Covid 19, la capacità di resilienza dei pazienti oncologici: se ne parla il 24 settembre

in occasione della V Giornata Nazionale di Psico-Oncologica del 24 settembre, la Sezione del Triveneto della SIPO organizza un webinar gratuito dal titolo “Psico-oncologia e Covid 19 dall’emergenza alla resilienza”. Ecco come iscriversi

Quali sono i fattori psicosociali che hanno permesso ai ragazzi e agli adulti colpiti da tumore di affrontare la pandemia Covid 19? E’ la domanda a cui cercheranno di dare risposta – tramite il loro vissuto professionale, ma anche personale – i relatori che interverranno al webinar promosso dalla Sezione Veneto-Trentino Alto Adige della Società Italiana di Psico-Oncologia in occasione della V Giornata Nazionale SIPO in programma il prossimo 24 settembre. Per partecipare all’evento on line gratuito –  che ha inizio alle ore 15 – è necessario iscriversi tramite questo link https://www.sipovenetotrentinoaltoadige.com/eventi-in-programma. Oppure si può seguire la diretta sulle pagine Facebook degli Ordini dei Psicologi rispettivamente del Veneto, di Trento e di Bolzano. (LEGGI QUI IL PROGRAMMA)

“Credo che sia molto importante riflettere sulle risorse che hanno permesso ai malati oncologici di reggere all’impatto dell’emergenza Covid e di sviluppare una resilienza a tutto ciò che ha significato la pandemia per un soggetto già fragile per la sua patologia: paura del virus, isolamento, timore di non poter proseguire le cure per l’impegno degli ospedali sul fronte Coronavirus …”, spiega il dottor Giuseppe Deledda, coordinatore Sezione Veneto-Trentino Alto Adige della Società Italiana di Psico-Oncologia e responsabile dell’Unità Operativa di Psicologia Clinica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. “Individuare queste risorse significa favorire una maggiore consapevolezza di Sé e permettere alla persona di riprendere il proprio cammino, anche in situazioni difficili. Essere resiliente non significa “combattere” ma piuttosto riuscire ad essere aperti alla vita, tenendo con cura e delicatezza anche le parti che a volte vorremmo eliminare, al fine di poter rendere la nostra vita più ricca e significativa.”

Il programma del webinar prevede anche due letture magistrali. La prima, con inizio alle 15.15, vedrà come relatore il dottor Momcilo Jankovic, past president dall’Associazione Italiana di Ematologia ed Oncologia Pediatrica (AIEOP) e responsabile del gruppo psicosociale Clinica Pediatrica dell’Università di Milano-Bicocca, Fondazione MBBM. La seconda, che inizierà alle 16.50, sarà tenuta dal professor Paolo Gritti, past president della Società Italiana di Psico-Oncologia. I relatori tratteranno della resilienza rispettivamente nell’età evolutiva e nell’adulto.

Alla tavola rotonda delle 17.50 parteciperà anche la dottoressa Stefania Gori, direttore dell’Oncologia Medica di Negrar e presidente della Fondazione Aiom e Ropi.


Test salivari: anche un progetto dell'IRCCS di Negrar conferma la loro affidabilità

Nell’ambito di un progetto di Ricerca e Innovazione in collaborazione con aziende esterne per la validazione di kit di analisi molecolare sulla saliva, dall’indagine comparata su 300 campioni  sono emersi risultati che concordavano al 90% con quelli ottenuti con il tampone naso-faringeo. Ma la sensibilità del test dipende strettamente dall’abbondanza e dall’accuratezza della raccolta salivare

Con l’inizio dell’anno scolastico, entrano ufficialmente sulla scena della diagnostica Covid i tamponi molecolari salivari, a cui il ministero della Salute ha dato il via libera per la loro efficacia, sovrapponibile a quella dei tamponi molecolari naso-faringei, che restano il gold standard per la ricerca del SARS COV2.

I tamponi saranno somministrati, su base volontaria, nelle “scuole sentinella” con l’intento di monitorare la situazione scolastica e consentire il mantenimento della didattica in presenza.

Sulla sensibilità e sulla specificità dei tamponi salivari, un’ulteriore conferma è emersa dall’analisi di circa 300 campioni di saliva raccolti già a inizio 2021 dall’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria fra i dipendenti, i pazienti ricoverati e i cittadini che si sono presentati all’ambulatorio dei tamponi per sorveglianza o per sintomi riconducibili all’infezione da Sars-CoV-2. Il progetto rientrava nell’attività di Ricerca e Innovazione dell’IRCCS di Negrar in collaborazione con aziende esterne per la validazione di kit di analisi molecolare sulla saliva.

Dr. Elena Pomari

“Dall’analisi comparata è emerso che i risultati sul campione di saliva concordavano al 90% con quelli ottenuti con il tampone naso-faringeo, perfettamente in linea con quanto indicato dal Ministero”, sottolinea la dottoressa Elena Pomari, biologa del Dipartimento di Malattie Infettive-Tropicali e Microbiologia.

Ma lo studio ha rilevato anche il limite del tampone salivare, la cui sensibilità dipende strettamente dall’abbondanza e dall’accuratezza della raccolta del campione, cosa che può rendere il test problematico per gli studenti più piccoli.

“Il procedimento che abbiamo adottato prevedeva che il tutto avvenisse al mattino presto, a digiuno e prima dell’igiene orale. Ma soprattutto che la deposizione della saliva in un barattolo (sterile e senza conservanti) venisse preceduta da una raccolta in bocca, in modo tale che il volume fosse di almeno 3 millilitri, più consistente del semplice sputo. Un’operazione non veloce e nemmeno semplice”.

La modalità di raccolta della saliva adottata per le scuole consiste invece in una piccola spugnetta da tenere in bocca per circa un minuto che sarà poi consegnata dall’alunno una volta arrivato a scuola.

Poiché si tratta di un test molecolare, il campione sarà processato presso un laboratorio di Biologia Molecolare e il risultato sarà disponibile entro 24/48 ore.

In caso di referto positivo, lo studente e i relativi contatti stretti saranno presi in carico dal Dipartimento di prevenzione dell’Ulss di appartenenza con il conseguente isolamento domiciliare (7 giorni per i contatti vaccinati, 10 per quelli non vaccinati). Mentre sarà il referente Covid, invece, a dare disposizioni per i contatti scolastici.

 


Sorvegliare il cuore da lontano: il controllo da remoto di pacemaker e defibrillatori

Dopo l’impianto di un pacemaker o di un defibrillatore, al momento delle dimissioni il paziente riceve un trasmettitore che, una volta a casa, dovrà essere posizionato vicino al letto. Tale strumento ogni notte si metterà in collegamento con l’impianto, scaricherà la registrazione dell’attività cardiaca della giornata e la comunicherà al Servizio di Cardiologia dell’ospedale. Il mattino dopo l’equipe guarderà la registrazione e, in caso di necessità, si metterà in contatto con il paziente.

Nel video qui sotto l’infermiere Paolo Gasparini, del Servizio di Cardiologia del Sacro Cuore, spiega nel dettaglio come funziona questo sistema di “controllo remoto” del cuore…


Vaccino anti-Covid in età pediatrica: la risposta ai dubbi più frequenti

Con l’inizio ormai imminente delle scuole, molti genitori sono alle prese con la decisione se vaccinare contro il Covid-19 il proprio figlio o la propria figlia di età compresa fra i 12 e i 18 anni. Già dal mese di maggio l’EMA (Agenzia Europea del Farmaco) aveva autorizzato per questa fascia di età l’uso del vaccino di Pfizer Biontech, mentre da luglio l’autorizzazione è stata estesa anche al vaccino di Moderna. Eppure molti genitori, che magari hanno aderito alla campagna vaccinale per se stessi, ora sono più dubbiosi quando si tratta di vaccinare i loro ragazzi.

Tra le domande più frequenti: questi vaccini sono stati sperimentati adeguatamente sui minori? Il vaccino può incidere negativamente sullo sviluppo futuro dei ragazzi? Quali sono gli effetti collaterali a medio e lungo termine? Perchè rischiare il vaccino se il tasso di gravità della malattia nei giovani è molto basso?

Abbiamo posto queste ed altre domande al dottor Giorgio Zavarise, medico pediatra della Pediatria del “Sacro Cuore”, con una lunga esperienza nel campo delle malattie infettive e tropicali in età pediatrica.


Il fuoco di Sant'Antonio: il ritorno con dolore del virus della varicella

L’herpes zoster, meglio conosciuto come fuoco di Sant’Antonio, può comportare non irrilevanti complicanze, come per esempio un forte dolore poco responsivo ai classici farmaci antidolororifici e che dura per mesi. Gli antivirali non sono del tutto efficaci nell’impedire l’insorgere della nevralgia. Lo sono i vaccini, soprattutto l’ultimo in commercio indicato anche per gli immunodepressi

Deve il suo nome comune all’egiziano Sant’Antonio Abate, l’eremita che sperimentò sulla sua pelle le ustioni dolorose del fuoco dello Spirito Santo. Herpes zoster, il nome scientifico della malattia, invece non ha nulla di evocativo, se non quel dolore descritto a volte come insopportabile da parte di coloro che hanno avuto a che fare con l’eruzione cutanea. E non sono pochi. Si stimano circa 200mila casi all’anno in Italia, con un’incidenza che aumenta con l’età fino ad arrivare al 10 per mille negli ultraottantenni.

Giuseppe Marasca, infettivologo dell'Irccs Sacro Cuore Don Calabria
Dr. Giuseppe Marasca

Per prevenire sia l’insorgere dell’herpes zoster sia la complicanza dolorosa, da alcuni anni la medicina dispone di due vaccini sicuri a diversa efficacia ed indicazione. Sono poco sconosciuti alla popolazione: non essendo il fuoco di Sant’Antonio un problema di sanità pubblica, non godono infatti di molta “promozione” e di conseguenza vengono poco consigliati anche a coloro che hanno un’alta probabilità di sviluppare l’herpes zoster.

Cos’è il fuoco di Sant’Antonio

L’herpes zoster (da non confondere con l’herpes simplex che colpisce le mucose di bocca, naso e genitali) è la conseguenza della riattivazione endogena del virus varicella-zoster (VVZ) che è all’origine della malattia infettiva pediatrica. In seguito alla prima infezione il VVZ rimane sotto forma latente nei gangli nervosi, manifestandosi con l’eruzione cutanea a seguito, per esempio, di un deficit immunitario.

Chi colpisce

L’età è un fattore predisponente, perché con l’avanzare degli anni viene meno la risposta anticorpale, cioè la memoria all’esposizione di antigeni virali o batterici acquisiti in gioventù. Ma anche lo stress, una patologia immunodepressiva o un’eccessiva esposizione solare possono essere causa del “Fuoco di Sant’Antonio”.

Come si manifesta

L’herpes zoster si presenta come una chiazza eritematosa localizzata nell’addome o nel tronco, più difficilmente alle braccia, o al viso. L’importante arrossamento è accompagnato da piccole vesciche bianche che possono sovrainfettarsi e hanno una durata di 4-7 giorni, poi si seccano e scompaiono, lasciando una zona di discromia, cioè di cambiamento di colore della pelle. La manifestazione visiva è accompagnata da sintomatologia dolorosa e fastidiosa, spesso da prurito.

Le complicanze

“L’eruzione cutanea di per sé non è un problema e si autolimita anche senza una terapia specifica. Il reale problema dell’herpes zoster sono le complicanze”, sottolinea il dottor Giuseppe Marasca, infettivologo del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali e Microbiologia. “Se interessa il nervo oculare può provocare danni cheratinici fino alla perdita della vista. Mentre se coinvolge il nervo acustico, può determinare eruzioni cutanee dolorose a livello del canale acustico esterno, della membrana timpanica, associarsi a una paralisi periferica del nervo facciale, oltre a disturbi all’equilibrio (sindrome di Ramsay Hunt)”, spiega il medico. Ma la complicanza più frequente è lo stato doloroso cronico, che può comparire anche a distanza di tempo dall’insorgenza dell’herpes zoster, con una durata di mesi.

Quel dolore insopportabile

“Si tratta di una nevralgia posterpetica provocata da un’infiammazione dei nervi periferici dovuta al virus – riprende il dottor Marasca -. Gli attacchi dolorosi sono talvolta molto intensi tali da compromettere pesantemente la qualità di vita e difficilmente responsivi agli antidolorifici tradizionali, come la tachipirina o l’aspirina. Spesso si ricorre ai corticosteroidi, ma anche agli antidepressivi triciclici o gli anticonvulsivanti”.

Le terapia antivirali

Come si interviene una volta diagnosticato “il fuoco di Sant’Antonio”? “Esistono farmaci antivirali (come l’aciclovir o il valaciclovir) che devono essere somministrati entro 72 ore dall’esordio per la durata di 7 giorni – risponde – Tuttavia sebbene si rispetti rigorosamente la posologia, come deve essere fatto, la terapia farmacologica riduce la sintomatologia cutanea, ma non è detto che eviti la complicanza neuropatica. Per questo esiste il vaccino”.

I vaccini

Sul mercato attualmente sono presenti due tipi di vaccino: lo Zostavax e lo Shingrix. “Non sono da confondere con il vaccino contro la varicella, somministrato ad 1 anno di vita – precisa l’infettivologo -. Anche se questo prevenendo la malattia virale previene di conseguenza anche il fuoco di Sant’Antonio”.

Lo Zostavax, ha esordito nel 2006 e in Italia è offerto gratuitamente come previsto dai Livelli Essenziali di Assistenza a coloro che hanno compiuto 65 anni e agli ultra cinquantenni affetti da diabete mellito, patologia cardiovascolare e BPCO o candidati al trattamento con terapia immunosoppressiva (per esempio antitumorale), fattori che aumentano il rischio di sviluppare HZ o ne aggravano il quadro sintomatologico.

“Lo Zostavax ha un’efficacia non ottimale (50%) nel prevenire l’insorgenza dell’herpes, ma buona nel prevenire le complicanze neuropatiche (66%). Tuttavia ha un limite: essendo un vaccino da virus vivo attenuato, non può essere somministrato alle persone immunocompromesse che, paradossalmente, sono quelle maggiormente a rischio”.

Limite superato dallo Shingrix, disponibile in Italia da circa un anno – ma è stato approvato dalla Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti nel 2017 e dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) nel 2018 -. E’ composto da un antigene, la glicoproteina E (gE), un componente strutturale del virus varicella zoster (VZV). Mentre per Zostavax era sufficiente una sola somministrazione, per lo Shingrix ne sono necessarie due a distanza di 2-6 mesi. “Negli studi autorizzativi questo vaccino si è dimostrato molto più efficace dell’altro: nel prevenire l’herpes zoster (90%) e le complicanze neuropatiche (100%). Per ora in Italia è disponibile gratuitamente in alcune regioni solo ai pazienti indicati (immnodepressi)”.

 


Quando il cuore perde il ritmo: le extrasistoli

E’ una forma di aritmia molto comune e in genere non pericolosa: solo in una modesta percentuale di pazienti cardiopatici le extrasistoli potrebbero riservare delle sorprese. L’aritmologo Alessandro Costa ci spiega cosa sono, come vengono diagnosticate ed eventualmente trattate. E perché a volte dipendono dalla cattiva digestione

Dotto r Alessandro Costa, cardiologo IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar
Dr. Alessandro Costa

L’impressione è che il cuore “balbetti”, creando un malessere che costringe a un colpo di tosse con l’intento di riportare il muscolo più importante del nostro corpo al giusto ritmo. Sono le cosiddette extrasistoli, una forma di aritmia molto comune e in genere non pericolosa: solo in una modesta percentuale di pazienti cardiopatici le extrasistoli potrebbero riservare delle sorprese. L’importante è quindi capire se questa anomalia del ritmo cardiaco si innesta su un cuore oppure in un contesto di cardiopatia e agire di conseguenza, come sottolinea il dottor Alessandro Costa, aritmologo della Cardiologia dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria.

Dottor Costa, cosa s’intende per extrasistole?

Si tratta di un battito cardiaco “prematuro”, che interrompe il normale e completo riempimento del cuore, tra un battito e quello successivo, producendo una pulsazione quasi impercettibile, descritta spesso come un “tuffo al cuore”, seguita da una pulsazione più forte (un “colpo” al centro del petto), effetto del “resettarsi” del normale battito cardiaco. Questa sequenza (battito “abortito”/battito forte) può presentarsi più volte nell’arco della giornata ed essere inavvertita o appena avvertita; non di rado, però, ciò può risultare sgradevole.

Le extrasistoli sono pericolose per la salute del cuore?

Se il muscolo cardiaco è “sano”, sia dal punto di vista “strutturale” che delle proprietà elettriche delle membrane cellulari, le extrasistoli saranno difficilmente in grado di creare problemi seri al paziente. Al contrario, in presenza di cardiopatia, sia le extrasistoli sopraventricolari (originate negli atri e ritenute per questo “innocenti”) che quelle ventricolari (originate nei ventricoli e per questo più temute) potrebbero diventare “trigger”, cioè fattori d’innesco di aritmie più complesse.  Come le tachicardie più prolungate e la “famigerata” fibrillazione atriale, per quanto riguarda le extrasistoli sovraventricolari. Oppure la tachicardia ventricolare o la temibile fibrillazione ventricolare nel caso di extrasistoli ventricolari. Quest’ultime però hanno un’ulteriore particolarità.

Quale?

Il “numero totale” di extrasistoli ventricolari nelle 24 ore non è considerato il fattore più importante per valutarne la gravità. Tuttavia, quando esse costituiscano il 20-30% dei battiti totali quotidiani (dunque, vi siano almeno 15.000 – 20.000 extrasistoli ventricolari al giorno), si può verificare un graduale deterioramento della “funzione di pompa” del cuore, tale da portare alle soglie dello scompenso cardiaco anche un paziente in buona salute.

Come vengono diagnosticate le extrasistoli e come viene valutato il loro grado di rischio?

L’iter diagnostico prevede una visita cardiologica con elettrocardiogramma (ECG).  Molto importante è un’attenta anamnesi familiare (cardiopatie o morti improvvise in famiglia) e personale. Infatti spesso le extrasistoli sono facilitate da comportamenti sbagliati (eccessivo utilizzo di sostanze eccitanti, come té, caffè, alcol, cioccolato, ma anche vita sedentaria, sovrappeso, reflusso gastroesofageo, apnee notturne…). Elemento rilevante dell’anamnesi individuale sono le “sincopi”, cioè eventuali episodi di svenimento, specialmente se non emerge una causa precisa. In assenza di una diagnosi di cardiopatia – come avviene per la maggioranza dei casi – il paziente potrà essere rassicurato e congedato con qualche consiglio comportamentale (ad es. ridurre l’uso di sostanze eccitanti…). In caso contrario, si procederà ad ulteriori accertamenti.

Quali?

L’esame più utilizzato e noto è l’EGC dinamico secondo Holter (“ECG Holter”), cioè la registrazione dell’elettrocardiogramma per 24 ore. Con questo esame viene documentata la quantità di extrasistoli di una giornata, rapportandola anche al numero totale dei battiti cardiaci. Inoltre viene valutato se le extrasistoli prevalgano nelle ore di veglia o nel sonno, durante attività fisica o riposo; se si manifestino una alla volta (isolate) o in sequenze di due, tre o più battiti (ripetitive); se intervengano a cadenze regolari (bigeminismo, trigeminismo) o meno. Altro dato importante è la loro precocità, cioè la relazione temporale tra l’extrasistole e il battito precedente (che spesso è in qualche modo all’origine dell’extrasistole stessa). Infine, l’ECG Holter ci consente di apprezzare eventuali variazioni di aspetto di alcune componenti dell’elettrocardiogramma (ad esempio, le onde T o l’intervallo QT), che potranno essere correlate all’eventuale cardiopatia di base e valutate per le possibili conseguenze.

Per poter cogliere tutte queste informazioni, è necessario che l’ECG Holter fornisca una registrazione elettrocardiografica “completa”, cioè “a 12 derivazioni”, come quella del normale tracciato ECG. I dispositivi che il “Sacro Cuore Don Calabria” fornisce ai pazienti sono proprio di questo tipo. L’analisi a 12 derivazioni permette di “mappare” con precisione, e in modo non invasivo, la sede d’origine delle extrasistoli: non solo se esse nascano negli atri o nei ventricoli, ma anche in quale parte di essi.

Può bastare l’Holter per avere un quadro diagnostico completo?

L’ECG Holter consente una valutazione squisitamente elettrica del fenomeno extrasistole. Per una valutazione morfologica e funzionale del cuore è necessario avvalersi di altri esami, per lo più ambulatoriali e non invasivi. L’Ecocardiogramma Color-Doppler, anzitutto, fornisce una grande quantità di informazioni. In casi selezionati, è oggi disponibile anche la Risonanza Magnetica Cardiaca, che dà informazioni complementari a quelle dell’Ecocardiogramma. Il Test da Sforzo al Cicloergometro è invece lo “stress-test” più semplice per valutare il comportamento delle extrasistoli durante esercizio, in condizioni controllate e in sicurezza. Possono essere talora necessari anche esami invasivi: ad esempio la Coronarografia, utile nell’ipotesi di un’origine ischemica delle aritmie, e lo studio Elettrofisiologico, che valuta la vulnerabilità del tessuto cardiaco rispetto ad aritmie più complesse (che – come si è detto – le stesse extrasistoli potrebbero innescare) e ci consente di “mappare” con estrema precisione l’origine delle extrasistoli, grazie agli elettrocateteri introdotti nelle cavità cardiache. Questi esami invasivi prevedono un breve ricovero e i pazienti vanno sempre ben informati sui possibili rischi e sul rapporto rischio / beneficio di tali accertamenti.

La terapia delle extrasistoli si limita allora ad un cambiamento degli stili di vita?

Spesso è così, specialmente in assenza di cardiopatia. Se però i sintomi risultano invalidanti, per il normale svolgimento delle attività quotidiane, si può avviare una terapia farmacologica, mirata alla riduzione delle extrasistoli. I farmaci più comunemente prescritti sono i beta-bloccanti, o alcuni calcio-antagonisti. In casi selezionati, si ricorre a veri e propri farmaci antiaritmici, dal meccanismo d’azione più complesso e di competenza esclusivamente specialistica.

Nel caso di pazienti con cardiopatia?

Nei pazienti con cardiopatia, la terapia delle extrasistoli coincide e spesso completa la terapia della patologia sottostante. Ad alcuni pazienti, molto sintomatici, cardiopatici e non, potrà essere proposto infine un tentativo di ablazione delle extrasistoli: si tratta di una terapia invasiva, che completa lo studio elettrofisiologico, volta a bonificare la zona di tessuto da cui originano le extrasistoli, attraverso una cauterizzazione che ne spegne l’attività. Per i pazienti con cardiopatia grave e prognosi severa, si dovrà comunque ipotizzare l’impianto di un Defibrillatore Cardiaco Automatico (AICD), perché non è garantito che la terapia farmacologica estingua del tutto le extrasistoli e con loro il pericolo di aritmie più gravi, anche fatali.

Perché si ritiene che le extrasistoli possano essere causate dal reflusso gastroesofageo?

Un sicuro rapporto di causa-effetto tra extrasistoli e reflusso gastro-esofageo non è mai stato provato del tutto, ma è nozione comune che la digestione difficile e il reflusso gastroesofageo possono essere trigger di extrasistoli.  In particolare, nel caso delle extrasistoli sopraventricolari, si è ipotizzato che la contiguità anatomica tra esofago e atrio cardiaco sinistro possa trasmettere al cuore l’irritazione della mucosa esofagea, dovuta al reflusso acido dallo stomaco, favorendo l’extrasistolia.

Quindi, basta un antiacido?

A volte… Ma non si deve mai fare una diagnosi frettolosa. Anche “innocenti” extrasistoli sovraventricolari potrebbero essere spia di un’ipertensione arteriosa non ben controllata, o di un’iniziale patologia delle valvole cardiache… Dunque è necessaria da parte del cardiologo massima attenzione e scrupolosità, pur consapevoli che – nella grande maggioranza dei casi – le extrasistoli sono e rimangono un sintomo benigno, senza conseguenze di rilievo.


Centro prelievi

Esami di Laboratorio: dal 1° settembre solo su prenotazione

Centro prelievi

Da mercoledì 1° settembre il Centro prelievi dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria effettuerà esami di laboratorio solo su prenotazione, anche quelli routinari per la terapia anticoagulante (Coumadin). Si ricorda che dal 2 agosto è possibile effettuare gli esami a pagamento. Il costo è quello del tariffario regionale, quindi spesso la spesa totale con impegnativa del medico curante o senza impegnativa è la stessa.

Per garantire maggiormente il rispetto delle misure anticontagio a tutela degli utenti e quindi evitare gli assembramenti, da mercoledì 1° settembre il Centro prelievi dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria effettuerà esami di laboratorio solo su prenotazione, anche quelli routinari per la terapia anticoagulante (Coumadin)

Viene sospesa quindi la fascia oraria dalle 6.00 alle 7.00 in cui era possibile accedere senza aver prenotato

oppure

  • telefonicamente (045.6013081 dal lunedì al venerdì dalle 8 alle 18 e il sabato dalle 8 alle 13).

Si ricorda che dal 2 agosto è possibile effettuare gli esami a pagamento. Il costo è quello del tariffario regionale, quindi spesso la spesa totale con ricetta del medico curante o senza ricetta è la stessa. Cliccando qui si può conoscere il costo degli esami più ricorrenti

Il Centro prelievi si trova al primo piano dell’ingresso unico dell’Ospedale (entrata pedonale da viale Rizzardi mentre in auto l’accesso alla rampa dei parcheggi – collegati da ascensori alla struttura – è in via Ghedini). Prima di accedere al Centro è necessario fare l’accettazione (piano terra). Per conoscere le modalità e gli orari di accesso clicca qui


La chirurgia endoscopica che "libera" le vie lacrimali in dieci minuti

La chiusura totale o parziale (stenosi) delle vie lacrimali spesso trova una soluzione chirurgica. All’IRCCS di Negrar viene praticata una tecnica endoscopica che, a differenza di quella applicata nella maggior parte dei centri, comporta l’approccio retrogrado e non anteriore alla via lacrimale: un intervento che vede la collaborazione in sala operatoria dell’otorino e dell’oculista e dura circa 10 minuti

Perché quando si piange si ricorre subito al fazzoletto per soffiarsi il naso? L’arcano è presto risolto: l’occhio e il naso sono collegati dalla via lacrimale che ha il compito di drenare le lacrime verso le cavità nasali. Questo piccolo “canale” può andare tuttavia incontro a chiusura (totale o parziale), provocando il ristagno di lacrime, un liquido che, in quanto nutriente, è preda prelibata della fauna batterica e quindi terreno fertile le infezionii. Le frequenti infezioni sono infatti uno dei sintomi più comuni della patologia delle vie lacrimali, la cui soluzione molto spesso è chirurgica.

NEGRAR CENTRO DI RIFERIMENTO PER LA CHIRURGIA DELLE VIE LACRIMALI

Dr. Sergio Albanese

Giuliano Stramare, oculistica IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar
Dr. Giuliano Stramare

L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è un centro di riferimento per la chirurgia delle vie lacrimali (Dacrocistorinostonia – DCR), sia perché annovera una delle maggiori casistiche italiane (800 casi in circa 15 anni) sia per la particolare tecnica chirurgica applicata, che vede fianco a fianco in sala operatoria l’otorino e l’oculista. Più precisamente il dottor Sergio Albanese, direttore dell’Otorinolaringoiatria, e il dottor Giuliano Stramare, specialista della chirurgia delle vie lacrimali, anche in ambito pediatrico.

“Si tratta sempre di una metodica endoscopica (cioè attraverso il naso, ndr), ma a differenza di quella applicata nella maggior parte dei centri, l’approccio alla via lacrimale occlusa è retrogrado e non anteriore”, spiegano i due chirurghi. “Questo ci consente di effettuare un intervento che ha esiti in linea con la letteratura, ma senza quelle complicanze che possono provocare l’uso del laser e delle frese. Inoltre vengono abbattuti i tempi dell’intervento: si passa da oltre un’ora a circa 10 minuti, senza intubare il paziente ma solo con una sedazione profonda”.

LE CAUSE DELLA STENOSI DELLE VIE LACRIMALI

La stenosi parziale o totale della via lacrimale può avere le più svariate cause, in parte sconosciute. “L’anatomia è un fattore predisponente – spiegano ancora i due specialisti -. La via lacrimale non ha una configurazione lineare in quanto è predisposta per far defluire le lacrime e nello stesso tempo per impedire che le secrezioni nasali risalgano verso l’occhio. Vie lacrimali particolarmente tortuose possono quindi andare incontro ad occlusione. A volte la causa dell’ostruzione sono lacrime particolarmente dense che faticano a defluire”.

I SINTOMI DELLA PATOLOGIA

In tutti i casi, i sintomi della patologia delle vie lacrimali sono lacrimazione abbondante e ricorrenti infezioni all’occhio. A volte si può formare una sacca purulenta e molto dolorosa alla radice del naso, segno di un’empiemia, una complicanza infettiva più evoluta, che necessita un intervento a breve termine (entro qualche settimana).

LA CHIRURGIA ENDOSCOPICA TRADIZIONALE

“Non molto tempo fa l’unica metodica chirurgica possibile era quella invasiva, con un taglio laterale alla radice del naso, che si rende però ancora necessaria di fronte a recidive”, proseguono il dottor Albanese e il dottor Stramare. “Poi è intervenuta la chirurgia endoscopica, meno invasiva ma non senza difficoltà. L’approccio anteriore alla via lacrimale deve fare i conti con una parete ossea consistente che per essere penetrata necessita del laser a Co2 e delle frese. La “bruciatura” violenta dell’osso provocata dal laser (il calore raggiunge i 400°) e aggravata dall’uso della fresa comporta l’alto rischio di complicanze e di recidive”.

LA NUOVA TECNICA: L’APPROCCIO POSTERIORE

Proprio di fronte agli esiti poco soddisfacenti della classica tecnica endoscopica, Albanese e Stramare hanno messo insieme le competenze, endoscopiche, il primo, e chirurgiche oftamologiche, il secondo. “Abbiamo tentato quindi un approccio posteriore alla via lacrimale, dove si incontra, invece, una parete facilmente penetrabile, senza laser né fresa”. A segnalare in punto preciso dove aprire è la sonda inserita dall’oculista attraverso l’occhio. In meno di dieci minuti l’intervento è concluso, un vantaggio enorme dal punto di vista anestesiologico visto che la gran parte dei pazienti sono anziani.

OTORINO E CHIRURGO OCULISTA ASSIEME IN SALA OPERATORIA

“Si tratta di un cosiddetto intervento di confine in quanto coinvolge due chirurghi di differente specialità, la cui presenza in contemporanea in sala operatoria consente anche di avere la massima competenza quando si verifica una complicanza o nel far diagnosi di varianti, come neoplasie nasali o anomalie oculari”, concludono il dottori Albanese e Stramare.

elena.zuppini@sacrocuore.it


La chemioterapia intraperitoneale: l'efficacia per alcuni tumori intestinali e ginecologici

Con la Chemio Ipertermia Intraperitoneale il  farmaco antitumorale viene somministrato con soluzione fisiologica riscaldata direttamente nella cavità addominale durante la seduta operatoria oncologica, sfruttando l’effetto tumoricida del calore. I primi tre casi trattati al “Sacro Cuore” all’interno dello studio CHECK

Si chiama HIPEC, un acronimo inglese che sta per Chemio Ipertermia Intraperitoneale. A differenza del trattamento antitumorale tradizionale, il farmaco non viene infuso per via endovenosa ma somministrato con soluzione fisiologica riscaldata direttamente nella cavità addominale durante la seduta operatoria oncologica. Questa tecnica coniuga da un lato la possibilità di sfruttare l’effetto del calore che, oltre a possedere di per sé proprietà tumoricide, favorisce l’ingresso nelle cellule di alcuni farmaci ed il loro effetto antitumorale. Dall’altro permette di esporre il tumore a dosi di chemioterapico notevolmente superiori a quelle possibili tramite l’infusione tradizionale, riducendo però al minimo gli effetti collaterali.

Dr. Giacomo Ruffo

Nei giorni scorsi, la Chirurgia Generale dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, ha trattato con questa tecnica ed in videolaparoscopia i primi tre pazienti affetti da carcinoma colo-rettale, con risultati soddisfacenti per quanto riguarda la tollerabilità del trattamento ed il recupero post-intervento.

La chemioterapia intraperitoneale ipertermica viene effettuata una volta concluso l’intervento e si serve di un apposito macchinario dotato di tre cannule che vengono inserite nell’addome del paziente. Una cannula somministra il chemioterapico, un’altra la soluzione fisiologica riscaldata e la terza anidride carbonica. Il processo di somministrazione ed aspirazione del liquido introdotto continua per circa due ore e poi il paziente, salvo comorbidità che richiedano il ricovero in terapia intensiva, viene riportato in reparto.

La carcinosi peritoneale

Le neoplasie intestinali – come il cancro al colon-retto – e quelle ginecologiche possono avere come sito di progressione il peritoneo, la membrana sierosa che riveste interamente la cavità addominale. Quando si presenta questa condizione clinica si parla di carcinosi peritoneale, che, tuttavia, non si verifica per tutti i tumori colo-rettali e ginecologici. La conoscenza della storia naturale della malattia ha permesso di identificare i pazienti che al momento della diagnosi o del trattamento del tumore primitivo presentano specifici fattori di rischio per lo sviluppo della carcinosi. Si tratta di pazienti con tumore primitivo del colon retto T4a o T4b e/o con carcinosi peritumorale asportabile chirurgicamente con la neoplasia primitiva oltre a pazienti con metastasi ovariche (tumore di Krukenberg).

Chirurgia profilattica associata a HIPEC

Proprio per questo tipo di carcinomi negli ultimi decenni sono stati riportati in letteratura risultati incoraggianti per quanto riguarda l’utilizzo della chirurgia profilattica associata all’HIPEC. In particolare recenti studi hanno dimostrato che in pazienti con cancro al colon retto ad alto rischio di carcinomatosi peritoneale, questa tecnica si è verificata in grado di migliorare la sopravvivenza a lungo termine e di ridurre il tasso di progressione della malattia sul peritoneo.

Lo studio CHECK

Su questo razionale nasce lo studio italiano multicentrico CHECK, a cui partecipa la Chirurgia Generale con il coinvolgimento attivo dell’Oncologia e della Farmacia ospedaliera. Il principal investigator dello studio è il Professor Fabio Pacelli dell’Ospedale Gemelli di Roma, mentre il coordinatore scientifico è il Dottor Gianluigi Melotti. Lo studio gode della collaborazione delle principali società italiane di chirurgia e oncologia quali ACOI (Associazione Chirurghi Ospedalieri), Fondazione AIOM (Associazione Italiana Oncologia Medica), SIC (Società Italiana di Cardiologia), SICE (Società Italiana di Chirurgia Endoscopica) e SICO (Società Italiana di Chirurgia Oncologica)

Due bracci a confronto

Lo studio CHECK è uno studio randomizzato di fase tre con due bracci. Nel primo, quello sperimentale, i pazienti vengono sottoposti a chirurgia profilattica, con l’asportazione non solo del tumore primitivo ma anche di omento, appendice, legamento rotondo del fegato ed eventualmente ovaie nelle donne che rappresentano sedi ad alto rischio di carcinosi peritoneale. Alla chirurgia viene associata la Chemio Ipertermia Intraperitoneale con Mitomicina, un antibiotico dall’azione antitumorale, che va ad eliminare possibili residui di cellule tumorali presenti nella cavità addominale.  Nel braccio comparatore, invece, i pazienti vengono sottoposti a chirurgia laparoscopica standard. Dei tre pazienti trattati a Negrar, due sono inseriti nel braccio sperimentale e uno in quello di confronto.

Obiettivi dello studio

L’obiettivo principale dello studio è quello di confrontare l’efficacia della chirurgia profilattica associata a HIPEC rispetto alla chirurgia standard in termini di sopravvivenza libera da recidiva locale, sopravvivenza libera da malattia e sopravvivenza globale in pazienti con carcinoma del colon-retto ad alto rischio di sviluppare carcinosi peritoneale. L’obiettivo secondario dello studio è invece quello di confrontare il profilo di sicurezza della nuova metodica considerando mortalità e morbilità post-operatoria, durata dell’intervento e del ricovero.


Associazione stomizzati e incontinenti: la sede al "Sacro Cuore"

Ha sede presso l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, l’AIS, l’associazione dei pazienti incontinenti e stomizzati seguiti dall’Ospedale di Negrar e di Borgo Trento. L’importanza di accendere i riflettori sulle difficoltà che incontrano i pazienti che, a causa di varie patologie, vanno incontro a stomia o a incontinenza. 

Ha sede presso l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, l’AIS, l’associazione dei pazienti incontinenti e stomizzati seguiti dall’Ospedale di Negrar e di Borgo Trento. Circa una settantina di persone, molte delle quali hanno subito a causa di varie patologie – tumori al colon retto, malattie infiammatorie croniche dell’intestino, endometriosi… –  la rimozione chirurgica di un tratto di intestino o di apparato urinario, con la conseguente creazione di una stomia, cioè di una piccola apertura chirurgica sull’addome per consentire la fuoriuscita del contenuto dell’intestino o della vescica in una sacca esterna. Accanto a loro i pazienti affetti da incontinenza, cioè la perdita involontaria di feci e urina.

Andrea Geccherle, responsabile del Centro Polispecialistico per le malattie retto-intestinali
Dr. Andrea Geccherle

L’Associazione, che fa parte della Federazione Incontinenti e Stomizzati (FAIS), è guidata dal dottor Andrea Geccherle, responsabile del Centro per le malattie colon-rettali dell’Ospedale di Negrar. Il direttivo è poi formato da Elio Perazzini (vicepresidente), Franco Tabarin (tesoriere), Alessandro Ferrari (segretario) e Adriano Zanolli (consulente)

“E’ fondamentale che pazienti con simili problematiche abbiano una sede di confronto – spiega il dottor Geccherle -. Questo sia per incontrare esperti al fine della soluzione di problemi pratici sia perché il gruppo è un formidabile sostegno psicologico”. Oggi le persone con stomia sono un numero molto minore rispetto al passato. Inoltre prevalgono nettamente le stomie provvisorie che si rendono necessarie nel 20% dei casi chirurgici contro il 2% delle stomie definitive. “Tuttavia tra questi pazienti abbiamo molti giovani affetti da endometriosi, colite ulcerosa o morbo di Crohn – continua il medico – che si trovano a dover gestire nel quotidiano una condizione tale da modificare la percezione corporea di se stessi e, di conseguenze, da condizionare le relazioni interpersonali”.

Ma è l’incontinenza a rimanere il vero tabù, “di cui si parla ancora troppo poco, anzi non si parla affatto, nonostante gli sforzi della comunità medica e delle associazioni dei pazienti – sottolinea Geccherle -. Si stima che il 57,2% di chi soffre di incontinenza urinaria non abbia mai parlato del problema con familiari e conoscenti, perché prova vergogna. Non parlandone, non approfondendo le criticità, le necessità, i bisogni non si trovano ovviamente le soluzioni, che possono esserci. Da qui l’importanza di Giornate nazionali come quella del 28 giugno per la prevenzione e la cura dell’incontinenza e delle associazioni di pazienti come l’AIS”.

Coloro che fossero interessati a far parte della AIS di Negrar possono contattare la signora Roberta Freoni, coordinatrice infermieristica della Chirurgia Generale, all’indirizzo mail roberta.freoni@sacrocuore.it