro Regionale Accreditato per le malattie rare, tra cui appunto la lebbra. Per questo nel 2017 a Negrar sono stati trattati 4 casi di lebbra (nel 2016 c’era stato un solo caso), numero assai significativo se consideriamo che nel 2016 i casi di lebbra su scala europea erano stati 32, di cui una decina a livello italiano.

“I pazienti seguiti a Negrar lo scorso anno erano un italiano e tre immigrati. Tutti loro avevano contratto la lebbra all’estero in zone endemiche. La cura consiste in una terapia antibiotica che dura circa un anno somministrata in regime ambulatoriale. Tuttora vediamo i malati mensilmente e seguiamo anche i loro familiari”, dice la dottoressa Anna Beltrame, infettivologa del Centro per le Malattie Tropicali, per il quale è in corso l’iter di riconoscimento come IRCSS.

L’aumento dei casi trattati ha portato ad una maggiore collaborazione con la Dermatologia dell’ospedale San Martino di Genova, che rappresenta il centro di riferimento nazionale per la diagnosi della malattia. “Mentre la gestione della lebbra è relativamente semplice ed efficace, la diagnosi risulta spesso complessa perché deriva dalla combinazione di più fattori – prosegue Beltrame – generalmente si fanno dei prelievi nei siti dove il corpo è più freddo, come i lobi, i gomiti e le ginocchia, dove si rifugia il micobatterio responsabile della malattia. Questi campioni vanno analizzati al microscopio, ma spesso per una conferma di positività è necessaria anche la biopsia su eventuali macchie della pelle sospette”.

Proprio sulla diagnosi precoce si stanno concentrando gli sforzi dei ricercatori a livello internazionale e anche il Centro di Negrar è attivo su questo fronte. In particolare è in fase di avvio la creazione di un gruppo di lavoro che comprende ricercatori di Marituba, in Amazzonia, dove l’Opera Don Calabria gestisce un ospedale e dove la lebbra è endemica, insieme ad un centro di ricerca statunitense specializzato in questo campo. L’obiettivo è mettere a punto nuovi sistemi di diagnosi precoce della malattia, in modo da individuare gli ammalati prima che sviluppino danni permanenti.

Un altro fronte di lavoro è rappresentato dalla formazione degli specialisti in Italia. “Riconoscere la lebbra non è semplice, a meno che non si trovi in una fase avanzata. Per questo è importante aumentare la conoscenza della malattia da parte di dermatologi ed infettivologi che possono trovarsi a contatto con persone a rischio, specie a seguito dell’aumento delle migrazioni. In questo modo potranno inviare tempestivamente i casi sospetti ai centri specializzati come il nostro”, conclude la dottoressa Beltrame.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Prestigiosa certificazione di qualità per l'Endoscopia digestiva

Il Servizio di Endoscopia ed Ecoendoscopia digestiva ha ottenuto l’accreditamento SIED che certifica l’elevata qualità e gli standard di eccellenza raggiunti nell’erogazione delle prestazioni ai pazienti

Prestigioso riconoscimento per il Servizio di Endoscopia ed Ecoendoscopia Digestiva del Sacro Cuore Don Calabria di Negrar.

Nei giorni scorsi ha ottenuto l’accreditamento da parte della Società Italiana di Endoscopia Digestiva (SIED) che certifica l’elevata qualità e gli standard di eccellenza raggiunti dal Servizio di cui è responsabile il dottor Marco Benini e che afferisce alla Gastroenterologia, diretta dal dottor Paolo Bocus (nella foto di copertina con tutta l’équipe).

Le strutture accreditate in tutta Italia sono 18 tra cui Istituto Europeo di Oncologia, l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e l’Ismett di Palermo.

L’accreditamento, che è volontario, rappresenta un’ulteriore garanzia per il paziente che si rivolge al Servizio per esami, solo per citarne alcuni, come la gastroscopia, la colonscopia o la più sofisticata ecoendoscopia (video che descrive l’esame). Si tratta di un’ecografia “interna”, disponibile solo in pochi ospedali italiani, che permette di effettuare una ecografia ad alta risoluzione della parete del tubo digerente e delle strutture adiacenti ad esso, fondamentale per la diagnosi e la stadiazione dei tumori.

“Siamo molto orgogliosi della certificazione da parte di un ente autorevole e indipendente come la SIED – commenta il dottor Benini -. I criteri di valutazione per ottenere l’accreditamento sono, infatti, molto stringenti e si basano su rigidi parametri di qualità ampiamente riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale.Vengono valutati gli aspetti scientifici e professionali e l’organizzazione dei processi sanitari. Nel non breve percorso che ha portato alla certificazione è stata coinvolta l’Associazione Nazionale degli Infermieri Operatori Tecniche Endoscopiche (ANOTE), che ha messo a disposizione un team di infermieri per affiancare SIED nell’iter di accreditamento sulle tematiche specifiche del loro ruolo. Il risultato è frutto del lavoro di tutti i componenti del servizio e della costante collaborazione con l’Ufficio Qualità Integrato dell’ospedale”.

Il Servizio di Endoscopia ed Ecoendoscopia del “Sacro Cuore Don Calabria” è un centro di eccellenza per la diagnostica precoce e la terapia delle malattie e dei tumori gastrointestinali, del pancreas e delle vie biliari. All’anno vengono eseguiti circa 8mila esami diagnostici.


Le Alte Tecnologie del "Sacro Cuore" a Innovabiomed

L’Ospedale di Negrar parteciperà all’evento nazionale dedicato all’innovazione a servizio dell’industria biomedicale che si terrà nel salone espositivo di VeronaFiere il 23 e 24 gennaio

L’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar parteciperà alla prima edizione di Innovabiomed, l’evento dedicato all’innovazione a servizio dell’industria biomedicale, organizzato da Veronafiere che terrà martedì 23 e mercoledì 24 gennaio al Centro Congressi Palaexpo di Viale del Lavoro a Verona. (www.innovabiomed.it).

Nel corner dedicato, il “Sacro Cuore Don Calabria” presenterà alcune delle alte tecnologie acquisite negli ultimi anni al fine di offrire al paziente, soprattutto oncologico, ma non solo, le più innovative cure mediche.

In particolare sarà illustrata l’attività della Radioterapia Oncologica.L’Unità Operativa Complessa, diretta dal professor Filippo Alongi(Photo Gallery 1)i, si avvale di tre acceleratori lineari per il trattamento di precisione ad alta intensità di radiazione delle lesioni oncologiche con il minimo coinvolgimento dei tessuti sani. Il professor Alongi, martedì pomeriggio alle 17, terrà un workshop in cui illustrerà l’acquisizione più recente: un sistema di radiochirurgia (Hyperarc) in grado di trattare in una sola seduta, di circa 10 minuti, oltre dieci metastasi encefaliche. La Radioterapia di Negrar è stata la prima al mondo ad impiegare questo sistema, i cui risultati preliminari su una trentina di pazienti sono promettenti.

Il “Sacro Cuore Don Calabria” presenterà inoltre le tecnologie della Medicina Nucleare, diretta dal dottor Matteo Salgarello (Photo Gallery 2), l’unica nel Veneto dotata di due Pet di ultima generazione, fondamentali per la diagnosi e il monitoraggio della terapie nell’ambito oncologico, cardiologico, neurologico e ortopedico. All’interno della Medicina Nucleare è attivo il Servizio di Terapia Radiometabolica, con due stanze bunker riservate all’isolamento del paziente trattato con radiofarmaci.

Molti dei radiofarmaci (cioè farmaci con isotopi radioattivi) impiegati sono prodotti nella Radiofarmacia-Officina Radiofarmaceutica, di cui è responsabile il dottor Giancarlo Gorgoni (Photo Gallery 3). Il Servizio si avvale di uno dei Ciclotroni più potenti d’Europa per creazioni di radionuclidi. L’Ospedale di Negrar produce gratuitamente il radiofarmaco F18-FDG, il più usato nell’ambito della diagnostica oncologica, per le Medicine Nucleari del Veneto.


Endocardite: un team di specialisti per curare l'infezione

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L’infezione che colpisce il cuore è una patologia grave e dalle complicanze anche mortali. Al “Sacro Cuore” un convegno sulla presa in carico multispecialistica del paziente

Sarà analizzato anche un particolare caso clinico al convegno “Endocardite: una sfida per il medico di famiglia e per lo specialista”, che si terrà sabato 20 gennaio all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, promosso dalla Cardiologia, diretta dal professor Enrico Barbieri, e dal Centro per le Malattie Tropicali, diretto dal professor Zeno Bisoffi (programma in allegato)

Il “cold case” è quello del musicista austriaco Gustav Mahler, morto a Vienna nel 1911 a causa proprio della patologia infettiva che colpisce il cuore. Dalla morte del compositore e direttore d’orchestra è trascorso oltre un secolo, ma l’endocardite rimane una malattia insidiosa, grave e con un elevato numero di complicanze anche mortali.

“L’endocardite rappresenta tuttora un importante problema clinico e chirurgico, la cui gestione non è ancora risolta né standardizzata – spiega il professor Barbieri -. La strategia migliore di assistenza del paziente è quella multidisciplinare. Per questo abbiamo voluto la presenza all’incontro di relatori provenienti da diverse aree mediche: infettivologi, cardiologi, cardiochirurghi, microbiologi, medici nucleari e internisti provenienti dal nostro ospedale, ma anche dall’Università di Verona e di Brescia”.

Cos’è l’endocardite

L’endocardite è un’infezione a livello delle valvole del cuore (endocardite valvolare) o che, più raramente, colpisce l’endocardio (endocardite murale) cioè la sottile membrana che riveste tutte le cavità del muscolo cardiaco. Ha un’incidenza annuale di 3-8 casi ogni 100mila abitanti.

Popolazione a rischio

Le persone più a rischio di sviluppare la malattia sono i portatori di un’anomalia congenita della valvola aortica (valvola bicuspide ad esempio) o di prolasso valvolare mitralico. “Queste tipologie di alterazioni valvolari – afferma la dottoressa Laura Lanzoni della Cardiologia di Negrar – creano un flusso sanguigno turbolento che va a ‘stressare’ l’endocardio valvolare rendendolo più suscettibile ad aggressioni batteriche. Ma può ammalarsi anche chi ha subito interventi di sostituzione di valvole cardiache o per cardiopatie congenite, i soggetti immunodepressi e tossicodipendenti”. Non da ultimi i portatori di device.

“L’impianto di pacemaker sempre più sofisticati che comportano l’inserimento dentro al cuore di più elettrodi e l’uso crescente di impianto percutaneo di protesi valvolari – interviene il professor Barbieri – possono comportare un maggior rischio di infezione, in quanto sono possibile soggetto di aggressione dei batteri” .

Sintomi

La gravità della malattia è determinato anche dal ritardo con cui viene effettuata spesso la diagnosi“La febbre e l’astenia, che sono i sintomi con aspecifici cui si manifesta sovente all’inizio la patologia – spiega l’infettivologo Andrea Angheben del Centro di Malattie tropicali di Negrar – non vengono ricondotti subito all’infezione, ma in genere solo dopo tentativi non risolutivi di terapia antibiotica e quindi il ricorso a una serie di esami specialistici. Dall’insediamento della vegetazione batterica alla diagnosi possono passare anche alcune settimane, tempo sufficiente per determinare un danno valvolare che spesso richiede, dopo la cura antibiotica, l’intervento del cardiochirurgo”.

Diagnosi

Il primo step diagnostico è l’ecocardiogramma trans-toracico, seguito, nella gran parte dei casi, da quello trans-esofageo, che viene eseguito, a differenza del primo, solo in ospedale. “Tramite l’esame ecocardiografico – spiega ancora la dottoressa Lanzoni – l’endocardite si manifesta con una massa oscillate (la vegetazione batterica) a livello delle valvole cardiache o con un ascesso, cioè una cavità con materiale purulento, a livello della valvola aortica”.

Al ruolo prioritario dell’ecocardiografia si è affiancata di recente la diagnostica nucleare (PET/CT) che offre immagini a volte dirimenti nella individuazione di ascessi, pseudoaneurismi e fistole, soprattutto in pazienti portatori di protesi valvolari, oltre che nell’identificazione di embolizzazioni ed ascessi extracardiaci.

Terapia

“La terapia antibiotica può durare dalle quattro alle oltre otto settimane – afferma il dottor Angheben -. Richiede spesso l’associazione di più farmaci somministrati in endovena il che comporta un rischio importanti effetti collaterali da monitorare. Per questo il paziente deve rimanere in ospedale spesso per tutta (o gran parte) della durata della terapia. Purtroppo non sempre gli antibiotici riescono a debellare l’infezione. A volte è necessario un intervento chirurgico per rimuovere il materiale infetto”

elena.zuppini@sacrocuore.i