Ipertrofia prostatica: intervento più sicuro con il laser

E’ indicato in particolare per coloro che assumono farmaci anticoagulanti o antiaggreganti in quanto il laser diminuisce notevolmente il rischio di sanguinamento, come spiega il direttore dell’Urologia, Stefano Cavalleri

Grazie al laser, l’ipertrofia prostatica benigna può essere trattata in piena sicurezza anche in pazienti che assumono anticoagulanti.

Finora sono una ventina gli uomini che si sono sottoposti a enucleazione endoscopica di prostata con laser presso l’Urologia, diretta dal professor Stefano Cavalleri. Un intervento eseguito in anestesia spinale con dimissioni entro le 24-48 ore.

“L‘ipertrofia prostatica benigna è di certo la malattia urologica più diffusa e lo sarà sempre di più visto l’aumento della vita media – prosegue il professor Cavalleri -. Colpisce l’80% degli uomini che hanno superato i 50 anni e consiste nell’ingrossamento (adenoma) della parte centrale della prostata a causa di modificazioni ormonali. Il paziente manifesta difficoltà a svuotare la vescica fino al blocco della minzione con il ricorso urgente all’applicazione del catetere“.

Proprio a causa dell’età, molti pazienti che soffrono di ipertrofia benigna sono affetti da malattie cardiovascolari, patologie del sangue o sono portatori di stent coronarici, quindi costretti ad assumere farmaci anticoagulanti o antiaggreganti. Essendo la prostata un organo molto vascolarizzato, l’intervento tradizionale, in laparoscopia o in endoscopia, comporta per queste persone il rischio di forte sanguinamento.

“Il laser al Tullio consente d’intervenire senza che il paziente debba sospendere la terapia – prosegue l’urologo – e sostituirla con farmaci in grado di migliorare il sanguinamento senza però garantire una completa copertura sul fronte cardiaco”.

Il trattamento con il laser avviene sempre per via endoscopica“risalendo attraverso il pene e l’uretra fino alla prostata – descrive l’urologo.- Qui vengono visualizzati i lobi prostatici ingrossati che possono essere enucleati e quindi asportati oppure vaporizzati grazie alla elevata energia del laser. Riducendo al massimo il sanguinamento. Infatti il laser ha una grande capacità di coagulare sia il tessuto che i vasi sanguigni”.

Il decorso post operatorio del trattamento con il laser è migliore rispetto alla resezione endoscopica: il paziente, che durante l’intervento è completamente sveglio, può lasciare l’ospedale dopo una sola notte di degenza, acquista immediatamente le normali funzioni urinarie e viene lasciato libero dal catetere dopo 12 ore anziché 48 come avviene per i trattamenti tradizionali.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Lavori in corso: portineria e ritiro referti sono trasferiti a Casa Perez

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La portineria Don Calabria è stata chiusa e trasferita presso Casa Perez in seguito all’inizio dei lavori propedeutici per la nuova Palazzina “Uffici e Servizi”. All’interno tutte le indicazioni

A causa dei lavori propedeutici per la realizzazione della nuova Palazzina “Uffici e Servizi”, la portineria Don Calabria (a metà di viale Rizzardi) è stata chiusa e trasferita presso Casa Perez dove sarà possibile ritirare anche i referti. Rimane aperta la portineria dell’ospedale Sacro Cuore.

Per arrivare a Casa Perez dalla portineria del Don Calabria si deve tornare indietro lungo il viale alberato fino alla rotonda e qui prendere la prima deviazione a destra. Casa Perez è subito sulla destra (vedi foto).

Sono state affisse alcune segnalazioni per indicare il nuovo percorso pedonale e carrabile (vedi mappa).


Infarto miocardico acuto: il "Sacro Cuore" tra i più virtuosi d'Italia

Il dottor Guido Canali risponde a tutte le domande sull’infarto miocardico acuto e sul suo trattamento, riguardo al quale l’Agenas indica l’ospedale di Negrar tra le strutture con i migliori risultati

Come si riconoscono i sintomi dell’infarto miocardico acuto? Cosa si deve fare quando insorgono? Che cos’è l’angioplastica? A tutte queste e ad altre domande risponde il dottor Guido Canali, responsabile della Cardiologia interventistica, nella quale lo scorso anno sono state eseguite 850 coronarografie (l’esame diagnostico che precede l’angioplastica) e 310 angioplastiche, di cui 150 in urgenza (vedi video).

La Cardiologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal professor Enrico Barbieri, è operativa h24 per tutto l’arco dell’anno. Questo significa che entro mezzora dall’arrivo del paziente il personale è pronto nelle sale di Emodinamica per l’intervento.

Secondo i dati Agenas 2016 (Agenzia regionale per i servizi sanitari) per quanto riguarda il trattamento dell’infarto miocardico acuto l’ospedale di Negrar è uno dei migliori in ItaliaNel 2015 la mortalità a 30 giorni è stata del 7,96% contro la media nazionale del 9,03%. Mentre la proporzione di pazienti con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica entro due giorni è del 75,95% contro una media nazionale del 43,32%.

“L’infarto acuto del miocardio – spiega il dottor Canali – si distingue in infarto con ST sopraslivellato (STEMI), che va sempre trattato nel minor tempo possibile dall’esordio dei sintomi in quanto ci troviamo di fronte ad un’occlusione completa della coronaria, e l’infarto NON ST sopraslivellati (NSTEMI). Quest’ultimo solitamente non presenta un’occlusione completa della coronaria ma una subocclusione che può essere più o meno importante. I pazienti di questo gruppo vanno trattati con coronarografia e angioplastica o subito o entro 48/72 ore in base all’andamento clinico. In questo gruppo possono anche esserci pazienti che, sempre per motivi clinici, non subiranno una coronaronarografia ma solo un trattamento medico”.


Il Sacro Cuore è sempre più "europeo"

‘ospedale di Negrar, unico nel Veneto, ha ottenuto l’accreditamento presso il Gruppo Informale degli Uffici di Rappresentanza Italiani a Bruxelles (GIURI). Si tratta di un importante punto d’appoggio per la partecipazione ai bandi in materia sanitaria

L’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria compie un nuovo passo verso l’Europa. E’ dello scorso mese di dicembre, infatti, l’avvenuto accreditamento della struttura scaligera presso il GIURI, il Gruppo Informale degli Uffici di Rappresentanza Italiani a Bruxelles.

 

L’organismo riunisce gli uffici italiani operanti nella ‘Capitale dell’Unione Europea’ e attivi nel campo della Ricerca e Innovazione. Ne fanno parte centri di ricerca, pubbliche amministrazioni centrali e regionali, associazioni di categoria, intermediari finanziari, istituti bancari e molte altre realtà. L’obiettivo di questo gruppo è facilitare e migliorare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra i propri membri con particolare attenzione al Programma Quadro sulla Ricerca ed Innovazione dell’UE, denominato Horizon 2020.

 

Grazie a questo accredito, l’ospedale di Negrar sarà aggiornato con la massima tempestività sui bandi di imminente uscita in tema di sanità, oltreché sulle nuove politiche di salute della Commissione Europea. Inoltre il GIURI può fornire un supporto operativo nella progettazione per partecipare ai bandi europei, in quanto è coordinato dall’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea (APRE), che è il Punto di Contatto Nazionale per l’8° Programma Quadro Europeo sulla Ricerca ed Innovazione, appunto HORIZON 2020 (ed è quindi l’ente di riferimento per ricevere supporto nella stesura dei progetti e nella partecipazione ai bandi).

 

Il Sacro Cuore, ad oggi, è l’unico Ospedale veneto iscritto al Gruppo, il quale comprende altresì importanti strutture sanitarie e diversi IRCSS italiani.

 

Enrico Andreoli


"Il lavoro prezioso degli operatori e del personale di servizio"

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In occasione della 25ma Giornata Mondiale del Malato danno la loro testimonianza le Piccole Suore della Sacra Famiglia che da 95 anni prestano la loro opera alla Cittadella della Carità di Negrar

Aiutare il malato, oggi, significa prendersi cura di lui come persona nella sua globalità. Per questo, oltre alla parte sanitaria di cui si occupano medici e infermieri, è fondamentale il lavoro degli operatori socio-sanitari e di tutto il personale che, con il proprio servizio, aiuta l’ospedale ad accompagnare chi soffre. Ne è convinta suor Lucia Serena, superiora della comunità delle Piccole Suore della Sacra Famiglia che aiutano ad assistere gli ammalati al Sacro Cuore. “Vedo ogni giorno degli esempi molto belli, direi quasi eroici, – dice – di operatori che con amore si dedicano a malati anche molto gravi, nel silenzio e con il sorriso”.

La testimonianza di suor Lucia e delle sue consorelle arriva in occasione della 25ma Giornata Mondiale del Malato, che si celebra sabato 11 febbraio (vedi discorso di Papa Francesco). Una festa che papa Francesco ha voluto rendere ancora più significativa promuovendo la presentazione della nuova Carta degli Operatori Sanitari realizzata dal Pontificio Consiglio che si occupa della pastorale sanitaria. La Giornata del Malato viene celebrata anche alla Cittadella della Carità con una S. Messa sabato alle ore 16.30 presso la cappella dell’ospedale Don Calabria, organizzata dal Consiglio di pastorale ospedaliera in collaborazione con l’Unitalsi e con la parrocchia di Negrar (vedi programma).

 

Le Piccole Suore della Sacra Famiglia, congregazione fondata dal beato Giuseppe Nascimbeni e dalla beata Maria Mantovani, prestano servizio al Sacro Cuore fin dalla sua fondazione 95 anni fa (vedi foto). Erano loro ad occuparsi di tutti i servizi in quello che era originariamente un ricovero per anziani poveri, fondato dal parroco di Negrar don Angelo Sempreboni nel 1922. Infermiere e cuoche, addette al guardaroba e assistenti notturne: la loro presenza era ovunque. Le suore rimasero al loro posto anche dopo l’arrivo di don Calabria nel 1933 e continuarono ad occuparsi dei vari servizi, compresi quelli infermieristici, dopo che il ricovero del Sacro Cuore diventò un ospedale vero e proprio.

 

Oggi le suore in servizio alla Cittadella della Carità sono sei. Oltre a suor Lucia, ci sono suor Carla e suor Bernardetta che prestano servizio a Negrar da oltre 40 anni. E poi suor Pia, suor Rosa e un’altra suor Lucia (vedi foto). La loro comunità risiede al terzo piano di Casa Clero. Da qualche tempo non si occupano più dei servizi infermieristici, ma lavorano nella pastorale ospedaliera, dedicandosi in particolare alla visita degli ammalati nei reparti e collaborando nell’animazione e nella preparazione delle celebrazioni. Tuttora ci sono invece tre suore carmelitane che lavorano come infermiere nei reparti.

 

“Il servizio nella pastorale è impegnativo – racconta suor Lucia – Credo che la cosa fondamentale sia entrare in punta di piedi, cercando di instaurare un rapporto umano di vicinanza con chi soffre. Gran parte del nostro lavoro consiste nella capacità di ascoltare gli ammalati e i loro cari, con rispetto e cercando di dare loro un messaggio di speranza”.

 

L’opera pastorale viene svolta in tutte le strutture della Cittadella: Casa Clero, Casa Nogarè, Casa Perez, ospedale Don Calabria e Sacro Cuore. Un lavoro che dà l’opportunità di prendersi cura degli ammalati in modo integrale. “L’ospedale è cambiato molto, oggi la parte tecnologica ha fatto passi da gigante ed è importantissima – conclude suor Lucia – ora la sfida per tutto il personale, noi comprese, è quella di integrare la parte tecnica con quella umana e pastorale. E su questo torno a sottolineare l’importanza degli operatori e del personale di servizio che può davvero collaborare con infermieri e medici nel valorizzare il paziente come persona, facendolo sentire accolto e accompagnato nella sua malattia. Questo mi sembra un messaggio di grande attualità per questa Giornata Mondiale del Malato”.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Tumore al seno: una nuova tecnica riduce il dolore post operatorio

L’analgesia della parete toracica diminuisce notevolmente la somministrazione di farmaci antidolorifici dopo l’intervento incidendo sul benessere psico-fisico della donna e quindi sulla ripresa delle normali attività quotidiane

La Chirurgia senologica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar si conferma un’eccellenza nell’ambito del trattamento chirurgico del cancro alla mammella anche per una particolare attenzione all’aspetto psico-fisico della paziente.

Infatti oltre a utilizzare tecniche innovative in campo strettamente chirurgico, come la chirurgia radioguidata, la radioterapia intraoperatoria e le tecniche oncoplastiche, dedica particolare attenzione alla gestione della paziente nel periodo pre e post operatorio per assicurare alla stessa il maggior confort possibile e quindi garantire la ripresa delle normali attività quotidiane nel minor tempo.

Da circa un anno, infatti, la Chirurgia senologica, diretta dal dottor Alberto Massocco, in collaborazione con il Dipartimento di Anestesia e Terapia Antalgica, diretto dal dottor Luigi Giacopuzzi, offrono alle pazienti la possibilità di sottoporsi a una nuova tecnica analgesica, che favorisce il controllo del dolore nelle ore successive all’intervento quando viene meno l’effetto dell’anestesia generale.

Si tratta del blocco del muscolo serrato anteriore, una procedura che viene praticata solo in pochi centri in Italia.

“Il serrato anteriore è quel muscolo che si trova ai lati del torace, inferiormente al cavo ascellare – spiegano gli anestesisti Alessio Ferri e Giovanni Lodi -. Tramite guida ecografica individuiamo il muscolo serrato e andiamo a somministrare l’anestetico al di sotto o al di sopra dello stesso dove decorrono le fibre sensitive che innervano la parte superiore del torace bloccando la conduzione del dolore”.

La tecnica è poco invasiva e quasi totalmente indolore per la paziente. Nel 2016 sono state eseguite 150 procedure.

“E’ un trattamento di analgesia che ha un notevole impatto sulla diminuzione del dolore post operatorio tanto che viene ridotta la somministrazione dei farmaci antidolorifici – sottolinea il dottor Massocco – Questo incide positivamente sulla ripresa post intervento e anche sul benessere psico-fisico riducendo lo stress della donna, già fortemente provata dalla diagnosi della malattia”

Il blocco del serrato è indicato per le pazienti di ogni età. Ma in particolarmente per le donne in età avanzata “l’analgesia della parete toracica permette in alcuni casi di eseguire l’intervento in sedazione profonda riducendo i rischi dell’anestesia generale che negli anziani possono manifestarsi con episodi di disorientamento o demenza postoperatoria, ma anche insufficienza renale legata all’uso di antidolorifici. Lo stesso vale per tutte le pazienti per le quali è controindicata l’anestesia generale “, concludono gli anestesisti.

Al “Sacro Cuore Don Calabria” vengono eseguiti all’anno 300 interventi per cancro alla mammella, numeri che confermano l’ospedale di Negrar tra le eccellenze della senologia veneta nonostante non sia sede di screening senologico. Il 70% degli interventi è di tipo conservativo e quando è necessaria la mastectomia, quello di Negrar è uno dei pochi centri in Italia ad eseguire la demolizione e la ricostruzione nello stesso intervento e a cercare di preservare il complesso areola capezzolo qualora sia possibile.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Nella foto di copertina da sinistra: il dottor Luigi Giacopuzzi, le chirurghe senologhe Rossella Bettini e Chiara Boccardo, gli anestesisti Giovanni Lodi e Alessio Ferri, e il dottor Alberto Massocco


Tumore al polmone: la Pet prevede la risposta alla radioterapia

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Importante studio della Radioterapia Oncologica e della Medicina Nucleare di Negrar sul ruolo della PET come guida per predire la risposta alla radioterapia polmonare e personalizzare il trattamento

La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) ha un ruolo ormai stabilito per definire lo stadio di malattia in gran parte dei pazienti oncologici.

Recentemente, la PET e’ sempre più impiegata per stimare la risposta al trattamento delle lesioni tumorali polmonari. A differenza della sola Tomografia Computerizzata (TC) che viene usata di norma e fornisce prevalentemente una descrizione della estensione di malattia, la PET può dare cruciali informazioni predittive su come il tumore risponderà alla radioterapia, informazioni che consentono un approccio sempre più personalizzato al paziente.

E’ quanto emerso dallo studio realizzato dalla Radioterapia Oncologia e dalla Medicina Nucleare dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar e pubblicato recentemente dal Journal Thoracic Oncology, la rivista ufficiale dell’associazione internazionale che studia il cancro al polmone (The International Association for the Study of Lung Cancer-IASLC).

Si tratta del primo studio (in allegato il testo) di questo genere, che prende spunto dal dibattito all’interno della comunità scientifica mondiale sull’utilità e sull’opportunità, anche economica, di sottoporre all’esame PET con radiofarmaco Fluorodesossiglucosio il paziente con un numero limitato di metastasi polmonari (da una a cinque) prima del trattamento radioterapico di precisione.

La PET in genere viene utilizzata solo per i casi dubbi, mentre la maggior parte dei pazienti viene sottoposta alla sola TC.

“Per lo studio abbiamo arruolato cinquanta pazienti e trattato settanta lesioni polmonari. L’obiettivo era quello di dimostrare che la PET ha un ruolo fondamentale per comprendere come si comporteranno le sedi tumorali polmonari sottoposte ad alte dosi mirate di radiazioni” spiega il dottor Filippo Alongi, direttore della Radioterapia Oncologica di Negrar, già sede di insegnamento della scuola di specializzazione in Radioterapia dell’Università di Brescia.

“Abbiamo constatato che la guarigione a sei mesi dopo la radioterapia è associata in modo significativo al valore della PET effettuata prima del trattamento – sottolinea -. La PET, infatti, non fornisce informazioni sulla dimensione delle lesioni, come la TC, ma ne descrive il profilo metabolico e può anche anticipare il comportamento biologico delle cellule tumorali e la capacità di rispondere alla radioterapia. Se le cellule captano fino ad una certa quantità di radiofarmaco, significa che risponderanno meglio al trattamento. Al contrario, richiederanno un approccio personalizzato rispetto al trattamento di base“.

elena.zuppini@sacrocuore.it


La lotta contro il cancro parte dalla prevenzione

Il 4 febbraio è la Giornata mondiale contro il cancro, quest’anno dedicata alla prevenzione. L’oncologa Stefania Gori spiega in un video quali sono le armi a nostra disposizione per diminuire il rischio di ammalarsi

Oggi 4 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale contro il cancro, promossa dall’Uicc (Unione internazionale contro il cancro), l’organizzazione non governativa che unisce le associazioni impegnate in campo oncologico e presenti in oltre cento Paesi.

L’edizione 2017, sostenuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ha come tema “Combattere il cancro con la prevenzione” e un motto emblematico “We can. I can”, “Noi possiamo. Io posso”, perché la prevenzione è alla portata di tutti.

Se da una parte negli ultimi anni si sono fatti passi enormi nella cura dei tumori tanto da raggiungere un tasso di guaribilità per alcune neoplasie del 90% (cancro al seno e alla prostata), dall’altra stenta a decollare la cultura della prevenzione anche nell’ambito oncologico.

I dati rilevano che un tumore su tre potrebbe essere evitato grazie a corretti stili di vita, a partire dall’alimentazione, eliminando il fumo ed eseguendo un quotidiano esercizio fisico.

La dottoressa Stefania Gori, direttore dell‘Oncologia Medicadell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Cancer Care Center e presidente eletto dell’Associazione italiana Oncologia Medica, spiega nel filmato in videogallery cosa significa prevenzione nell’ambito dei tumori e quali azioni si possono mettere in atto per diminuire il rischio di ammalarsi di cancro.


Il piccolo "proiettile" che fa battere il cuore

I cardiologi Giulio Molon e Alessandro Costa hanno impiantato per la prima volta a Negrar un pacemaker che sta tutto dentro il cuore: un dispositivo dalle dimensioni estremamente ridotte e senza catetere, ma con le stesse funzioni di quello tradizionale

Ha la forma di un proiettile, ma una volta inserito nel cuore si preoccupa che il muscolo più importante del nostro corpo batta regolarmente.

Si tratta di un pacemaker “leadless”, ossia senza catetere (nella foto), ed è stato impiantato per la prima volta nei giorni scorsi nella sala di Elettrofisiologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria in una paziente di 85 anni.

“E’ il primo pacemaker commercializzato in Italia con queste dimensioni ridotte, tanto da essere, a differenza di quello convenzionale, contenuto tutto dentro al cuore”, spiega il dottor Giulio Molon, responsabile della Struttura semplice di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione, che ha eseguito l’intervento con il dottor Alessandro Costa.

Infatti il dispositivo pesa 1,75 grammi, ha un volume di 0,8 centimetri cubici, una lunghezza di 25,9 millimetri e un diametro esterno di 6,7 millimetri. E’ alimentato da una batteria, che ha una durata di dieci anni.

I pacemaker tradizionali sono composti da una “scatoletta” in metallo, contenente un circuito elettronico e una batteria, che viene inserita sotto cute, generalmente alla spalla sinistra. Dal dispositivo parte un elettrocatetere, che attraverso una vena della spalla e la vena cava superiore raggiunge il cuore dove viene posizionato all’apice del ventricolo destro.

“Il compito del pacemaker è quello di monitorare costantemente il cuore – spiega ancora il dottor Molon -. Se l’elettrocatetere capta un ritmo troppo basso, irregolare o addirittura assente, invia l’informazione al pacemaker che immediatamente manda lo stimolo e ripristina il battito regolare”. La funzione del pacemaker leadless è la stessa, ma “l’apparecchio, privo del catetere, è contenuto tutto dentro al cuore”.

L’impianto del piccolo “proiettile” avviene per via percutanea attraverso la vena femorale. “Il pacemaker è inserito all’apice di un introduttore, ossia un tubicino – illustra il dottor Molon -. Una volta raggiunto il ventricolo destro, vengono svolte tutte le procedure per posizionare adeguatamente il dispositivo, per farlo agganciare alla parete cardiaca ed accertare che sia ben ancorato al muscolo cardiaco attraverso almeno due delle quattro alette posteriori. Una volta verificato che i parametri elettrici siano ottimali, il pacemaker viene rilasciato e l’introduttore ritirato per la stessa via”.


Il piccolo pacemaker non è attualmente indicato per tutti pazienti affetti da patologie che compromettono il ritmo cardiaco
. “La signora in questione era il candidato ideale per questo impianto – precisa il cardiologo -. A causa di interventi pregressi sul torace, l’inserimento del pacemaker tradizionale si era verificato fallimentare vista l’estesa cicatrizzazione che impediva la corretta guarigione della ferita. Pertanto abbiamo rimosso il dispositivo precedente e inserito l’apparecchio di nuova generazione”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Nella lotta alla lebbra c'è anche l'ospedale di Negrar

Domenica 29 gennaio si celebra la 64ma giornata mondiale dei malati di lebbra. Una malattia rara in Italia, ma non scomparsa, per la quale il reparto di Malattie Tropicali è centro regionale accreditato

Esiste ancora la lebbra in Italia? C’è qualche attinenza tra questa malattia e il fenomeno delle migrazioni? Si può curare? Sono tante le domande che ancora oggi suscita la parola “lebbra”, tanto più che ci sono dei luoghi nel pianeta dove questa malattia continua ad essere una grave minaccia per la salute pubblica, come in alcune zone del Brasile, in Asia e in aree circoscritte dell’Africa. L’occasione per parlarne è la 64ma giornata mondiale dei malati di lebbra, che si celebra domenica 29 gennaio. Una giornata che interessa da vicino anche il Sacro Cuore, dal momento che il Centro per le Malattie Tropicali diretto dal dottor Zeno Bisoffi è riferimento regionale accreditato per le malattie rare infettive, tra cui appunto la lebbra (vedi sito di AIFO, ente che promuove la giornata).

 

“Ogni anno nel mondo ci sono oltre 200mila nuovi casi di lebbra, ma in Italia la malattia è praticamente scomparsa. Noi qui al Sacro Cuore ne vediamo casi sporadici. Generalmente si tratta di missionari o di persone che hanno lavorato per molti anni in zone endemiche, spesso in aree rurali”dice la dottoressa Anna Beltrame, medico infettivologo del Centro Malattie Tropicali (vedi foto).

 

E la questione dei migranti? “Per quanto ci compete non abbiamo mai riscontrato casi di lebbra tra i migranti e in generale direi che non c’è alcun allarme in questo senso – continua la dottoressa Beltrame – Il motivo è che la maggior parte di loro proviene da Paesi africani e in Africa sono poche le zone dove la malattia è endemica. In secondo luogo si tratta per lo più di persone giovani con un buon sistema immunitario, per cui anche se fossero entrati in contatto con il micobatterio della lebbra difficilmente svilupperebbero la malattia”. La lebbra, infatti, rimane silente nel 95% dei soggetti che hanno contratto il micobatterio, un po’ come accade per la tubercolosi. La malattia può essere sviluppata anche molti anni dopo, qualora una persona viva in condizioni di estrema privazione.

 

In quanto centro di riferimento regionale, il reparto di Malattie Tropicali è attrezzato per fare la diagnosi della malattia, che viene fatta con una biopsia e un esame microscopico diretto. La diagnosi deve poi essere confermata dal Centro di Genova, che rappresenta il riferimento nazionale, con la biologia molecolare. “I sintomi non sono sempre facili da riconoscere, proprio perché è una malattia rara. Possono essere macchie sulla pelle, noduli, papule e problemi ai nervi periferici. A volte si può scambiarli per quelli di altre patologie, ad esempio sciatalgia o tunnel carpale. Per questo al minimo sospetto è importante inviare il paziente a un centro specializzato“, dice Beltrame.

 

La lebbra è una malattia oggi perfettamente curabile attraverso una terapia antibiotica che dura circa un anno, da somministrare in regime ambulatoriale. Se la diagnosi avviene per tempo si può dunque guarire in modo completo. In caso di mancata diagnosi, invece, la patologia si cronicizza e porta alla menomazione dei nervi periferici, causando paralisi e disabilità.

 

A livello mondiale, secondo i dati dell’OMS il Paese con più nuovi casi nel 2015 è stato l’India (127.326) seguito dal Brasile (26.395) e dall’Indonesia (17.202). In Europa i casi segnalati sono stati 18.

 

Proprio con il Brasile esiste un legame particolare da parte dell’ospedale di Negrar anche sul fronte della lebbra. Infatti da alcuni anni il Sacro Cuore collabora con l’ospedale di Marituba, anch’esso gestito dall’Opera Don Calabria, che si trova in un’ex colonia di lebbrosi dove la lebbra è tuttora endemica e diffusa. “Ci sarebbero tutte le possibilità di eradicare la lebbra nell’arco di qualche decennio, proprio perché esiste una cura efficace. Il problema è che si tratta di una malattia negletta sulla quale è difficile portare l’attenzione dell’opinione pubblica”, conclude la dottoressa Beltrame.

matteo.cavejari@sacrocuore.it