l'IRCCS di Negrar Centro Flebologico di eccellenza

La certificazione è stata conferita dalla Società Italiana di Flebologia all’Unità Operativa Semplice di Flebologia per essere in possesso di tutti requisiti richiesti a un centro di eccellenza, sia per la quantità sia per la complessità dei casi trattati. 

L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è Centro Flebologico di livello avanzato per la diagnosi e il trattamento delle patologie del sistema venoso

profondo e superficiale degli arti inferiori. La certificazione è stata conferita dalla Società Italiana di Flebologia all’Unità Operativa Semplice di Flebologia per essere in possesso di tutti requisiti richiesti a un centro di eccellenza, sia per la quantità sia per la complessità dei casi trattati. La certificazione ha durata di 5 anni e ne sono in possesso attualmente altri 37 centri italiani.

Palo Tamellini, chirurgo vascolare IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar
Dottor Paolo Tamellini

Il riconoscimento è il risultato del livello di competenza raggiunto in questi anni nel campo delle patologie venose, in particolare nel trattamento delle occlusioni croniche del sistema venoso profondo, i cosiddetti esiti di trombosi”, afferma il dottor Paolo Tamellini, responsabile della Flebologia, che fa parte della Chirurgia Vascolare, diretta dal dottor Antonio Jannello. “Proprio per questo la certificazione SIF rappresenta per il paziente che sceglie il nostro centro un’ulteriore garanzia di sicurezza”

Andrea Recchia, chirurgo vascolare IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar
Dottor Andrea Recchia

Sono un centinaio gli interventi di termoablazione laser dei tronchi safenici e 150 le safenectomie che vengono eseguiti in media all’anno – tutti in regime ambulatoriale – dal dottor Tamellini e dal collega Andrea Recchia. E’ inoltre attivo un ambulatorio per la diagnostica e un ambulatorio per il trattamento con sclerosanti delle vene varicose. Infine il “Sacro Cuore Don Calabria” è uno dei pochi ospedali ad aver aperto un ambulatorio dedicato alla cura delle ulcere venose, una patologia dolorosa, invalidante e difficile da trattare che colpisce anche soggetti giovani.

“La Flebologia di Negrar è anche impegnata sul fronte della ricerca” sottolinea il dottor Tamellini. E’ infatti attivo uno studio clinico retrospettivo che partendo dal 2014 mette a confronto gli interventi sulla safena eseguiti con il laser e quelli effettuati tramite chirurgia open (stripping). Ai pazienti che aderiscono alla ricerca vengono proposti un esame ecocolordoppler e una visita flebologica gratuiti. È in corso inoltre uno studio prospettico randomizzato che prevede l’arruolamento di 200 pazienti, divisi in due bracci: un braccio sarà trattato con i laser e l’altro con lo stripping. Questi pazienti verranno seguiti per un arco di 5 anni. Lo scopo di queste ricerche cliniche – conclude il medico – è quello di confrontare i risultati nel tempo della metodica non invasiva rispetto a quella tradizionale”.


Il "Sacro Cuore" nel progetto europeo per cura radioterapica delle aritmie maligne

L’IRCCS di Negrar entra nel consorzio STOPSTORM, un progetto finanziato dalla Commissione europea per la valutazione di un innovativo trattamento delle artmie ventricolare maligne, per il quale il “Sacro Cuore Don Calabria” detiene la più alta casistica italiana

L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria – in particolare la UOC di Cardiologia diretta dal dottor Giulio Molon e il Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata diretto dal professor Filippo Alongi – è uno dei quattro Centri italiani invitati a far parte del consorzio europeo STOPSTORM, finanziato dalla Commissione Europea e nato dall’omonimo progetto “A prospective European validation cohort for stereotactic therapy of re-entrant tachycardia” vincitore del bando “Better Health and care, economic growth and sustainable health” nell’ambito dell’8° Programma europeo per la Ricerca e Innovazione HORIZON 2020 (2014-2020).

Il consorzio, coordinato dall’Universitair Medisch Centrum (UMCU) di Utrecht (Olanda), mira a mettere a punto gli standard di una terapia non invasiva, finalizzata alla cura delle aritmie ventricolari maligne attraverso l’utilizzo della radioterapia.

Il trattamento innovativo prende il nome di radioablazione stereotassica dell’aritmia, detta STAR (Stereotactic Arrhytmia Radioablation), per la quale l’IRCCS di Negrar vanta il più alto numero di interventi effettuati in Italia: cinque dal marzo dello scorso anno. (vedi articolo)

Ogni anno nel mondo la morte improvvisa da aritmie ventricolari minacciose colpisce 900.000 persone ed è più frequente tra i pazienti con pregresso infarto miocardico o cardiomiopatia dilatativa. A causa dell’invecchiamento della popolazione e al diffondersi delle sindromi metaboliche e delle loro complicazioni (come le malattie cardiache ischemiche), la prevalenza della Tachicardia Ventricolare nei Paesi industrializzati ha subìto un sensibile aumento.

Solitamente i pazienti con aritmie maligne vengono trattati con farmaci e con l’impianto di un defibrillatore. In un gruppo di pazienti che riceve il defibrillatore gli episodi aritmici e le conseguenti scariche elettriche del dispositivo sono così frequenti e ricorrenti da ridurre pesantemente la loro aspettativa di vita oltre che la qualità.

Le linee guida prevedono che questi pazienti vadano trattati con ablazione, mediante cateteri posizionati nel cuore che scaricano radiofrequenza nel punto in cui è presente il ‘cortocircuito’ che provoca le aritmie. Si tratta di una procedura che presenta rischi molto elevati in alcune categorie di persone, per l’età o per la presenza di altre patologie rilevanti.

In questo gruppo di pazienti trova spazio la STAR, acronimo coniato in analogia al trattamento radioterapico per le neoplasie, la SAbR, (Stereotactic Ablative Radiotherapy), che trova indicazione nei tumori primitivi o metastatici. Questo sistema consente l’erogazione di alte dosi direttamente sul tumore con estrema precisione e con un ridotto coinvolgimento dei tessuti sani circostanti. Con lo stesso meccanismo possiamo trattare le aree del cuore che scatenano le aritmie, danneggiandone le cellule grazie alle radiazioni, un danneggiamento tale da portarle alla morte. Si viene così a formare una cicatrice omogenea che impedisce il formarsi del ritmo anomalo.

Attualmente questa terapia è però erogata solo in pazienti selezionati ed in modo sperimentale. Il consorzio STOPSTORM si propone – partendo dalla condivisione dei dati, conoscenze ed esperienze dei Centri di eccellenza europei – di convalidare la sicurezza e l’efficacia del trattamento STAR. Attraverso la realizzazione di una comune infrastruttura di archivio europea, dal 1 maggio è stato avviato uno studio multicentrico che valuterà la selezione del paziente, il trattamento radioterapico ed i controlli successivi ad esso. Sarà oggetto di studio in particolare la metodica che porta a determinare nel modo più preciso possibile quale sia la zona del cuore da irradiare, e se la dose che viene erogata sia adeguata a raggiungere il risultato senza creare problemi agli organi circostanti.

Il progetto europeo prevede la partecipazione dei maggiori Centri di eccellenza continentali in materia come – per citarne alcuni – le Università di Berlino, Dresda e Lubecca (Germania), l’Università di Zurigo (Svizzera), l’Ospedale Universitario di Aarhus (Danimarca), l’IMIM di Barcellona e il SERMAS di Madrid (Spagna), la Academisch Ziekenhuis (LUMC) di Leiden (Olanda), mentre per l’Italia vi è anche la presenza della AUSL di Reggio Emilia, l’Università degli Studi di Torino e la Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.

 

Enrico Andreoli


Nasce la ROPI, la Rete dei pazienti oncologici italiani

Nasce la Rete Oncologica dei Pazienti Italiani (ROPI), la rete di associazioni che riuniscono i malati di tumore. A presiederla la dottoressa Stefania Gori, direttore del Dipartimento Oncologico dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria.  La dottoressa Gori spiega gli obiettivi e le finalità della ROPI alla trasmissione Rai “Uno Mattina”.


"Fai la scelta giusta", dona al "Sacro Cuore": il nuovo spot per la raccolta "5permille"

“PER UN DOMANI PIU’ VICINO FAI LA SCELTA GIUSTA”.  Guarda il nuovo spot per la donazione del 5permille in favore della Ricerca Sanitaria dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Basta una firma nella dichiarazione dei redditi  e non costa nulla

Se vuoi donare il 5permille alla ricerca sanitaria dell’Ospedale di Negrar guarda il video e clicca il link qui sotto

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L'igiene delle mani: una potente difesa contro virus e batteri

Domani 5 maggio si celebra la Giornata Mondiale dell’Igiene delle mani. Una pratica tanto semplice e banale quanto fondamentale soprattutto in strutture ospedaliere e assistenziali. Si stima che se l’igiene delle mani venisse praticata ogni volta che è necessario e nel modo corretto si arriverebbe alla riduzione del 40% delle infezioni correlate alle pratiche assistenziali.

Quest’anno più che mai la Giornata Mondiale dell’igiene delle mani, che si celebra il 5 maggio, ha un significato profondo: l’igiene delle mani costituisce il primo presidio di difesa dalle infezioni e dalla loro diffusione, come ben sappiamo in quest’epoca di lotta contro la pandemia da SARS-CoV-2.

La campagna globale lanciata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2009 ha lo scopo di promuovere la pratica del corretto lavaggio delle mani nel contesto sanitario e non solo. L’obiettivo più alto è trasformare questa pratica in consuetudine, coinvolgendo insieme ai sanitari anche i cittadini comuni.

Per contribuire alla diffusione di questa “buona pratica” domani gli operatori sanitari dell’IRCCS OspedaleSacro Cuore Don Calabria indosseranno una maglietta con il logo della giornata e la scritta: “I secondi salvano vite: lavati le mani!”

L’igiene delle mani riduce il tasso di infezioni ospedaliere

Se l’igiene delle mani venisse praticata ogni volta che è necessario e in modo corretto porterebbe alla riduzione del 40% delle infezioni correlate alle pratiche assistenziali ovvero di quelle infezioni che possono essere acquisite per il solo fatto di trovarsi ricoverati in un ospedale.

Ma non è possibile ridurre il rischio a zero

Per quanto le cure ospedaliere siano migliorate nel corso degli anni, non è possibile eliminare del tutto il rischio di acquisizione di una infezione per effetto delle pratiche assistenziali stesse. Ad esempio l’utilizzo di tecnologie sempre più raffinate per sostituire una parte di un organo non ben funzionante, come una valvola cardiaca o un articolazione, oppure l’uso di cateteri che permettono l’infusione di farmaci a livello del circolo sanguigno centrale sono atti medici non privi di rischi perché comportano l’introduzione di un corpo estraneo all’interno dell’organismo. Corpo estraneo che se da un lato offre i recupero della funzione persa, dall’altro è sede di ingresso di germi.

Una buona pratica in ospedale ci protegge anche all’esterno

Il miglioramento dell’igiene della mani può avere un impatto nella diffusione di germi (batteri, virus…) anche al di fuori delle strutture sanitarie. Infatti negli ospedali non sono presenti solo sanitari ma altre figure che accompagnano, visitano, assistono il malato, prestano opera di manutenzione, di pulizia…

Il lavaggio delle mani primo baluardo contro il SARS-CoV-2.

Tornando al momento che stiamo vivendo, si ricorda che tra le dieci azioni suggerite dal Ministero della Salute per contrastare la diffusione del SARS-CoV-2, causa di COVID-19, la prima è il lavaggio delle mani.

Quando i sanitari devono lavarsi le mani

Ma dunque quali sono i momenti nei quali è fondamentale per i sanitari lavarsi le mani?

  • Prima di toccare il paziente
  • Prima di procedure pulite o asettiche sul malato
  • Dopo aver toccato fluidi corporei
  • Dopo aver toccato il paziente
  • Dopo aver toccato ciò che circonda il paziente.
E quando tutti dovrebbero lavarsi le mani…

Sanitari e non, invece, dovrebbero lavarsi o igienizzarsi le mani soprattutto dopo aver tossito o starnutito (e in epoca COVID anche dopo aver toccato la mascherina!); prima e durante la preparazione del cibo; prima di mangiare; dopo essere andati in bagno; dopo aver toccato animali o loro deiezioni; prima e dopo aver frequentato dei luoghi pubblici o aver utilizzato dei mezzi di trasporto specie se pubblici.

Come si lavano le mani

Dove possibile con acqua e sapone strofinandole per almeno un minuto oppure igienizzandole con un gel a base alcoolica per almeno 20 secondi. Si fa notare che laddove le mani siano visibilmente sporche, la tecnica da preferire è quella del lavaggio con acqua e sapone, che rimuove lo sporco più grossolano. L’igienizzazione con gel permette invece un ricorso più frequente alla pulizia delle mani anche in ambienti dove non siano disponibili acqua e sapone.

La dimostrazione in questi video
Lavaggio delle mani con acqua e sapone 
Igiene delle mani con il gel idroalcolico

Per saperne di più

Istituto Superiore di Sanità: https://www.epicentro.iss.it/infezioni-correlate/giornata-mondiale-igiene-delle-mani-2021

Organizzazione Mondiale della Sanità https://www.who.int/campaigns/world-hand-hygiene-day/2021

Campagna Globale per l’Igiene delle mani https://5may.cleanhandssavelives.org/

Locandina dei cinque momenti del lavaggio mani per gli operatori sanitari http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_opuscoliPoster_195_allegato.pdf

 Ha collaborato il dottor Andrea Angheben
responsabile del reparto del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali

 

 


La nostra ricerca in pillole: perché la ricerca in Malattie Tropicali

LA NOSTRA RICERCA IN PILLOLE. Con la dottoressa Dora Buonfrate, ricercatrice infettivologa del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali, scopriamo perché è importante la ricerca nel suo ambito, in un’ottica di salute globale

Il Covid è stato un esempio: un virus nato in Cina che si è diffuso in tutto il mondo. Come non esistono più confini per i viaggiatori e le merci, così accade per i virus e i batteri. Per questo diventa fondamentale la ricerca nelle malattie infettive e anche tropicali: non si parla più di patologie del Sud o del Nord del mondo, ma di salute globale. Lo spiega nel video la dottoressa Dora Buonfrate, ricercatrice del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali, disciplina per cui l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria è stato decretato Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico

Ricerca e cura sono un binomio imprescindibile, per il quale ognuno di noi può contribuire. Come? Devolvendo il 5permille.  Perché? INSIEME NELLA RICERCA PIU’ FORTI NELLA CURA

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Il dottor Renato Avesani e "i miei 40 anni dedicati alla Medicina Riabilitativa"

Ha vissuto la grande trasformazione della Riabilitazione, alla quale il “Sacro Cuore Don Calabria” ha dato un grande contributo a livello nazionale. Il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento  lascia l’Ospedale di Negrar dopo 40 anni. L’incontro con i suoi maestri, l’impegno per una disciplina che veniva considerata la cenerentola della medicina, l’amore per la scrittura per il piacere… di scrivere

Con il dottor Renato Avesani è sempre stato così: si inizia a parlare di riabilitazione e si finisce con i grandi temi della vita: la bellezza dell’esistere, il dolore, la sofferenza, l’accompagnamento alla morte…. Ed è stato così anche per questa lunga chiacchierata in occasione della sua prossima pensione, dopo 40 anni trascorsi all’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di cui 20 da direttore del Servizio di Riabilitazione e Medicina Fisica e 15 da direttore del Dipartimento di Riabilitazione. Anche i consigli per la sua équipe, che lascerà alla guida della dottoressa Elena Rossato (con lui nella foto), sono in linea con il suo essere non solo un fisiatra.

La riabilitazione deve essere attenta all’evolversi dei bisogni della società e deve nutrirsi di cultura, scienze umanistiche, altrimenti resta solo tecnica incapace di prendersi cura del paziente”. Suona un po’ strano per un fisiatra che ha introdotto tra gli strumenti di cura l’esoscheletro e i robot per la riabilitazione degli arti superiori… “La tecnologia è una risorsa fondamentale nel campo riabilitativo. Io credo moltissimo nella tecnologia – sottolinea -. Ma se dovessi aver bisogno di riabilitazione, vorrei essere toccato innanzitutto da mani umane…”. Non a caso In punta di mani (Ed. SMART- Verona) è proprio il titolo del suo ultimo libro, che uscirà il 30 aprile. Il quarto, frutto della seconda passione del dottor Avesani: la scrittura. “Si stratta un bignami autobiografico della storia della riabilitazione. Autobiografico non perché parla della mia vita, ma della riabilitazione che io ho voluto e che vorrei”.

Quando si è detto ‘voglio essere un fisiatra’? “Ho scelto questa specializzazione per affetto verso il dottor Giorgio Salvi, che mi ha preceduto nella direzione del Servizio – risponde -. Prima di conoscerlo volevo fare l’ortopedico. L’ho incontrato grazie a un mio amico sacerdote, che me lo ha presentato una sera in una “casa famiglia”. A quel tempo il dottor Salvi, oltre ad essere responsabile a Negrar di un reparto che accoglieva in lungodegenza i pazienti con patologie neurologiche croniche, era il referente medico di una struttura per adulti con disabilità acquisite. Una realtà dell’Opera Don Calabria, di via Roveggia, ma gestita dall’associazione Centro Promozione Handicappati. Siamo nella metà degli anni Settanta, quando ancora questo termine era tollerato…”.

Il giovane specializzando Avesani mette piede per la prima volta a Negrar nella primavera del 1981, dividendosi per due anni (1981-83) tra il reparto e la casa famiglia dove svolge il Servizio Civile, uno dei primi giovani a farlo in una realtà dell’Opera Don Calabria. L’assunzione come medico strutturato arriva nel 1987. “Ho avuto la fortuna di iniziare questa professione nel periodo di maggior fermento nel campo della riabilitazione e in un ospedale che, grazie a figure lungimiranti quali il dottor Salvi, il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Carbognin, ha contribuito in modo rilevante alla storia della riabilitazione in Italia – sottolinea -. Eravamo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni Novanta quando un incremento di incidenti stradali, quindi di traumi cranici e di lesionati midollari, ha dato un forte input alla trasformazione della riabilitazione che da cenerentola della medicina dedicata prevalentemente a persone anziane, lungodegenti, è diventata disciplina con obiettivi ben precisi di recupero delle abilità del paziente”.

L’ospedale di Negrar in questo straordinario sviluppo è stato una forza trainate. “Siamo stati tra i primi a introdurre nell’ambito medico-scientifico il concetto che la riabilitazione è tanto più efficace quanto prima viene iniziata. Abbiamo difeso l’importanza che la riabilitazione continui anche fuori dall’ospedale con la ‘riqualificazione professionale’ del paziente prima nel centro di via Roveggia e poi di via San Marco. Infine credo di non sbagliare dicendo che siamo stati i primi ad affiancare alla riabilitazione fisica, la riabilitazione cognitiva introducendo nel nostro Servizio il logopedista, lo psicologo, la terapia occupazionale e l’arteterapia”.

Nel 2003 nasce il Dipartimento di Riabilitazione che passa sotto la direzione del dottor Avesani dal 2006. Lo scopo è quello di realizzare una forte integrazione tra tutti i reparti riabilitativi: il Servizio di Riabilitazione e Medicina Fisica, la Riabilitazione intensiva Unità gravi cerebrolesioni-Unità Spinale (diretta oggi dal dottor Giuseppe Armani) e la Medicina Fisica Riabilitativa e Lungodegenza (dottor Zeno Cordioli). Una realtà che attualmente comprende 17 medici e 42 tra terapisti e logopediste e che nel 2020 ha contato circa 800 ricoveri.

Il Dipartimento comprende anche la Speciale Unità di Accoglienza Permanente (SUAP) dedicata ai cosiddetti stati vegetativi e di minima coscienza. “Nel 2001 la SUAP è stata la risposta della nostra riabilitazione a una domanda specifica della società: quella di creare strutture specializzate per questa tipologia di pazienti. Oggi – sottolinea il dottor Avesani –  la riabilitazione è sollecitata a rispondere ai bisogni di nuove disabilità continuando a seguire quelle storiche. Lo abbiamo visto anche con il Covid, una malattia infettiva che tuttavia ha richiesto l’intervento del fisiatra e del fisioterapista all’interno delle terapie intensive. Un grande ospedale deve trarre vantaggio dalla riabilitazione fin dalla fase acuta della malattia e questo non vale solo per il Covid, ma anche per la Cardiologia, per la Chirurgia…”.

Riflessioni che il dottor Avesani ha messo nero su bianco nei suoi quattro libri, il primo dei quali uscito nel 1994 con il titolo La metà destra del dottor Scandola, scritto a quattro mani con un collega colpito da ictus. Seguirono Ho preso una botta nella memoria (2003), Martedì 15.30, colloqui (2015) e quindi In punta di mani . Libri di medicina narrativa nati dall’esperienza sul campo.

“Scrivo perché… mi piace scrivere – dice -. Perfino vedere il tratto scritto su una pagina di quaderno per me è un piacere estetico. Infatti scrivo rigorosamente a mano, in qualsiasi posto. Quando mi viene un’idea la devo “fermare” sulla carta e poi con calma la rielaboro. Non sono tra coloro per i quali scrivere è una sofferenza, piuttosto il mio intento è quello di tradurre in parole ‘la fatica’ della relazione di cura. Non c’è una ricetta migliore di altre per creare un rapporto con un paziente e soprattutto non si finisce mai di imparare e di sbagliare…”. Quali sono stati i suoi errori? “Tanti. Infatti nel capitolo di chiusura del mio ultimo libro chiedo scusa ai familiari dei miei pazienti di non essere stato sempre all’altezza nel comunicare la gravità della situazione del loro congiunto o di accompagnarli nell’accettazione della cronicità. I due momenti più difficili”.

Ora il dottor Avesani si prepara a girare pagina e ad intraprendere da pensionato una nuova vita. “Sinceramente non ho nulla in programma – prosegue -. Farò più cose con mia moglie, insegnante di scuola materna già in pensione, e ho un mezza idea di andare ad insegnare la lingua italiana ai migranti, un settore in cui lavora una delle mie figlie. L’altra mia figlia invece è medico cardiologo a Bordeaux. Sicuramente se la salute me lo permette continuerò a fare escursioni sulle mia amate montagne e a frequentare il mio gruppo di amici storici che hanno contribuito a formare la mia mente”.

Le mancherà questo ospedale? “Avrò certamente nostalgia per questo Ospedale, che mi ha dato l’opportunità di fare quello che volevo e, perché no, di smussare certi lati del mio carattere – conclude -.   Se pensavo di realizzare di più? Sì. Ma io sono un idealista. Un idealista fortunato perché ho realizzato molto”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Il nucleare in medicina: clinica e ricerca al Sacro Cuore

Entriamo con “Sapiens-Un solo pianeta”, il programma di scienza e ambiente di Rai3 condotto da Mario Tozzi, nella Medicina Nucleare e nella Radiofarmacia con Ciclotrone del “Sacro Cuore Don Calabria” per scoprire come viene utilizzato il nucleare a scopo diagnostico

Il servizio di Sapiens vede protagonista l’attività della Medicina Nucleare, diretta dal dottor Matteo Salgarello, e della Radiofarmacia con Ciclotrone, diretta dal dottor Giancarlo Gorgoni.  Il giornalista Davide Rinaldi, che ha realizzato integralmente il servizio, si è avvalso della consulenza della dottoressa Fabrizia Severi, fisico medico del dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria.


La nostra ricerca in pillole: entriamo in Radioterapia Oncologica

LA NOSTRA RICERCA IN PILLOLE. Con il prof. Filippo Alongi inauguriamo una serie di video in cui alcuni dei nostri medici entrano, ciascuno per le loro competenze, nel cuore della ricerca che viene effettuata all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria

Con il professor Filippo Alongi, direttore della Radioterapia Oncologica Avanzata dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, parliamo dell’importanza della ricerca sanitaria in Radioterapia affiché il paziente oncologico abbia cure sempre più efficaci con effetti collaterali minimi 

Ricerca e cura sono un binomio imprescindibile, per il quale ognuno di noi può contribuire. Come? Devolvendo il 5permille.  Perché? INSIEME NELLA RICERCA PIU’ FORTI NELLA CURA

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Cosa c'è da sapere sul tumore ovarico... e sono buone notizie

In occasione della Giornata nazionale sulla salute delle donne, che si celebra il 22 aprile, parliamo con la dottoressa Stefania Gori, direttore del Dipartimento di Oncologia, sull’importanza di conoscere il tumore ovarico e sulle novità terapeutiche che oggi disponiamo grazie alla ricerca

Da sei anni l’Italia dedica la Giornata del 22 aprile alla salute delle donne, istituita l’11 giugno del 2015 da una Direttiva del Consiglio dei Ministri e promossa dal ministero della Salute e dalla Fondazione Atena Onlus. Giornata che negli ultimi due anni ha assunto un ulteriore significato in un contesto in cui a causa dell’epidemia da Covid 19 molte donne, solitamente più attente alla prevenzione degli uomini, hanno trascurato di sottoporsi agli screening femminili (contro il tumore al seno e alla cervice uterina) e ai controlli periodici per neoplasie che coinvolgono entrambi i sessi, come il cancro al colon.

Se per questi tumori la mammografia, il pap test e la ricerca del sangue occulto nelle feci possono salvare la vita perché permettono la diagnosi delle neoplasie in fase precoce, per il tumore ovarico, uno dei più aggressivi nell’ambito femminile, non è possibile fare prevenzione. In Italia ogni anno oltre 5mila donne ricevono una diagnosi di tumore ovarico; nell’80% dei casi avviene quando la malattia è in uno stadio avanzato, in quanto nella fase di esordio questo tumore non si manifesta con sintomi specifici.

“Ma la bella notizia è che oggi il tumorStefania Gori, direttore Oncologia Madica Irccs Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrare ovarico, grazie alla ricerca, fa meno paura”, afferma la dottoressa Stefania Gori, direttore del Dipartimento di  Oncologia. Sotto la sua presidenza la Fondazione AIOM ha lanciato la campagna “Tumore ovarico: teniamoci informate”: un programma di attività di informazione online e di eventi sul territorio, con l’attrice Claudia Gerini come testimonial, per sottolineare quanto sia importante per le donne essere informate relativamente al tumore ovarico. (https://www.manteniamociinformate.it)

“Informate sui sintomi, ma anche sulle nuove opportunità terapeutiche di mantenimento, a cui possono accedere tutte le pazienti con tumore ovarico, con e senza mutazione BRCA”, sottolinea la dottoressa Gori.

Quali sono i sintomi del tumore ovarico?

Purtroppo il nodo è proprio questo: nelle fasi iniziali il tumore ovarico può essere silente o manifestarsi con sintomi comuni ad altre patologie meno gravi. Tuttavia la frequenza e la combinazione di alcuni segnali, specie se si manifestano per periodi prolungati, possono rappresentare un campanello d’allarme che dovrebbe suggerire di rivolgersi al medico. I sintomi più comuni sono il gonfiore addominale persistente, la necessità di urinare spesso, fitte addominali. A questi, più raramente, possono subentrare inappetenza, senso di immediata sazietà̀, perdite ematiche vaginali in menopausa e variazioni delle abitudini intestinali.

A quale età viene diagnosticato?

Nella maggioranza delle donne dopo la menopausa, tra i 50 e i 69 anni. Ma nelle forme associate a una predisposizione genetica (mutazione dei geni BRCA1 e BRCA2) o familiare hanno un’insorgenza più precoce e possono colpire le donne già a 40 anni o anche prima.

Quali sono le novità più importanti in campo terapeutico?

Finalmente, in questi ultimi anni la ricerca ha prodotto risultati importanti nel carcinoma ovarico. Oggi sappiamo che un quarto delle pazienti sono portatrici di mutazioni BRCA1 e/o BRCA2, con implicazioni terapeutiche e familiari importantissime. E sappiamo che una terapia di mantenimento con farmaci orali, gli inibitori di PARP, determina lunghe sopravvivenze nelle pazienti mutate e anche nelle pazienti non mutate, le quali rappresentano la maggior parte delle donne affette da carcinoma ovarico (75%).

Come si può conoscere se una donna è portatrice di mutazioni genetiche che aumentano il rischio di contrarre il carcinoma ovarico?

E’ la storia familiare a dare delle indicazioni. Se in famiglia esistono più casi di tumore al seno o all’ovaio in età molto giovane, la donna può essere portatrice di mutazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 o di altre mutazioni genetiche che favoriscono l’insorgenza di queste neoplasie. Naturalmente è un test genetico a stabilirlo. E mi preme sottolineare che la presenza di una mutazione non significa automaticamente ereditare o avere un tumore, ma avere un più alto rischio di contrarre la malattia. Tuttavia è fondamentale sapere la presenza o meno di queste mutazioni al fine di agire in fase di prevenzione con controlli ravvicinati e in caso di diagnosi di scegliere fin da subito le terapie più efficaci,