Retina artificiale: tutto pronto per lo studio preclinico sull'uomo

La dottoressa Grazia Pertile parla di un progetto ormai in fase avanzata che, se darà i risultati sperati, potrebbe cambiare la vita delle persone affette da patologie degenerative della retina. Un progetto che vede il Sacro Cuore in prima fila

La retina artificiale tutta “made in Italy” è pronta per la sperimentazione sull’uomo. Per l’impianto della piccolissima cella fotovoltaica, che ha già dato risultati lusinghieri su ratti e maialini ciechi, mancano solo le autorizzazioni previste per legge. Se gli interventi daranno gli esiti sperati, la retina artificiale potrebbe cambiare radicalmente la vita delle persone affette da patologie degenerative che possono portare alla totale cecità. Come la retinite pigmentosa, malattia genetica che ha un’incidenza di un caso ogni 3.500 persone, una parte delle quali perdono totalmente la vista prima dei 20 anni.

Il progetto, che ha ottenuto due importanti finanziamenti Telethonper la ricerca sulle malattie genetiche, vede l’impegno di un team multidisciplinare formato, per quanto riguarda la microchirurgia vitreo-retinica, dall’équipe della dottoressa Grazia Pertile, direttore dell’Unità di Oculistica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, dal gruppo del professor Guglielmo Lanzani, fisico del Politecnico e direttore del Centro di nanoscienze e tecnologia dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Milano, e da quello del professor Fabio Benfenati, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e neurotecnologie dell’IIT di Genova. Partecipa allo studio anche la professoressa Silvia Bisti del Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologia dell’Università dell’Aquila (nel filmato in videogallery la dottoressa Pertile parla del progetto alla trasmissione Unomattina di Raiuno).

Il polimero una volta impiantato sotto la retina – spiega la dottoressa Pertile, uno dei massimi esperti internazionali di microchirurgia retinica – agisce come una vera e propria cella foltovoltaica, capace di catturare il segnale luminoso, trasformarlo in elettrico per poi inviarlo al cervello dove verrà codificato in immagine“. A differenza di altri già in commercio, questo impianto fotovoltaico non ha bisogno di essere alimentato dall’esterno.

Come riportano gli articoli pubblicati prima su Nature Photonics e poi su Advanced Healthcare Materials, la prima fase dello studio è stata realizzata su tre tipi di ratti: vedenti, ciechi e ciechi con l’impianto. “Si è osservato – prosegue la dottoressa Pertile – un significativo recupero della vista da parte dei ratti non vedenti su cui è stato inserito il polimero. Recupero che abbiamo misurato attraverso test di comportamento e la valutazione dell’intensità del segnale evocato a livello della corteccia cerebrale da un adeguato stimolo visivo”. La seconda parte della ricerca ha riguardato la biocompatibilità del polimero. “L’impianto sui maiali ha confermato ciò che avevamo già verificato sui ratti – sottolinea il chirurgo -. Il polimero è formato da materiale organico altamente biocompatibile e non va incontro a rigetto”.

Ora la fase cruciale sull’uomo. “E’ fondamentale – spiega – perché solo l’occhio umano, notevolmente più complesso di quello dei ratti, può fornirci le informazioni sulla reale efficacia della “retina artificiale”. Solo con questa sperimentazione possiamo conoscere il livello quantitativo e qualitativo di un eventuale recupero della vista da parte di una persona cieca In base alle indicazioni che otterremo potremo apportare le correzioni tecnologiche necessarie”.

I pazienti non vedenti idonei alla sperimentazione dovranno avere determinate caratteristiche oculistiche e psicofisiche. “Purtroppo non possono essere prese in considerazione le persone cieche dalla nascita, perché essendo l’occhio un recettore dell’impulso che viene dal cervello, se l’occhio non ha mai visto, la parte cerebrale interessata alla vista non ha avuto il modo di svilupparsi”, conclude la dottoressa Pertile.


La gravidanza nell'epoca dei viaggi e delle migrazioni

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Si farà il punto su Zika e sulle altre infezioni pericolose per una donna incinta e per il suo bambino, da quelle classiche a quelle meno conosciute, nel convegno organizzato a Verona il 15 e 16 dicembre da Ulss 20 e Centro per le Malattie Tropicali

Da una parte le infezioni classiche da tenere sotto controllo durante la gravidanza perchè potenzialmente dannose per il feto: rosolia, toxoplasmosi, Cytomegalovirus. Dall’altra tutta una serie di patologie meno conosciute, ma ugualmente da tenere in considerazione se la donna incinta arriva da un Paese lontano o ha viaggiato in luoghi dove queste patologie sono endemiche.

Di tutto questo si parlerà durante il convegno “La gravidanza nella salute globale” in programma alla Gran Guardia di Verona il 15 e 16 dicembre, organizzato dall’Ulss 20 in collaborazione con il Centro per le Malattie Tropicali dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Zeno Bisoffi. Si tratta di un aggiornamento dedicato agli esperti del settore nell’ambito del Programma regionale per i viaggiatori internazionali, di cui è responsabile la dottoressa Giuseppina Napolitano (vedi programma completo).

“La diffusione del virus Zika ha riportato al centro dell’attenzione il tema della gravidanza e della prevenzione in un contesto dove moltissime persone ogni anno si spostano da un continente all’altro”, dice il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Centro per le Malattie Tropicali (vedi foto). “Ma la vera sfida, al di là di Zika, è sviluppare un approccio globale alla salute della donna in gravidanza, basato sulla collaborazione tra i vari specialisti coinvolti: ginecologi, pediatri, ma anche infettivologi ed esperti di medicina dei viaggiatori, soprattutto quando si parla di donne migranti”.

Come accennato, i fronti su cui intervenire sono due. Anzitutto le malattie infettive classiche che possono creare problemi in gravidanza, dal morbillo alla rosolia, dalla parotite alla varicella. Di queste si parlerà nella prima parte del convegno, con particolare rilievo al tema dei vaccini che rappresentano la principale fonte di prevenzione. Un tema particolarmente caldo, visto il dibattito innescato dal calo nella copertura vaccinale verificatosi negli ultimi anni in Veneto. Altri focus saranno dedicati a epatite B, pertosse, influenza, toxoplasmosi e Cytomegalovirus.

Il secondo fronte riguarda le malattie d’importazione che hanno un impatto sulla gravidanza. Si tratta in primis di malattie acute che possono essere contratte dai viaggiatori che si recano in zone a rischio. Il riferimento è al virus Zika e agli altri virus di solito trasmessi dalla puntura di zanzare infette, come dengue, chikungunya, febbre gialla, oltre, naturalmente, al plasmodio della malariaMa al di là delle malattie acute ci sono patologie croniche, come le parassitosi, che i migranti possono aver contratto nel loro Paese di origine senza nemmeno saperlo. È il caso della malattia di Chagas, endemica in America Latina, oppure della schistosomiasi o della strongiloidosi. Malattie quasi dimenticate in Italia e in Occidente, ma che se non diagnosticate possono interferire in modo pesante con la gravidanza e con la salute del bambino. A queste patologie d’importazione sarà dedicata tutta la seconda parte del convegno, con uno spazio di approfondimento riservato ai rischi correlati alla tubercolosi e all’Hiv.

Quando un medico prende in carico una donna incinta e si rende conto che potrebbe essere stata a contatto con qualcuna di queste patologie, sarebbe importante che la inviasse ad un centro specializzato per uno screening ed eventualmente per una profilassi – sottolinea Gobbi – Infatti in molti casi i problemi sono risolvibili, se individuati correttamente. Per questo sarebbe opportuno un approccio più sistematico, facendo rete tra i vari specialisti in un’ottica di salute globale, differenziando gli screening a seconda della zona di provenienza delle pazienti”.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


A Negrar il convegno veneto della Società italiana di Psiconcologia

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E’ questo il tema del convegno veneto della Società Italiana di Psiconcologia che si terrà all’ospedale di Negrar il 16 e 17 dicembre, nell’ambito del quale avrà luogo il primo incontro di formazione dedicato a SIPO Giovani e a AIOM Giovani

Si terrà all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria il convegno veneto della Società Italiana di Psiconcologia (SIPO). L’evento sarà diviso in due giornate. Venerdì 16 dicembre i partecipanti rifletteranno sul tema “La cultura dell’accoglienza del paziente oncologico”, mentre il giorno successivo, sabato 17 dicembre, avrà luogo il primo incontro tra SIPO Giovani e AIOM Giovani (Associazione Italiana Oncologia Medica), un momento di formazione finalizzato alla trasmissione di nozioni di base relative alla metodologia di ricerca in Psicologia clinica. (in allegato il programma)

Saranno più di 40 i relatori e i moderatori che nel corso della prima giornata declineranno nei vari aspetti il tema dell’accoglienza, un elemento fondamentale nella presa in carico di ogni paziente in un contesto di umanizzazione delle cure, ma in particolare di coloro che sono affetti da una patologia oncologica
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“Il cancro è ancora una malattia che più delle altre, nonostante i progressi della medicina, suscita grande paura, incertezza e angoscia – spiega il dottor Giuseppe Deledda, responsabile scientifico del convegno e direttore del Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale di Negrar -. Per questo il paziente fin da quando inizia il suo percorso non chiede solo di essere curato bene, ma anche sostegno per gestire gli aspetti umani e affettivi. Chiede un luogo dove potersi fidare e affidare la propria vita, protezione per sé, ma anche per i suoi cari, dalle emozioni e dai pensieri di morte che evoca il tumore“.

Si tratta quindi di un convegno pensato non solo per gli psicologi, “perché l’accoglienza è un modus operandi proprio di ogni operatore con cui il paziente viene in contatto all’interno dell’ospedale. E’ un atteggiamento empatico – sottolinea il dottor Deledda, -. Un entrare in relazione fraterna con l’altro, mantenendo intatto l’aspetto professionale.

Tuttavia l’accoglienza non deve essere lasciata solo alla buona volontà o alla spontaneità degli operatori, ma deve essere strutturata, partendo dal basso. Deve nascere da un’attenta lettura dei bisogni, che necessita di essere nel tempo riconsiderata in ragione di nuove esigenze da parte del paziente.

Il paziente che riceve la diagnosi di tumore ha infatti esigenze diverse rispetto a colui che inizia le cure oppure alla persona che si trova di fronte a una recidiva della malattia o in fine vita”

L’accoglienza si diversifica anche – come illustrerà una sessione del convegno – in relazione all’età o al sesso di un paziente o di fronte a una mamma, in quanto la relazione madre-figlio è un aspetto da considerare e da tutelare nella presa in carico del paziente oncologico.

Durante la giornata di venerdì sarà analizzato anche quanto sia importate il ruolo delle associazioni di volontariato e il coinvolgimento dei familiari.

“L’accoglienza è un processo che in generale parte prima di tutto da noi stessi – sottolinea lo psicologo -. L’operatore in campo oncologico deve saper accettare il proprio disagio di fronte alla malattia per essere in grado di accogliere il disagio del malato. Inoltre se l’accoglienza non si realizza all’interno della stessa équipe, l’efficacia del lavoro professionale può risentirne”.

Durante il trattamento il paziente viene preso in carico da diverse figure professionali con la conseguenza che egli può maturare l’impressione di una mancanza di continuità. Lo psicologo diventa allora una sorta di “contenitore” unificante della vicenda umana della malattia. “Siamo una presenza costante nel tempo, anche per anni”, spiega il dottore Deledda, che nell’ambito del Servizio di Psicologia clinica collabora con i colleghi Sara Poli e Matteo Giansante.

“Noi incontriamo in genere i pazienti per la prima volta in Oncologia, dopo la diagnosi o durante le terapie – afferma – e consigliamo loro un colloquio psicologico. Capita talvolta che all’inizio ci sia un rifiuto, ma non di rado sono gli stessi pazienti a chiederci un incontro quando li avviciniamo successivamente in reparto, a volte sollecitati da altri pazienti che nei colloqui hanno trovato una risorsa. Da alcuni anni osserviamo che sono sempre meno i pazienti che non intendono intraprendere un percorso psicologico. Forse perché la nostra figura, anche grazie ai media, è diventata più familiare e rassicurante, non più associata esclusivamente alla malattia mentale come un tempo“.

Nel corso del primo incontro di formazione SIPO Giovani (di cui il dottor Matteo Giansante è coordinatore nazionale) e AIOM Giovani saranno anche presentati i requisiti fondamentali per la realizzazione di un protocollo sanitario e di ricerca, nonché l’iter amministrativo per l’accettazione dello stesso da parte di enti proponenti e del Comitato etico di appartenenza.

Informazioni e iscrizioni: Servizio di Psicologia clinica dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, tel. 045.6013048 e psicologia@sacrocuore.itoppure info@gammacongressi.it

elena.zuppini@sacrocuore.it


Tutte le risposte sulle mielolesioni in un Blue Book

Anche l’eccellenza riabilitativa per le gravi mielolesioni dell’ospedale Sacro Cuore nella terza edizione del manuale-guida dedicato a tutti coloro che hanno subito gravi danni alla colonna vertebrale

La Bibbia del mieloleso. A definire così il Blue Book è Giancarlo Volpato e lui di lesioni midollari purtroppo se ne intende. Era infatti il 1993 quando entrò come protagonista nel mondo delle persone con disabilità di cui il 3 dicembre si celebra la Giornata internazionale.

Nel corso di una partita di rugby, a soli 20 anni, Giancarlo subì la frattura della quarta e quinta vertebra cervicale che lo rese tetraplegico, cioè completamente paralizzato dal collo in giù.

Ora è l’anima de “La Colonna”, l’Associazione Lesioni Spinali ONLUS, con sede a Mirano in provincia di Venezia, che ha pubblicato nel 1998 la prima edizione del Blue Book, appunto, un manuale con “201 risposte alla mielolesione”, come recita il sottotitolo. Nel 2005 è arrivata la seconda edizione, mentre il 2016 è l’anno della terza, realizzata anche sulla spinta dell’aumento delle visite giornaliere al sito www.lesionispinali.org per consultare la versione digitale del libro.

Il Blue Book è un corposo volume di 400 pagine, che ha tuttavia la peculiarità di essere facilmente fruibile ogni volta che si presenta la necessità, essendo stata riproposta la tradizionale formula a “domande e risposte”, divise in 19 capitoli.

Una guida che “dovrebbe essere sempre tenuta a disposizione e consultata, non solo da chi è toccato direttamente o indirettamente da una lesione midollare, ma anche da coloro che sono colpiti da traumi o da malattie neurologiche che possono provocare gli stessi effetti collaterali”, scrive Volpato nella Presentazione. A rendere ancora più comprensibili i testi sono i disegni anatomici di Ilaria Bondi.

Ad avere un ruolo di primo piano in questa ultima revisione è anche l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, riconosciuto a livello nazionale come centro di eccellenza per il trattamento e la riabilitazione delle mielolesioni e dei gravi esiti di trauma cranico.

Infatti uno dei due storici autori (l’altro è la dottoressa Judit Timar) è il dottor Mauro Menarini, oggi consulente fisiatra dell’Unità Spinale dell’ospedale scaligero, diretta dal dottor Giuseppe Armani.

Menarini si occupa da oltre 25 anni di riabilitazione delle mielolesioni ed ha sviluppato una particolare esperienza nel settore neurologico e nel trattamento della spasticità, maturata anche all’estero.

Dell’ospedale fondato da San Giovanni Calabria hanno collaborato anche gli infermieri Simone Bajardo e Roberto Gagliardi nella stesura della parte sulla medicazione delle piaghe da decubito ed il fisioterapista Giovanni Brunelli nell’illustrare l’utilizzo dell’esoscheletro, versatile innovazione tecnologica in riabilitazione adottato dall’ospedale di Negrar nel 2015.

Ma soprattutto la nuova edizione è arricchita dai disegni realizzati dai pazienti ricoverati negli anni presso l’Unità Spinale del “Sacro Cuore”. Sono le opere frutto della creatività di coloro che frequentano l’Atelier di Arteterapia, guidato da Charlotte Trachsel, all’interno del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione, diretto dal dottor Renato Avesani, responsabile anche dell’intero Dipartimento di Riabilitazione.

I disegni coloratissimi sono “arte”, ma soprattutto “terapia” perché, scrive Trachsel, “l’atto creativo permette alla persona di mettersi in contatto con gli aspetti più intimi e nascosti di sé, si lavora per ritrovare un equilibrio con la convinzione che lo si può ricercare in ogni situazione durante l’intero arco dell’esistenza”.

A curare la distribuzione del Blue Book è la stessa associazione “La Colonna” i cui soci si prodigano nella raccolta di fondi per l’acquisto di dispositivi medici da utilizzare nella diagnosi e cura delle lesioni midollari. Ma soprattutto da destinare alla ricerca.

Negli ultimi tempi le risorse sono state impiegate nel progetto del professor Guido Fumagalli dell’Università di Verona sulle cellule staminali neuronali contenute nelle meningi. Alla ricerca è riservata una “lettura magistrale” dello stesso Fumagalli nell’ultima parte del libro.


Tumori neuroendocrini: medici di base e specialisti per la cura del paziente

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Il ruolo fondamentale del medico di medicina generale per la presa in carico del paziente affetto da Net: se ne parla sabato 3 dicembre in un convegno all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria

L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria lancia un progetto pilota di collaborazione con i medici di medicina generale per la presa in carico dei pazienti affetti da tumori neuroendocrini (NET-Neuroendocrine Tumours), una patologia neoplastica rara che conta 2-5 nuovi casi all’anno ogni 100mila persone.

Il primo incontro si terrà sabato 3 dicembre nella sala convegni Fr. Perez ed è promosso dall’Ambulatorio multispecialistico NET, coordinato dall’oncologa Stefania Gori e dal chirurgo Letizia Boninsegna.

I NET del pancreas, del tratto gastrointestinale e del polmone sono un gruppo eterogeneo di patologie sia per localizzazione sia per aggressività (benigni o maligni) che hanno origine dalle cellule del sistema neuroendocrino. A differenza di altre forme tumorali che colpiscono lo stesso organo, per esempio il pancreas, hanno ampie opportunità terapeutiche e prognosi favorevoli.

“Se adeguatamente seguiti in tutte le fasi della malattia, sono pazienti che hanno una lunga aspettativa di vita e possono godere di una buona qualità di vita. Personalmente sto seguendo persone che ho operato nel 1997 e oggi stanno bene – spiega la dottoressa Boninsegna -. Proprio per questo lungo percorso di malattia è molto importante la collaborazione dei medici di medicina generale, che devono essere e sentirsi direttamente coinvolti nella gestione del paziente. In particolare durante il follow up, sapendo riconoscere in tempo un’eventuale recrudescenza della patologia. Il nostro intento quindi è creare un filo diretto con i medici di base del Veronese, cosa che già avviene con quelli dei nostri pazienti”.

I tumori neuroendocrini raramente necessitano di chemioterapia poiché la loro caratteristica è la presenza di recettori sulla membrana cellulare “Essi sono come le serrature delle porte, indicano quale chiave usare per entrare nella cellula – spiega ancora il chirurgo – L’80-90% dei NET dispongono dei recettori della somatostatina. Farmaco che viene somministrato al paziente ogni mese nello studio del suo medico di famiglia, che ha così l’opportunità periodica, più dello specialista, di valutare lo stato di salute del paziente”.

La giornata di sabato 3 dicembre (vedi programma allegato) avrà una prima parte in cui verranno presentati dagli specialisti dell’Ambulatorio NET le modalità diagnostiche e i trattamenti dei tumori neuroendrocrini, mentre nella seconda parte sarà lasciata la parola ai medici di medicina generale che esporranno la loro esperienza nella gestione dei pazienti.

All’incontro interverranno anche la professoressa Paola Tomassetti, dell’Università di Bologna, una delle massime esperte nazionali di questa forma tumorale, e il vicepresidente nazionale dell’Associazione pazienti NetItaly, Giorgio Piffer, che porterà la voce dei malati.

L’Ambulatorio NET segue un centinaio di pazienti con circa cinque nuovi casi all’anno ed è inserito all’interno del Dipartimento Oncologico, diretto dalla dottoressa Gori. Ne fanno parte specialisti anatomopatologi, chirurghi generali e toracici, endocrinologi, diabetologi, gastroenterologi, medici nucleari, oncologi, radiologi e radiologi interventistici, e psicologi.

“Il “Sacro Cuore Don Calabria ha una caratteristica unica per la presa in carico dei pazienti colpiti da questa forma tumorale – conclude la dottoressa Boninsegna – in quanto dispone in loco di tutte le specialità e di tutta la tecnologia necessarie per la diagnosi, la terapia e il follow up richiesti da questa patologia”.

Per informazioni e iscrizioni al convegno: 045.6013208 o www.sacrocuore.it alla voce “Formazione” nel menù.


Parkinson, intervenire in rete migliora la qualità di vita dei pazienti

Sabato 26 novembre è la giornata mondiale del Parkinson. Al Sacro Cuore l’ambulatorio dedicato a questa malattia fornisce ai pazienti un’assistenza globale ponendo attenzione a tutti i sintomi, compresi quelli non motori

Un approccio multidisciplinare che permetta di trattare in modo adeguato tutti i sintomi della malattia di Parkinson, compresi quelli non motori. È questa la filosofia dell’ambulatorio per i disturbi del movimento-malattia di Parkinson dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, un servizio che segue 350 pazienti parkinsoniani in seno all’Unità Operativa di Neurologia diretta dal dottor Claudio Bianconi.

Il morbo di Parkinson, di cui sabato 26 novembre si celebra la Giornata mondiale, è una malattia neurodegenerativa che secondo le stime più recenti colpisce in Italia 230mila persone. Un numero che continua a crescere perché l’incidenza aumenta con l’età (ne è affetto l’1-2% della popolazione oltre i 60 anni, con punte fino al 3-5% sopra gli 85 anni).

Si tratta di una patologia conosciuta soprattutto per i suoi sintomi motori, quali il rallentamento dei movimenti, i tremori a riposo, la rigidità muscolare e i disturbi dell’equilibrio. In realtà ci sono molti altri sintomi non motori, forse meno noti, ma che incidono pesantemente sulla qualità di vita dei pazienti: disturbi del sonno e dell’umore, dolore, problemi urinari, perdita di capacità cognitive, disturbi del sistema nervoso vegetativo.

“Il nostro obiettivo è prenderci carico del paziente affetto dal morbo di Parkinson offrendo un’assistenza globale – spiega il dottor Domenicantonio Tropepi (vedi foto), responsabile dell’ambulatorio per i disturbi del movimento – e questo è reso possibile dall’esistenza di una rete all’interno dell’ospedale che ci permette di trattare in modo adeguato tutti i problemi connessi alla malattia”.

In particolare l’ambulatorio può contare sulla collaborazione con il Centro di Medicina del Sonno e con il Centro per il Decadimento Cognitivo, sempre all’interno dell’Unità di Neurologia. Esiste poi uno stretto rapporto con la Diagnostica per Immagini riguardo agli esami morfologici necessari per la diagnosi e la valutazione dello stadio di avanzamento della malattia; con la Medicina Nucleare per gli esami funzionali e in particolare per la scintigrafia cerebrale con dat-scan per chiarire alcune diagnosi dubbie; altre collaborazioni sono quelle con la Videourodinamica per lo studio dei disturbi urinari e con la Riabilitazione per il trattamento con la tossina botulinica in caso di distonia. Per i trattamenti nelle fasi più avanzate della malattia, invece, quando le funzionalità sono maggiormente compromesse, c’è un collegamento diretto con il centro di riferimento dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona.

In genere i pazienti giungono in ospedale per la prima visita dopo che si sono presentati i primi problemi motori.

A quel punto l’ambulatorio li accompagna nel percorso che porta alla diagnosi della malattia e poi nei vari trattamenti attraverso visite periodiche. Attualmente sia i farmaci sia i trattamenti intervengono solo sui sintomi, migliorandoli ma senza poter modificare il corso degenerativo della malattia. In prospettiva, però, non mancano i segni di speranza. “La ricerca sta facendo progressi in varie direzioni, come la diagnosi precoce e la comprensione dei meccanismi che portano alla malattia, necessari per lo sviluppo di trattamenti di tipo disease modifying, ovvero in grado di arrestare o rallentare significativamente la progressione del morbo. Sono già in corso varie sperimentazioni con la terapia a base di cellule staminali e la terapia immunizzante, una sorta di vaccinazione in grado di arrestare la malattia nelle fasi più precoci”.

Ma la sfida è anche un’altra, cioè migliorare la qualità di vita dei pazienti, che risulta assai compromessa soprattutto in coloro nei quali l’insorgenza della malattia è più precoce (nel 5% dei casi addirittura prima dei 50 anni). Una sfida che si può vincere solo con un’alleanza tra il medico e il paziente con i suoi familiari: “È fondamentale che il paziente durante le visite ci racconti tutti i suoi eventuali disturbi e non solo quelli motori – conclude il dottor Tropepi – Infatti sui sintomi motori ci sono farmaci molto efficaci che funzionano per diversi anni. Ma anche sugli altri sintomi si può intervenire con efficacia, migliorando decisamente la vita delle persone affette da Parkinson”.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.i


Gestire le emozioni nelle malattie infiammatorie dell'intestino

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L’attenzione all’aspetto psicologico accanto a quello clinico è fondamentale nella gestione di patologie croniche come il morbo di Crohn. Se ne parla il 26 novembre in un incontro scientifico al Sacro Cuore

Si parlerà di malattie infiammatorie croniche intestinali e in particolare del morbo di Crohn questo sabato 26 novembre (a partire dalle 8.30) nella sala Perez dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (vedi programma).

 

L’incontro scientifico, promosso dal Centro multispecialistico per le malattie retto-intestinali, tratterà della diagnostica radiologica e delle strategie medico-chirurgiche di una patologia che in Italia colpisce circa 250mila persone, con riflessi importanti sulla qualità di vita dei pazienti, ma anche con rilevanti costi sociali e sanitari. “Per questo diventa fondamentale – spiega il dottor Andrea Geccherle, responsabile del Centro – che accanto all’aspetto clinico si ponga attenzione anche a quello psicologico. Infatti si tratta di patologie che possono comportare aspetti di ansia e depressione nel paziente, per le inevitabili conseguenze sulla sua vita relazionale e lavorativa, tali da influenzare anche l’adesione alla terapia”. In proposito il convegno riserverà la sessione centrale proprio a questi aspetti, durante la quale sarà presentata l’esperienza del Centro del “Sacro Cuore” .

 

Il simposio sarà anche l’occasione per un confronto tra gli specialisti del Centro di Negrar e quello dell’Irccs Humanitas di Rozzano (Milano) per condividere con loro esperienze e attività cliniche.

 

La mattinata sarà aperta dall’assessore regionale alla Sanità, Luca Coletto, a cui seguirà una sessione sulle novità terapeutiche delle fistole perianali complesse che caratterizzano le malattie infiammatorie croniche dell’intestino. Il dottor Pier Carlo Meinero, dell’ospedale di Negrar, presenterà una nuova tecnica chirurgica (VAAFT) che consente di curare e chiudere la fistola dal suo interno tramite l’impiego di uno speciale strumento ottico che viene introdotto nella fistola stessa.

 

Sul ruolo, invece, della risonanza magnetica nella diagnosi, nelle scelte terapeutiche ma anche nel controllo dell’efficacia della terapia sarà dedicata l’ultima parte del convegno in cui interverrà il dottor Gionata Fiorino dell’Humanitas.

 

Gli aspetti psicologici del morbo di Crohn e della rettocolite ulcerosa saranno trattati dalle psicologhe Irene Strada dell’Università di Milano, ed Eleonora Geccherle, del Centro di Negrar, che a gennaio avvierà la seconda edizione di un ciclo di nove incontri serali con i pazienti aderenti all’Associazione Malattie Infiammatorie Intestinali (AMICI). “Sono stati gli stessi pazienti a chiedere di realizzare e a promuovere dei momenti in cui si parlasse della malattia, ma anche dove si andasse oltre al sintomo fisico per comprendere le emozioni che esso scatena – spiega la dottoressa Geccherle -. L’obiettivo del progetto è dare un programma completo e ‘su misura’ al paziente affetto da malattia intestinale cronica che presenta frequentemente complicanze anche di tipo psicologico.Recentemente per la complessità dei casi che afferiscono al centro si è evidenziata la necessità di un inquadramento psicologico dei pazienti e un intervento di supporto nell’affrontare la condizione di malattia.” “In questi incontri – prosegue la psicologa – il compito del terapeuta è quello di fornire delle tecniche comportamentali e cognitive finalizzate a gestire l’ansia e i pensieri irrazionali legati alla malattia. L’obiettivo del gruppo, la cui metodologia è psicoeducazionale, è quello di consentire al paziente di relazionarsi efficacemente con le proprie emozioni anche nelle fasi più acute fisicamente e psicologicamente della malattia.” Accanto ad un alto tasso di soddisfazione da parte dei pazienti, a distanza di sei mesi alcuni test specifici hanno valutato, tramite un’analisi statistica, che i punteggi relativi alle componenti di ansia e depressione sono diminuiti in maniera significativa nei pazienti che hanno partecipato all’intervento.


Don Luigi Pedrollo e il geriatrico "Don Calabria"

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Un libro racconta la vita e le opere del primo successore di don Calabria nel trentennale della sua morte (1986-2016). Sotto la sua guida venne costruito l’ospedale geriatrico “Don Calabria”, completato nel 1958. Ampia galleria fotografica all’interno

Un libro che racconta la vita e l’apostolato di don Luigi Pedrollo, grande amico e collaboratore di san Giovanni Calabria, nonché suo primo successore alla guida dell’Opera da lui fondata in favore dei fanciulli poveri e abbandonati (vedi scheda biografica di don Pedrollo).

La biografia, scritta da Giuseppe Perazzolo in occasione del trentennale della morte di don Pedrollo (1986-2016), verrà presentata sabato 26 novembre alle 10.30 a San Zeno in Monte, presso la Casa Madre della congregazione, in concomitanza con il 109° anniversario di fondazione dell’Opera calabriana (vedi programma della presentazione).

Proprio sotto la guida di don Luigi Pedrollo, divenuto Superiore dell’Opera nel marzo 1955, venne costruito l’ospedale geriatricodedicato a don Calabria che era morto nel dicembre 1954. La prima pietra del geriatrico venne posta il 17 giugno 1955 dopo che il Consiglio generale presieduto da don Pedrollo diede l’approvazione definitiva. Negli anni successivi il primo successore di don Calabria seguì da vicino i progressi nei lavori a Negrar (vedi foto 1), fino all’inaugurazione avvenuta il 12 settembre 1958 con la benedizione dell’allora vescovo di Verona mons. Giovanni Urbani.

Negli anni trascorsi da Superiore generale, fino al 1967, don Pedrollo dimostrò grande carisma e capacità organizzativa. In particolare fu lui ad aprire l’Opera alle missioni, nel 1959, realizzando un antico sogno di don Calabria. Fu sempre lui, inoltre, a dare nuovo impulso all’UMMI (Unione Medico Missionaria Italiana), ente di cooperazione internazionale che ha tuttora la sede nella Cittadella della Carità (vedi foto 2).

Fino agli ultimi anni della sua vita egli fu custode del carisma di don Calabria e fu punto di riferimento per tantissime persone che a lui si rivolgevano per un consiglio e per un orientamento spirituale. Nel raro filmato allegato in video-gallery, don Pedrollo ricorda il fondatore don Calabria in una trasmissione di Telepace del 1979 (vedi video).

Alla presentazione del 26 novembre, oltre all’autore, interverranno il vescovo di Verona mons. Giuseppe Zenti e il Superiore generale dell’Opera calabriana, padre Miguel Tofful.Inoltre durante la mattinata ci sarà l’intervento del prof. Gian Paolo Marchi, docente emerito dell’Università di Verona, con una relazione dal titolo: “Quando la radicalità è contagiosa: la testimonianza di don Luigi Pedrollo, primo successore di san Giovanni Calabria”. L’incontro sarà moderato dalla giornalista Maria Teresa Ferrari.

matteo.cavejari@sacrocuore.it


La Cittadella della Carità vicino ai terremotati

Grazie soprattutto al dono da parte degli operatori di alcune ore lavorative, sono stati raccolti 30mila euro in favore delle popolazioni colpite dal sisma. Quando don Calabria intervenne nel Polesine alluvionato…

Anche in occasione del terremoto che ha colpito l’Italia Centrale, la generosità degli operatori della Cittadella della Carità di Negrar non si è fatta attendereGrazie in particolare alle ore lavorative donate dai dipendenti sono stati raccolti 30mila euro. Tale somma sarà consegnata alla Caritas diocesana in contatto costante con le Caritas dei luoghi terremotati, impegnate a provvedere alle necessità più urgenti della gente locale privata di tutto a causa di uno sciame sismico iniziato lo scorso 24 agosto e che continua tuttora.

Questa è solo l’ultima delle iniziative di solidarietà a cui hanno aderito i collaboratori dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di Casa Perez, di Casa Nogarè e di Casa Clero. E’ infatti una consuetudine che si ripete ogni volta che una catastrofe naturale colpisce l’Italia o altri Paesi del mondo. Inoltre nei momenti forti dell’Anno Liturgico (Avvento e Quaresima) vengono raccolte le offerte per le tante missioni dell’Opera Calabriana, in particolare per gli ospedali “gemellati” con quello di Negrar che si trovano a Marituba (Brasile) e a Luanda (Angola).

Una consuetudine con radici lontante, nell’eredità del Santo fondatoreAnche nel novembre del 1951 l’Italia venne sconvolta da un evento catastrofico: l’alluvione del Polesine le cui acque si portarono via la vita di oltre cento persone, lasciandone altre centinaia di migliaia senza una casa. In quell’occasione San Giovanni Calabria non si tirò indietro di fronte alla sofferenza di tanti italiani. Infatti aprì le porte della Casa per bambini poveri di Ferrara che aveva fondato solo nell’agosto dello stesso anno su invito dell’arcivescovo Ruggero Bovelli. Tra quelle mura ospitò per diversi mesi 150 minori sfollati, di età compresa tra i 6 e i 14 anni. Molti religiosi e novizi furono mandati dal sacerdote veronese ad aiutare chi aveva perso tutto, unendosi allo sforzo di solidarietà intrapreso da tutto il Paese.

Da allora l’Opera calabriana entrò nel cuore dei ferraresi, molti dei quali ricordano ancora oggi quell’atto di amore verso i più giovani.

(nella Gallery due foto pubblicate sulla rivista calabriana L’Amico nel 1952 e che ritraggono i ragazzi ospitati nella struttura di Ferrara)


Strabismo e bambini, bisogna intervenire per tempo

Il Sacro Cuore è uno dei pochi centri dove si pratica la chirurgia dello strabismo anche in età pediatrica. Un approccio che, in molti casi, permette di correggere questo disturbo e ridurre nel lungo termine il rischio di perdere funzionalità visiva

Lo strabismo è un disturbo della vista che riguarda il 2-4 % della popolazione. In molti casi insorge in età pediatrica, anche in bambini molto piccoli e quindi è fondamentale intervenire in modo tempestivo per correggere il problema e, in molti casi, eliminarlo.“Anche perché lo strabismo non è solo una questione estetica, ma è associato a un difetto della vista che talvolta può diventare irreversibile se non si interviene per tempo“, dice il dottor Giuliano Stramare (vedi foto), oftalmologo specializzato nel trattamento dello strabismo presso l’Unità Operativa di Oculistica del Sacro Cuore, diretta dalla dottoressa Grazia Pertile.

LA CHIRURGIA DELLO STRABISMO NEI BAMBINI

Il Sacro Cuore è uno dei pochi centri dove, fra i vari trattamenti possibili per curare questa patologia, è disponibile l’opzione chirurgica anche per i bambini. “La terapia chirurgica è la più indicata per risolvere alcuni tipi di strabismo e dà una prognosi migliore nel lungo termine, specialmente per la tipologia definita esotropia essenziale infantile – prosegue il dottor Stramare – Per questo, una volta effettuate le visite preliminari, è importante intervenire al più presto, talvolta anche su pazienti che hanno solo 2 anni. Si tratta di un’operazione relativamente semplice. Le difficoltà sono date più che altro dalla gestione del pre e post-operatorio, vista la giovanissima età di alcuni pazienti. Per questo non sono molti i centri attrezzati per effettuare la chirurgia dello strabismo sui bambini”.

PER I GENITORI

Cosa fare, dunque, quando si nota l’insorgere di strabismo, specialmente in un bambino? Conviene attendere o intervenire? In realtà fino all’età di 6 mesi un’eventuale leggera deviazione di un occhio rispetto al punto di fissazione non deve destare particolare allarme. Se invece questo difetto perdura dopo i 6 mesi, è bene che i genitori si attivino per fare una visita oculistica. Viceversa, in assenza di strabismo, gli oculisti consigliano di fare la prima visita intorno ai 3 anni. Diverso il discorso per alcune categorie considerate a rischio: nati prematuri, bimbi affetti da sindromi genetiche o che sono incorsi in patologie perinatali. In questi casi il monitoraggio per strabismo parte da subito.

Ad ogni modo è importante fare una valutazione e iniziare un trattamento il prima possibile. Infatti uno strabismo trascurato nel bambino, per quanto lieve, spesso è associato all’ambliopia, ovvero ovvero la perdita progressiva di capacità visiva nell’occhio che lavora meno (occhio pigro).

LA VISITA

Durante le visite iniziali sono fondamentali le valutazioni dell’oftalmologo e dell’ortottista. Sta a loro definire l’angolo di strabismo, valutare i problemi visivi ad esso associati e soprattutto stabilire il trattamento più adeguato nei tempi opportuni. “Alcuni tipi di strabismo vengono molto ridotti con la prescrizione di occhiali adeguati – prosegue Stramare – Talvolta il disturbo si risolve con la crescita (strabismo accomodativo). Ma nella maggioranza dei casi l’intervento chirurgico dà le maggiori chance di soluzione del problema”. In realtà non sempre è risolutivo il primo intervento. A volte è necessario farne più di uno perché nella crescita gli occhi possono spostarsi nuovamente. “Tuttavia anche in questo caso è preferibile fare due piccoli interventi in età pediatrica, piuttosto che attendere e intervenire solo più tardi. Questo perché nei bambini la plasticità del cervello permette all’occhio di adattarsi molto meglio ad una vista corretta dopo l’intervento”.

L’INTERVENTO SUI BAMBINI

Al Sacro Cuore vengono effettuati ogni anno poco meno di un centinaio di interventi di chirurgia dello strabismo, in grande maggioranza su pazienti in età pediatrica. Il bambino viene ricoverato in pediatria la mattina stessa dell’operazione. L’intervento viene fatto in anestesia generale e ha una durata compresa fra i 30 e i 60 minuti. Proprio la breve durata permette al paziente un recupero molto rapido dall’anestesia, tanto che il bambino operato viene dimesso già al mattino successivo. Il decorso dell’operazione è generalmente indolore e a livello farmacologico viene prescritto solo un collirio antibiotico. Generalmente non serve l’uso della benda sull’occhio operato. Dopo una settimana è possibile il ritorno del bimbo a scuola o all’asilo. I controlli post operatori si effettuano a distanza di una settimana e poi una volta al mese. Naturalmente i controlli sono fondamentali perchè il bambino è in crescita e il problema potrebbe ripresentarsi nel tempo.

Il dottor Stramare sottolinea che “per la piena riuscita dell’operazione è fondamentale la sinergia tra tutti i soggetti coinvolti: oftalmologo, ortottista, anestesista che deve avere esperienza con i bambini, lo strumentista di sala operatoria el’intero reparto pediatrico. Il gioco di squadra e la buona organizzazione sono indispensabili”.

INTERVENIRE SUGLI ADULTI

L’approccio chirurgico allo strabismo si può attuare anche nell’adulto. In questo caso l’intervento viene fatto in anestesia locale ed è importante che il paziente mantenga il tono muscolare dell’occhio durante l’operazione, in modo che il chirurgo possa esercitare un controllo intraoperatorio e riposizionare correttamente l’occhio. Nell’adulto la prognosi dopo l’intervento è meno favorevole che nel bambino, perché spesso l’occhio su cui si interviene ha già perso nel tempo parte della propria funzionalità. Inoltre negli adulti c’è il rischio di diplopia, cioè il “vederci doppio” dovuto al fatto che il cervello non è più in grado di eliminare l’immagine proveniente dall’occhio deviato.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.it