La lotta contro il cancro parte dalla prevenzione

Il 4 febbraio è la Giornata mondiale contro il cancro, quest’anno dedicata alla prevenzione. L’oncologa Stefania Gori spiega in un video quali sono le armi a nostra disposizione per diminuire il rischio di ammalarsi

Oggi 4 febbraio si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale contro il cancro, promossa dall’Uicc (Unione internazionale contro il cancro), l’organizzazione non governativa che unisce le associazioni impegnate in campo oncologico e presenti in oltre cento Paesi.

L’edizione 2017, sostenuta dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ha come tema “Combattere il cancro con la prevenzione” e un motto emblematico “We can. I can”, “Noi possiamo. Io posso”, perché la prevenzione è alla portata di tutti.

Se da una parte negli ultimi anni si sono fatti passi enormi nella cura dei tumori tanto da raggiungere un tasso di guaribilità per alcune neoplasie del 90% (cancro al seno e alla prostata), dall’altra stenta a decollare la cultura della prevenzione anche nell’ambito oncologico.

I dati rilevano che un tumore su tre potrebbe essere evitato grazie a corretti stili di vita, a partire dall’alimentazione, eliminando il fumo ed eseguendo un quotidiano esercizio fisico.

La dottoressa Stefania Gori, direttore dell‘Oncologia Medicadell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria-Cancer Care Center e presidente eletto dell’Associazione italiana Oncologia Medica, spiega nel filmato in videogallery cosa significa prevenzione nell’ambito dei tumori e quali azioni si possono mettere in atto per diminuire il rischio di ammalarsi di cancro.


Il piccolo "proiettile" che fa battere il cuore

I cardiologi Giulio Molon e Alessandro Costa hanno impiantato per la prima volta a Negrar un pacemaker che sta tutto dentro il cuore: un dispositivo dalle dimensioni estremamente ridotte e senza catetere, ma con le stesse funzioni di quello tradizionale

Ha la forma di un proiettile, ma una volta inserito nel cuore si preoccupa che il muscolo più importante del nostro corpo batta regolarmente.

Si tratta di un pacemaker “leadless”, ossia senza catetere (nella foto), ed è stato impiantato per la prima volta nei giorni scorsi nella sala di Elettrofisiologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria in una paziente di 85 anni.

“E’ il primo pacemaker commercializzato in Italia con queste dimensioni ridotte, tanto da essere, a differenza di quello convenzionale, contenuto tutto dentro al cuore”, spiega il dottor Giulio Molon, responsabile della Struttura semplice di Elettrofisiologia e Cardiostimolazione, che ha eseguito l’intervento con il dottor Alessandro Costa.

Infatti il dispositivo pesa 1,75 grammi, ha un volume di 0,8 centimetri cubici, una lunghezza di 25,9 millimetri e un diametro esterno di 6,7 millimetri. E’ alimentato da una batteria, che ha una durata di dieci anni.

I pacemaker tradizionali sono composti da una “scatoletta” in metallo, contenente un circuito elettronico e una batteria, che viene inserita sotto cute, generalmente alla spalla sinistra. Dal dispositivo parte un elettrocatetere, che attraverso una vena della spalla e la vena cava superiore raggiunge il cuore dove viene posizionato all’apice del ventricolo destro.

“Il compito del pacemaker è quello di monitorare costantemente il cuore – spiega ancora il dottor Molon -. Se l’elettrocatetere capta un ritmo troppo basso, irregolare o addirittura assente, invia l’informazione al pacemaker che immediatamente manda lo stimolo e ripristina il battito regolare”. La funzione del pacemaker leadless è la stessa, ma “l’apparecchio, privo del catetere, è contenuto tutto dentro al cuore”.

L’impianto del piccolo “proiettile” avviene per via percutanea attraverso la vena femorale. “Il pacemaker è inserito all’apice di un introduttore, ossia un tubicino – illustra il dottor Molon -. Una volta raggiunto il ventricolo destro, vengono svolte tutte le procedure per posizionare adeguatamente il dispositivo, per farlo agganciare alla parete cardiaca ed accertare che sia ben ancorato al muscolo cardiaco attraverso almeno due delle quattro alette posteriori. Una volta verificato che i parametri elettrici siano ottimali, il pacemaker viene rilasciato e l’introduttore ritirato per la stessa via”.


Il piccolo pacemaker non è attualmente indicato per tutti pazienti affetti da patologie che compromettono il ritmo cardiaco
. “La signora in questione era il candidato ideale per questo impianto – precisa il cardiologo -. A causa di interventi pregressi sul torace, l’inserimento del pacemaker tradizionale si era verificato fallimentare vista l’estesa cicatrizzazione che impediva la corretta guarigione della ferita. Pertanto abbiamo rimosso il dispositivo precedente e inserito l’apparecchio di nuova generazione”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Nella lotta alla lebbra c'è anche l'ospedale di Negrar

Domenica 29 gennaio si celebra la 64ma giornata mondiale dei malati di lebbra. Una malattia rara in Italia, ma non scomparsa, per la quale il reparto di Malattie Tropicali è centro regionale accreditato

Esiste ancora la lebbra in Italia? C’è qualche attinenza tra questa malattia e il fenomeno delle migrazioni? Si può curare? Sono tante le domande che ancora oggi suscita la parola “lebbra”, tanto più che ci sono dei luoghi nel pianeta dove questa malattia continua ad essere una grave minaccia per la salute pubblica, come in alcune zone del Brasile, in Asia e in aree circoscritte dell’Africa. L’occasione per parlarne è la 64ma giornata mondiale dei malati di lebbra, che si celebra domenica 29 gennaio. Una giornata che interessa da vicino anche il Sacro Cuore, dal momento che il Centro per le Malattie Tropicali diretto dal dottor Zeno Bisoffi è riferimento regionale accreditato per le malattie rare infettive, tra cui appunto la lebbra (vedi sito di AIFO, ente che promuove la giornata).

 

“Ogni anno nel mondo ci sono oltre 200mila nuovi casi di lebbra, ma in Italia la malattia è praticamente scomparsa. Noi qui al Sacro Cuore ne vediamo casi sporadici. Generalmente si tratta di missionari o di persone che hanno lavorato per molti anni in zone endemiche, spesso in aree rurali”dice la dottoressa Anna Beltrame, medico infettivologo del Centro Malattie Tropicali (vedi foto).

 

E la questione dei migranti? “Per quanto ci compete non abbiamo mai riscontrato casi di lebbra tra i migranti e in generale direi che non c’è alcun allarme in questo senso – continua la dottoressa Beltrame – Il motivo è che la maggior parte di loro proviene da Paesi africani e in Africa sono poche le zone dove la malattia è endemica. In secondo luogo si tratta per lo più di persone giovani con un buon sistema immunitario, per cui anche se fossero entrati in contatto con il micobatterio della lebbra difficilmente svilupperebbero la malattia”. La lebbra, infatti, rimane silente nel 95% dei soggetti che hanno contratto il micobatterio, un po’ come accade per la tubercolosi. La malattia può essere sviluppata anche molti anni dopo, qualora una persona viva in condizioni di estrema privazione.

 

In quanto centro di riferimento regionale, il reparto di Malattie Tropicali è attrezzato per fare la diagnosi della malattia, che viene fatta con una biopsia e un esame microscopico diretto. La diagnosi deve poi essere confermata dal Centro di Genova, che rappresenta il riferimento nazionale, con la biologia molecolare. “I sintomi non sono sempre facili da riconoscere, proprio perché è una malattia rara. Possono essere macchie sulla pelle, noduli, papule e problemi ai nervi periferici. A volte si può scambiarli per quelli di altre patologie, ad esempio sciatalgia o tunnel carpale. Per questo al minimo sospetto è importante inviare il paziente a un centro specializzato“, dice Beltrame.

 

La lebbra è una malattia oggi perfettamente curabile attraverso una terapia antibiotica che dura circa un anno, da somministrare in regime ambulatoriale. Se la diagnosi avviene per tempo si può dunque guarire in modo completo. In caso di mancata diagnosi, invece, la patologia si cronicizza e porta alla menomazione dei nervi periferici, causando paralisi e disabilità.

 

A livello mondiale, secondo i dati dell’OMS il Paese con più nuovi casi nel 2015 è stato l’India (127.326) seguito dal Brasile (26.395) e dall’Indonesia (17.202). In Europa i casi segnalati sono stati 18.

 

Proprio con il Brasile esiste un legame particolare da parte dell’ospedale di Negrar anche sul fronte della lebbra. Infatti da alcuni anni il Sacro Cuore collabora con l’ospedale di Marituba, anch’esso gestito dall’Opera Don Calabria, che si trova in un’ex colonia di lebbrosi dove la lebbra è tuttora endemica e diffusa. “Ci sarebbero tutte le possibilità di eradicare la lebbra nell’arco di qualche decennio, proprio perché esiste una cura efficace. Il problema è che si tratta di una malattia negletta sulla quale è difficile portare l’attenzione dell’opinione pubblica”, conclude la dottoressa Beltrame.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Il Sacro Cuore consulente del Papa per i progetti sanitari in Ucraina

Una delegazione dell’ospedale nelle zone più colpite dalla guerra per rilevare i bisogni sanitari più urgenti e stabilire i criteri di selezione dei progetti che saranno finanziati da papa Francesco

L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria a fianco della Nunziatura di Kiev per la realizzazione di una serie di interventi umanitari a carattere sanitario voluti e finanziati con i fondi messi a disposizione da papa Francesco in favore della popolazione dell’Ucraina orientale drammaticamente provata dalla guerra.

Il nuovo progetto di cooperazione internazionale della struttura di Negrar rientra nell’iniziativa “Il Papa per l’Ucrania” per la quale lo scorso 24 aprile è stata indetta una colletta in tutte le parrocchie d’Europa.

La richiesta di consulenza è arrivata direttamente da mons. Claudio Gugerotti, il vescovo veronese, “ambasciatore” della Santa Sede nell’ex Repubblica Sovietica. La risposta della direzione dell’ospedale di Negrar non si è fatta attendere, con l’invio in Ucraina dal 23 al 27 ottobre scorsi di un’équipe, formata dai medici Claudio Bianconi, direttore della Neurologia, Zeno Bisoffi, direttore del Centro per la Malattie Tropicali, Carlo Lorenzi, del Pronto Soccorso, e dalla dottoressa Teresa Zuppini, direttore della Farmacia dell’ospedale. Ad accompagnarli don Ivo Pasa, delegato per l’Europa dell’Opera Don Calabria.

Il compito degli operatori sanitari è stato quello in primo luogo di acquisire informazioni sulla situazione sanitaria ucraina e in particolare della regione del Donbass dove dall’aprile del 2014 è in corso una guerra che ha provocato 10mila vittime e circa un milione di rifugiati, fuggiti dalle Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Luhamsk, sotto controllo dei separatisti.

Nella zona sud-orientale del Paese hanno in particolare visitato le strutture sanitarie e ospedaliere presenti a Zaporizha e a Mariupol, toccando con mano i bisogni della popolazione stremata dal conflitto.“Durante la nostra permanenza – proseguono – abbiamo potuto confrontarci con il Comitato locale individuato dal Papa con il compito di raccogliere e valutare i progetti presentati, rispondendo a un apposito bando, dalle organizzazioni umanitarie che lavorano sul posto.

A questo proposito abbiamo incontrato i rappresentanti dell’Unicef, di Medici Senza Frontiere, dell’Association International de Cooperation Medicale (solo per citarne alcune) e di istituzioni come l’Organizzazione mondiale della Sanità e dell’OCHA Ukraine (Office for Coordination of Humanitarian Affairs). Al termine della missione abbiamo consegnato al Nunzio una relazione, poi sottoposta al Santo Padre, come contributo per l’elaborazione di criteri di valutazione dei progetti. Abbiamo dato poi la disponibilità a collaborare per la realizzazione di quelli che verranno scelti”.

Particolarmente significativo è stato l’incontro con vescovo ausiliare di Zaporizha, città a 230 km dalla “zona grigia” dove si sono riversati moltissimi rifugiati. Mons. Jan Sobilo, presidente del Comitato nominato dal Papa, porta avanti con la sua comunità e con fondi autonomi una mensa nella sede vescovile che ogni giorno prepara pasti per 150 rifugiati. Inoltre ha dato la possibilità alla Caritas di attivare un piccolo ambulatorio, che fornisce assistenza medica e farmaceutica ai più poveri e tiene continui contatti con le zone di guerra.

Infatti ad essere particolarmente drammatica è la condizione dei rifugiati. Coloro che si sono allontanati dalle aree di guerra e si sono riversati nelle città ucraine limitrofe, sono degli “invisibili”, privi cioè di qualsiasi copertura sociale e sanitaria. Un destino che li accomuna a chi è rimasto nella “zona grigia”, in quanto le autorità ucraine per frenare il contagio separatista hanno introdotto un rigido sistema di permessi di entrata e di uscita dalle Repubbliche autoproclamate, dove il governo di Poroshenko ha sospeso l’erogazione di tutti i servizi sociali e sanitari. Così gli anziani ogni mese per ritirare la magra pensione sono costretti a recarsi nelle zone controllate dagli ucraini, andando ad allungare così le file ai check point insieme a coloro che si recano “dall’altra parte” in cerca di lavoro.

“La situazione sanitaria è molto complessa – raccontano – perché dal punto di vista organizzativo sono rimasti ospedali dell’ex Unione Sovietica, ma sostenuti con limitati finanziamenti da parte dello Stato. Nelle città sono presenti alcuni grandi strutture ospedaliere con tanti medici ed infermieri malpagati e le cure mediche e farmacologiche sono quasi totalmente a carico dei pazienti.

Le dotazioni tecnologiche sono limitate ed obsolete. Abbiamo visitato una Terapia Intensiva Neurochirurgica con il pavimento e la porta in legno, dove la sacca del catetere urinario è una bottiglia di plastica e i letti formati da materassini di gomma piuma”.

Una delle emergenze sanitarie maggiori è quella legata alla tubercolosi: l’Ucraina è uno dei cinque Paesi al mondo con il più alto numero di casi di TBC farmaco-resistente. Esistono gravi limiti nell’identificazione della malattia e nella gestione terapeutica. E pure dove si riscontrano livelli di eccellenza ci sono grosse difficoltà a dare continuità ai metodi di diagnosi e cura più moderni. Anche AIDS è molto diffuso, ma non è meno impellente la necessità di un supporto psicologico per i casi di stress post bellico e per gli sfollati, soprattutto bambini e anziani.

Nella “zona grigia”, anche ucraina, è particolarmente deficitaria l’attività di soccorso dei feriti di guerra: le ambulanze sono poche, anche perché per entrare nell’area sono necessari i permessi dell’esercito.

“Il Comitato locale sta valutando i tanti progetti – concludono gli operatori -. Noi analizzeremo e valuteremo quelli più complessi, alcuni dei quali sono già arrivati. L’obiettivo è quello di realizzare iniziative che abbiano una durata nel tempo. Per esempio per mancanza di finanziamenti, l’Oms è stata costretta a sospendere una rete di ambulatori mobili che con medici e infermieri a bordo portavano assistenza e farmaci nelle città e nei villaggi della “zona grigia”. Tutti i soggetti incontrati durante la visita hanno ribadito l’urgenza di riattivare questo servizio”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

FOTO:

In copertina: la delegazione del “Sacro Cuore Don Calabria” con il nunzio apostolico, il veronese Claudio Gugerotti (il terzo da sinistra) e il suo staff.

Photo Gallery:

1. La delegazione a colloquio nella città di Mariupol con le organizzazioni non governative

2-3-4 Un distretto sanitario e alcune stanze dello stesso nella zona grigia

5. Vicino a un check-point


Ti racconto Marituba: storia di un ospedale sognato dai poveri

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Fratel Gedovar Nazzari racconta l’epopea dell’ospedale calabriano realizzato 20 anni fa nella regione amazzonica, che sarà al centro di uno spettacolo benefico in programma venerdì 3 febbraio alla Gran Guardia di Verona

“Ricordo bene il giorno in cui venne inaugurato l’ospedale Divina Providencia di Marituba, nel 1997. Era per tutti noi una grande soddisfazione. Costruire quell’ospedale era costato molta fatica, c’erano state innumerevoli difficoltà da superare, ma quel giorno il sogno di tanta povera gente si era realizzato”.

 

Fratel Gedovar Nazzari, oggi presidente dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, si illumina quando parla di Marituba e dell’ospedale Divina Providência. A quel tempo era infatti direttore della missione dell’Opera Don Calabria nella piccola città del nord brasiliano, alle porte dell’Amazzonia. E in questa veste seguì passo passo il progetto del nuovo ospedale calabriano (vedi foto). “Un ospedale che è diventato subito un simbolo di riscatto per migliaia di poveri della regione che altrimenti non avrebbero avuto, e ancora non avrebbero, un accesso a cure dignitose” (vedi il video sulla Missione di Marituba e sul suo fondatore don Aristide Pirovano).

 

La presenza di fratel Gedovar rende ancora più tangibile il legame che unisce Marituba a Negrar. Un legame di amicizia iniziato nel 2006, quando il Sacro Cuore avviò un progetto di collaborazione che in questi anni ha coinvolto tante persone, portando alla realizzazione di percorsi di formazione per il personale medico e paramedico locale, all’adeguamento delle strutture e all’acquisto di nuove attrezzature mediche per l’ospedale brasiliano.

 

Questo legame di amicizia e di aiuto verrà rinnovato il prossimo venerdì 3 febbraio con uno spettacolo di beneficenza alla Gran Guardia di Verona alle ore 21 per contribuire alla realizzazione della nuova chirurgia dell’ospedale Divina Providência. L’evento, intitolato “Ti racconto Marituba”, è stato creato da Gianni De Lellis e vedrà l’accompagnamento musicale della Big Band Ritmo Sinfonica Città di Verona. Uno spettacolo realizzato grazie al sostegno dell’ospedale Sacro Cuore, degli Amici di Marituba e dell’associazione Don Calabria Missioni Sostegno Sanità Onlus, l’ente che si occupa di promuovere i progetti missionari dell’Opera calabriana (vedi programma della serata e indicazioni per il ritiro degli inviti con offerta).

 

Fratel Gedovar, quando inizia l’epopea di Marituba?

Tutto nasce nel 1967, quando Marcello Candia, un industriale milanese, visita la colonia di lebbrosi di Marituba. Rimane talmente colpito dalla situazione di degrado e disperazione in cui vivono, che decide di stabilirsi là. Candia avvia una serie di iniziative per migliorare le condizioni di vita dei lebbrosi, coinvolgendo molti amici dall’Italia. Alla fine degli anni Settanta l’ingegnere milanese viene raggiunto a Marituba da mons. Aristide Pirovano, un vescovo italiano del PIME (Pio Istituto per le Missioni Estere). Sotto l’impulso di mons. Pirovano vengono avviate molte iniziative sociali a favore non solo dei lebbrosi, ma anche dei tanti abitanti “non lebbrosi” che nel frattempo si erano stabiliti intorno al lebbrosario. Nascono così scuole, asili, parrocchie, centri di salute…

 

Quando arrivò l’Opera Don Calabria?

L’Opera Don Calabria arrivò a Marituba nel 1991 su invito di mons. Pirovano. Da allora prendemmo in gestione tutte le attività della missione. Io fui il primo direttore e mantenni l’incarico fino al 2004.

 

Quindi lei ha conosciuto mons. Pirovano. Cosa ricorda di lui?

Ho lavorato fianco a fianco con mons. Pirovano durante i primi sei mesi della nostra permanenza a Marituba e lui mi ha fatto vedere come funzionava la missione. Di lui posso dire che era un grande leader carismatico e spirituale, un uomo di fede, un vero esempio di pastore. Io lo definirei come un grande imprenditore del sociale che aveva un amore immenso per i poveri e per i lebbrosi.

 

Perché avete deciso di fare un ospedale? Non bastava il lebbrosario?

Per una colonia di lebbrosi è importante avere un ospedale vicino perché i malati devono fare molti esami che non sono disponibili nel lebbrosario. Tuttavia al tempo non c’erano ospedali nella regione e così per curarsi bisognava fare molta strada nel caldo equatoriale, sia per i lebbrosi sia per gli altri malati. Per questo mons. Pirovano iniziò a sognare un ospedale. Quando siamo arrivati a Marituba abbiamo trasformato questo sogno in realtà, realizzando l’ospedale Divina Providência.

 

È stato difficile portare a termine il progetto?

Le sfide da superare sono state tantissime. Ricordo ancora quello che mi disse mons. Pirovano, nella sua ultima visita a Marituba quando ormai l’ospedale era quasi completato. Mi disse: “Se avessimo saputo tutte le difficoltà che avremmo trovato per fare l’ospedale, forse non avremmo avuto il coraggio di farlo”. Ma poi ha aggiunto: “Dio fa proprio così, non ci mostra le difficoltà di un progetto missionario tutte insieme. Lo fa un po’ alla volta, per non scoraggiarci…”.

E comunque lui non era certo uno che si scoraggiava. Ricordo una volta che avevamo difficoltà a ottenere i permessi dallo Stato del Parà per costruire l’ospedale. Dovevamo parlare con il governatore, ma dopo giorni di tentativi non ci dava mai un appuntamento. Poco tempo dopo capitò che prendemmo un aereo per andare da Belem a Brasilia. E su quell’aereo c’era anche il governatore. Mons. Pirovano andò da lui e disse: “Visto che non abbiamo potuto parlare sulla terra, parliamoci in cielo”. E il problema fu risolto.

 

Cosa rappresenta oggi l’ospedale “Divina Providência” per la gente di Marituba e per i comuni vicini?

L’ospedale è un punto di riferimento sanitario per gli abitanti di 35 comuni della regione, con una popolazione che raggiunge il milione di persone. La struttura ha 130 posti letto, oltre 100 medici che collaborano. Qui si danno servizi che altrimenti sarebbero inaccessibili per la povera gente, come l’emodialisi e tanti altri. L’ospedale è strutturato in 4 aree: pediatria, ostetricia e ginecologia, medicina, chirurgia generale. Poi ci sono altri reparti sviluppati per rispondere ai bisogni del territorio. Insomma l’ospedale è più vivo che mai ed è tuttora un segno di riscatto e dignità per tanti poveri.

 

Nel 2006 è iniziata la collaborazione con l’ospedale di Negrar. Con quali frutti?

Il rapporto con Negrar ha aiutato l’ospedale di Marituba a svilupparsi a livello di organizzazione, di tecnologia e nella formazione del personale. Questo programma di scambio ha portato ad una crescita importante dell’ospedale Divina Providência. Ad esempio a Marituba si sono potuti sviluppare servizi d’avanguardia come l’emodialisi, servizi neurologici, pneumologici e altri.

 

Quali sono le prospettive?

Anche in Amazzonia, come in Italia, c’è bisogno di rinnovarsi e aggiornarsi continuamente per rispondere ai bisogni di salute delle persone. In questo senso la collaborazione con il Sacro Cuore è ancora più importante. Attualmente all’ospedale di Marituba si stanno progettando e realizzando diversi interventi: ampliamento della struttura, nuove sale operatorie, il centro ostetrico, la terapia intensiva per gli adulti e quella per i bambini. Sono tutti interventi indispensabili per i quali l’ospedale Divina Providência ha bisogno di aiuto.

 

Nella serata dedicata a Marituba che si terrà il 3 febbraio si parlerà dell’amicizia tra mons. Pirovano e Marcello Candia, simile per alcuni aspetti all’amicizia tra don Calabria e fratel Perez. Legami che hanno fatto sorgere veri e propri miracoli. Pensa che quanto fatto a Marituba si possa definire un miracolo?

C’è una frase che pronunciò una volta Adalucio Calado, un lebbroso che fece il discorso di benvenuto a papa Giovanni Paolo II quando arrivò a Marituba nel 1980. Parlando del rapporto tra Candia e Pirovano, Adalucio disse: “Due amici, un ideale”. Quella frase ora è scritta su una targa all’interno del lebbrosario. Questi personaggi erano mossi dall’ideale di servire i più bisognosi perché in loro vedevano il proprio Gesù Cristo. Don Calabria, Francesco Perez, mons. Pirovano e Marcello Candia hanno dato tutto quello che avevano per questo ideale di servire Dio nella persona dei fratelli bisognosi. Questo è l’esempio che ci hanno lasciato e che possiamo seguire, dedicandoci ai poveri e agli ammalati.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


Flavio Stefanini è il nuovo direttore del Pronto Soccorso

Succede al dottor Maurizio Pozzani che va in pensione dopo 38 anni di collaborazione con il “Sacro Cuore-Don Calabria”. Stefanini dal 2004 era responsabile dell’Osservazione Breve del Pronto Soccorso

Dal 1° gennaio di quest’anno il Pronto Soccorso dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria ha un nuovo direttore. E’ il dottor Flavio Stefanini, classe 1962, dal 1992 medico di Negrar e dal 2004 fino al nuovo incarico responsabile della Struttura semplice dell’Osservazione Breve. Ha al suo attivo le specializzazioni in Chirurgia generale e in Medicina interna con indirizzo d’Urgenza.

Il dottor Stefanini succede al dottor Maurizio Pozzani (nella foto 1 della Gallery) che con la pensione festeggia ben 38 anni di collaborazione con la struttura sanitaria calabriana. Un lungo periodo durante il quale “ho avuto il privilegio e l’onore di aver contribuito alla crescita e allo sviluppo dell’ospedale fino a poterne constatare il successo che ha raggiunto per il bene di tantissimi pazienti che hanno potuto beneficiare di cure sempre all’avanguardia e dal volto umano”.

Dopo la laurea all’Università di Padova nel 1976, il dottor Pozzani nel febbraio del 1978 inizia la sua attività al “Sacro Cuore”, nel reparto di Chirurgia generale, diretto dal dottor Corrado Castelli.

Grazie a lui nel 1986 vengono introdotti in ospedale la nutrizione parenterale totale e i sistemi impiantabili in Oncologia (1986). Ha avviato inoltre la chirurgia laparoscopica, uno dei punti di forza attuali del “Sacro Cuore” di Negrar.

Nel settembre 2003 è nominato primario del Pronto Soccorso, dopo essere stato per cinque anni responsabile del modulo di Chirurgia d’urgenza. Sotto la sua direzione il Pronto Soccorso inizia un percorso di innovazione con l’introduzione del triage, dell’Osservazione breve intensiva, della formazione qualificata del personale medico e infermieristico, dell’informatizzazione del servizio.

La medicina non è però la sua unica passione. Il dottor Pozzani è autore di due libri che esulano dalla sua attività scientifica, un terzo sarà a breve in libreria. Nel 2012 ha firmato “Il senso del chirurgo” e due anni dopo è la volta del romanzo “I Giardini del cielo e della terra”. La nuova fatica letteraria ha come titolo” La pieve dei peccati”, la storia di un ragazzo che vuole diventare medico. Siamo nel 1945 e il protagonista è un allievo del veronese Girolamo Fracastoro.

(Nella seconda foto in Gallery un momento conviviale per il “passaggio del testimone“)


Quando il cuore è a corto di ossigeno

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Specialisti anche dall’estero sabato 14 gennaio si confronteranno al “Sacro Cuore” sulla cardiopatia ischemica e sulle metodiche di indagine per la diagnosi precoce della malattia che può evolvere nell’infarto miocardico

Quel fiato corto e quel dolore al petto che compaiono durante uno sforzo fisico o in un momento di stress emotivo, mentre rimangono silenti durante le normali attività quotidiane.

Possono essere sintomi di una cardiopatia ischemica, cioè di una condizione che si verifica quando vi è un insufficiente apporto di sangue e quindi ossigeno al cuore. Condizione che, se non diagnosticata precocemente, può portare all’infarto miocardico o alla morte improvvisa.

Il 33% delle morti dovute a malattie cardiovascolari (che restano la prima causa di decesso in Italia) sono causate dalla cardiopatia ischemica.

Proprio sulle metodiche di indagine che permettono una diagnosi precoce della patologia è incentrato il convegno che si terrà sabato 14 gennaio nella sala Perez dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, organizzato dalla Cardiologia, diretta dal professor Enrico Barbieri (vedi foto). Durante la mattinata, che avrà inizio alle 8.30, interverranno specialisti del “Sacro Cuore”, ma anche esperti provenienti dal King’s College di Londra, dall’Università di Verona, Padova e Brescia, dal San Raffaele di Milano e dall’Università Cattolica di Roma (in allegato il programma)

“Parleremo di riserva coronarica – spiega il professor Barbieri – che è la capacità dei vasi che portano il sangue al cuore, le coronarie appunto, di adeguare il flusso sanguigno alle necessità metaboliche del muscolo cardiaco. Se le coronarie sono affette da una patologia aterosclerotica, cioè da un accumulo di grasso lungo le pareti, il flusso di sangue si riduce. Una condizione che viene percepita dal paziente con il classico dolore al petto, spesso in concomitanza con uno sforzo fisico o con una particolare emozione quando infatti il cuore ha una maggiore richiesta di ossigeno”.

La valutazione della riserva coronarica per identificare i pazienti affetti da cardiopatia ischemica prima che si manifesti un episodio acuto come l’infarto, resta una delle principali sfide per i cardiologi. La diagnosi precoce, infatti, ha come obiettivo quello di evitare che la patologia possa progredire e che a seguito della rottura della placca aterosclerotica il paziente possa andare incontro ad un’angina instabile o all’occlusione totale del vaso, quindi all’infarto acuto del miocardio.

La diagnostica cardiologica non invasiva della cardiopatia ischemica si è progressivamente arricchita negli anni. Al tradizionale elettrocardiogramma da sforzo, che rimane la metodica basilare si è associata l’ecocardiografia con stress fisico, farmacologico o elettrico che migliora l’accuratezza diagnostica con la simultanea valutazione del movimento delle pareti ventricolari.

Durante il convegno verrà dedicata una sessione anche alla scintigrafia miocardica e alla PET , che si avvalgono di radiofarmaci per valutare il flusso del sangue nel cuore individuando sia zone ischemiche che necrotiche. La TAC coronarica consente invece di associare allo studio anatomico dati funzionali. Una metodica alternativa è la risonanza magnetica che oltre alla possibilità di individuare l’estensione, con elevato potere di risoluzione, di cicatrici postinfartuali permette, anche mediante somministrazione di farmaci che creano la stessa condizione dello stress fisico di smascherare zone delle coronarie poco irrorate dal sangue.

“Infine – conclude il primario – la valutazione della riserva coronarica può essere eseguita durante la coronarografia nel laboratorio di emodinamica. E’ un esame a cui si ricorre in presenza di stenosi coronariche di grado intermedio (50 – 70 % di occlusione del vaso) per avere indicazioni per un migliore trattamento: dilatazione con palloncino, inserimento di stent oppure terapia farmacologica”.


Su Telepace "Il medico a casa tua" con gli specialisti del "Sacro Cuore"

Dopo mezzo secolo il dottor Giorgio Carbognin, responsabile medico di Casa Nogarè, appende idealmente il camice al chiodo. Con lui va in pensione anche un pezzo di storia dell’ospedale di Negrar

E’ un saluto sereno, velato da un po’ di malinconia, anche se mitigata dalla prospettiva di avere più tempo per camminare e sciare sulle sua amate montagne della Val Badia.

Il dottor Giorgio Carbognin dopo cinquant’anni lascia l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e appende il camice al chiodo. Idealmente, perché quando si è medici, si è medici per sempre.

Ci riceve nel suo studio, al primo piano di Casa Nogarè, dove dal 2002 è responsabile medico della struttura, su cui gravitano una Casa di riposo, una Residenza Sanitaria Assistenziale e una Speciale Unità di Accoglienza Permanente, dedicata alle persone in stato vegetativo.

Dal suo racconto prende forma la storia dell’ospedale di Negrar, che ha dell’incredibile se la si guarda con gli occhi di oggi. “Ha avuto uno sviluppo prodigioso”, dice il dottor Carbognin senza esitazioni. “Nessuno può capirlo se non ha vissuto questi cinquant’anni. Quando ho iniziato al “Sacro Cuore” e al geriatrico “Don Calabria” lavoravano in tutto nove medici – sottolinea -. I primari Luigi Vantini (Geriatria), Bortolo Zanuso (Chirurgia generale), Augusto Cavalleri (Medicina interna), Claudio Nez (Ginecologia), e Dario Salgari (Radiologia)Ad affiancarli eravamo noi giovani: Gastone Orio, anestesista e poi direttore sanitario, Nereo Pavoni, nominato in seguito primario della Pediatria, ed io. Non era come adesso, si faceva un po’ di tutto: sono stato anche assistente in sala operatoria ed entravo in sala parto quando ce n’era bisogno. Affrontavo con entusiasmo anche venti guardie al mese”.

Il giovane medico Giorgio Carbognin è arrivato in Valpolicella nel 1966 chiamato da don Luigi Pedrollo, il primo successore di san Giovanni Calabria (foto 1).

“Quando don Luigi venne a cercarmi – racconta – lavoravo all’ospedale di Merano. Mi disse di presentarmi da fratel Oliviero Prospero, che era il responsabile della struttura di Negrar. Avevano bisogno di qualcuno che si occupasse del reparto di Ginecologia. Accettai e mi iscrissi subito alla scuola di specializzazione di Ginecologia, ma mi accorsi presto che non era proprio la mia strada. Così quando il dottor Cavalleri manifestò la necessità di un medico in Medicina che lo affiancasse, divenni il suo aiuto. Di conseguenza dalla specializzazione in Ginecologa passai a Parma a quella di Medicina interna e successivamente portai a termine anche quella in Cardiologia”.

Dopo alcuni anni da aiuto, al dottor Carbognin fu proposto da fratel Pietro Nogarè il primariato del Geriatrico. “Era il 1972: avevo 33 anni ed ero il più giovane primario d’Italia”.

Allora il Geriatrico comprendeva l’intera struttura del “Don Calabria”: sei piani interamente dedicati ai pazienti anziani.

All’inizio ero l’unico medico – prosegue – poi sono arrivati il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Salvi. Insieme abbiamo pensato e poi proposto all’amministrazione di trasformare l’ospedale in una struttura per lungodegenti con indirizzo riabilitativo. La prima di questo tipo in Italia. Un progetto che teneva conto della condizione degli anziani a lungo allettati per una frattura o un intervento chirurgico oppure una severa broncopolmonite. Allora non esistevano strutture che grazie alla riabilitazione li riportasse all’autonomia. Con la trasformazione del Geriatrico intendevamo proprio colmare questa lacuna”.

Nasce così il primo nucleo dell’attuale Dipartimento di Riabilitazione, oggi centro di riferimento a livello nazionale soprattutto per le mielolesioni e gli esiti da trauma cranico.

Con il passare degli anni al “Don Calabria” trovarono spazio anche l’Oncologia e altre specialità, tra cui il Centro per le Malattie Tropicali. “Io assunsi la direzione del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitativa che mantenni fino al 2002 quando, raggiunta l’età pensionabile, la direzione mi chiese di occuparmi di casa Nogarè”.

Il 31 dicembre il dottor Carbognin passa il testimone al dottor Giovanni Vantini, figlio di Luigi, “uno dei miei tanti maestri”.

“Lavorare in questo ospedale per cinquant’anni è stata un’esperienza meravigliosa – afferma – Ringrazio sempre Dio di avermi dato questa opportunità. Per me è stata una gioia, non mi è mai costato fatica, anzi. Anche grazie all’ottimo rapporto che ho avuto con le varie direzioni che si sono succedute, con i colleghi e con il personale. Questo ospedale è per me una seconda casa e una famiglia”.

Nel cuore tante “persone meravigliose”. “Sono stato il medico di don Pedrollo, oserei dire un santo, che ho accompagnato fino all’ultimo istante della sua vita – dice orgoglioso -. Come lo sono stato di tanti fratelli calabriani. Prima di diventare primario ero il medico anche dei ragazzi di Casa Nazareth a San Zeno in Monte. Ho avuto la fiducia professionale e l’amicizia di uomini e pastori eccezionali, come i vescovi Giuseppe Carraro e Giuseppe Amari.(foto 2)

Non credo che avrei potuto desiderare di più. A tutti coloro con cui ho diviso questo lungo tratto di strada va la mia più grande riconoscenza”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Il primario più giovane d'Italia lascia dopo 50 anni il "Sacro Cuore"

Dopo mezzo secolo il dottor Giorgio Carbognin, responsabile medico di Casa Nogarè, appende idealmente il camice al chiodo. Con lui va in pensione anche un pezzo di storia dell’ospedale di Negrar

E’ un saluto sereno, velato da un po’ di malinconia, anche se mitigata dalla prospettiva di avere più tempo per camminare e sciare sulle sua amate montagne della Val Badia.

Il dottor Giorgio Carbognin dopo cinquant’anni lascia l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e appende il camice al chiodo. Idealmente, perché quando si è medici, si è medici per sempre.

Ci riceve nel suo studio, al primo piano di Casa Nogarè, dove dal 2002 è responsabile medico della struttura, su cui gravitano una Casa di riposo, una Residenza Sanitaria Assistenziale e una Speciale Unità di Accoglienza Permanente, dedicata alle persone in stato vegetativo.

Dal suo racconto prende forma la storia dell’ospedale di Negrar, che ha dell’incredibile se la si guarda con gli occhi di oggi. “Ha avuto uno sviluppo prodigioso”, dice il dottor Carbognin senza esitazioni. “Nessuno può capirlo se non ha vissuto questi cinquant’anni. Quando ho iniziato al “Sacro Cuore” e al geriatrico “Don Calabria” lavoravano in tutto nove medici – sottolinea -. I primari Luigi Vantini (Geriatria), Bortolo Zanuso (Chirurgia generale), Augusto Cavalleri (Medicina interna), Claudio Nenz (Ginecologia), e Dario Salgari (Radiologia)Ad affiancarli eravamo noi giovani: Gastone Orio, anestesista e poi direttore sanitario, Nereo Pavoni, nominato in seguito primario della Pediatria, ed io. Non era come adesso, si faceva un po’ di tutto: sono stato anche assistente in sala operatoria ed entravo in sala parto quando ce n’era bisogno. Affrontavo con entusiasmo anche venti guardie al mese”.

Il giovane medico Giorgio Carbognin è arrivato in Valpolicella nel 1966 chiamato da don Luigi Pedrollo, il primo successore di san Giovanni Calabria (foto 1).

“Quando don Luigi venne a cercarmi – racconta – lavoravo all’ospedale di Merano. Mi disse di presentarmi da fratel Oliviero Prospero, che era il responsabile della struttura di Negrar. Avevano bisogno di qualcuno che si occupasse del reparto di Ginecologia. Accettai e mi iscrissi subito alla scuola di specializzazione di Ginecologia, ma mi accorsi presto che non era proprio la mia strada. Così quando il dottor Cavalleri manifestò la necessità di un medico in Medicina che lo affiancasse, divenni il suo aiuto. Di conseguenza dalla specializzazione in Ginecologa passai a Parma a quella di Medicina interna e successivamente portai a termine anche quella in Cardiologia”.

Dopo alcuni anni da aiuto, al dottor Carbognin fu proposto da fratel Pietro Nogarè il primariato del Geriatrico. “Era il 1972: avevo 33 anni ed ero il più giovane primario d’Italia”.

Allora il Geriatrico comprendeva l’intera struttura del “Don Calabria”: sei piani interamente dedicati ai pazienti anziani.

All’inizio ero l’unico medico – prosegue – poi sono arrivati il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Salvi. Insieme abbiamo pensato e poi proposto all’amministrazione di trasformare l’ospedale in una struttura per lungodegenti con indirizzo riabilitativo. La prima di questo tipo in Italia. Un progetto che teneva conto della condizione degli anziani a lungo allettati per una frattura o un intervento chirurgico oppure una severa broncopolmonite. Allora non esistevano strutture che grazie alla riabilitazione li riportasse all’autonomia. Con la trasformazione del Geriatrico intendevamo proprio colmare questa lacuna”.

Nasce così il primo nucleo dell’attuale Dipartimento di Riabilitazione, oggi centro di riferimento a livello nazionale soprattutto per le mielolesioni e gli esiti da trauma cranico.

Con il passare degli anni al “Don Calabria” trovarono spazio anche l’Oncologia e altre specialità, tra cui il Centro per le Malattie Tropicali. “Io assunsi la direzione del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitativa che mantenni fino al 2002 quando, raggiunta l’età pensionabile, la direzione mi chiese di occuparmi di casa Nogarè”.

Il 31 dicembre il dottor Carbognin passa il testimone al dottor Giovanni Vantini, figlio di Luigi, “uno dei miei tanti maestri”.

“Lavorare in questo ospedale per cinquant’anni è stata un’esperienza meravigliosa – afferma – Ringrazio sempre Dio di avermi dato questa opportunità. Per me è stata una gioia, non mi è mai costato fatica, anzi. Anche grazie all’ottimo rapporto che ho avuto con le varie direzioni che si sono succedute, con i colleghi e con il personale. Questo ospedale è per me una seconda casa e una famiglia”.

Nel cuore tante “persone meravigliose”. “Sono stato il medico di don Pedrollo, oserei dire un santo, che ho accompagnato fino all’ultimo istante della sua vita – dice orgoglioso -. Come lo sono stato di tanti fratelli calabriani. Prima di diventare primario ero il medico anche dei ragazzi di Casa Nazareth a San Zeno in Monte. Ho avuto la fiducia professionale e l’amicizia di uomini e pastori eccezionali, come i vescovi Giuseppe Carraro e Giuseppe Amari.(foto 2)

Non credo che avrei potuto desiderare di più. A tutti coloro con cui ho diviso questo lungo tratto di strada va la mia più grande riconoscenza”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Per un Natale di semplicità e umanità

Un Natale da riscoprire nei piccoli gesti di accoglienza e amore della vita quotidiana. È questo il cuore del messaggio che il Casante dell’Opera Don Calabria ha rivolto a tutto il personale della Cittadella della Carità in questi giorni di festa

In occasione del Santo Natale, il Casante dell’Opera Don Calabria, padre Miguel Tofful, ha rivolto un messaggio a tutto il personale della Cittadella della Carità. Eccone un breve ma significativo passaggio:

… Oggi siamo dunque chiamati a riconoscere il Natale nella semplicità della vita, nei rapporti umani quotidiani, nei piccoli atteggiamenti che tante volte ignoriamo perché non li riteniamo importanti e significativi, perché non fanno notizia e non hanno un ritorno economico.

Oggi la Parola ci annuncia che questo grande mistero può accadere nella mia vita e nella tua vita nella misura in cui ci lasciamo sorprendere dalle cose semplici come i bambini. Non chiudiamo lo sguardo e il nostro cuore; non irrigidiamoci nella nostra verità. Siamo invitati in questo Natale a trovare Gesù Bambino fragile nelle nostre fragilità; a scoprire questo Bambino nelle persone che abbiamo intorno, a vedere questo Bambino negli ambienti dove lavoriamo e con le persone che incontriamo, principalmente con i malati e i poveri” (vedi messaggio completo in allegato).

Unendoci alle parole del Casante, rinnoviamo a tutti gli auguri di un buon Natale e di un felice Anno Nuovo. Insieme agli auguri pubblichiamo nella gallery alcune foto del canto della stella nei reparti, una bella iniziativa che ha visto protagonisti molti volontari dell’ospedale nei giorni scorsi (vedi foto).

Infine ricordiamo che le celebrazioni delle festività natalizie alla Cittadella della Carità avverranno secondo il seguente calendario:

Sabato 24 dicembre – nella cappella del Sacro Cuore ci sarà alle 17.30 la S. Messa prefestiva. Alle 22.00 la Messa della notte di Natale. Nelle altre cappelle le Messe avranno l’orario feriale.

Domenica 25 dicembre (Santo Natale) – S. Messe con orario festivo in tutte le cappelle.

Sempre S. Messe con orario festivo nei giorni di lunedì 26 dicembre (Santo Stefano), domenica 1 gennaio (Capodanno) e venerdì 6 gennaio (Epifania).

ufficio.stampa@sacrocuore.it