Giornata mondiale contro le epatiti virali. I microbiologi clinici: "Non abbassiamo la guardia"
Il 28 luglio è la Giornata mondiale contro le epatiti virali, patologie che si stima colpiscano nel mondo 325 milioni di persone, molte delle quali inconsapevoli di aver contratto i virus. L’Associazione Microbiologi Clinici Italiani in un comunicato accende l’attenzione su questo tipo di infezioni, che se non curate possono comportare conseguenze importanti per la salute
Il 28 luglio si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale contro le epatiti virali, un gruppo di infezioni che si stima colpiscano nel mondo 325 milioni di persone, molte delle quali inconsapevoli di aver contratto i virus. In occasione di questa data l’AMCLI ETS – Associazione Microbiologi Clinici Italiani ha diffuso un comunicato che ha lo scopo di tenere alta l’attenzione su patologie che possono comportare rischi seri per la salute dei malati e per la comunità a cui appartengono.
Nel mondo, ancora alle prese per il controllo della circolazione delle varianti di SARS-CoV-2, permangono gravi minacce alla salute di milioni di persone, imputabili alle infezioni provocate dai 5 virus responsabili di epatiti primarie. Occorre pertanto mantenere alta l’attenzione, soprattutto su quei pazienti che contraggono e sviluppano l’infezione in modo del tutto inconsapevole, ponendo così a rischio la propria e altrui salute.
Oggi vi sono cinque virus ben conosciuti (virus dell’epatite A-B-C-D-E) che associandosi ad infezioni del fegato causano considerevole morbidità e mortalità.
I virus dell’epatite A ed E causano infezioni acute che in genere guariscono; in rari casi può verificarsi una forma di epatite fulminante, che può richiedere il trapianto e, in alcuni casi, risultare letale. Il virus A è trasmesso prevalentemente attraverso cibi contaminati, ed è prevenibile con un vaccino (efficacia al 100%) che non rientra nel gruppo dell’obbligo, ma è fortemente consigliato. Il virus dell’epatite E causa estese epidemie veicolate principalmente dal consumo di acqua non pulita nei Paesi in via di sviluppo. Nei paesi occidentali invece, inclusa l’Italia, provoca piccole epidemielegate al consumo di carni suine poco o affatto cotte. Si possono verificare complicanze gravi in organi diversi dal fegato, e cronicizzazione nei soggetti immunodepressi (es. trapiantanti). Occorre sensibilizzare i nostri medici nei riguardi di questa infezione, che è ancora poco considerata.
I virus dell’epatite B e C negli ultimi anni hanno visto un enorme progresso nella capacità di prevenzione (vaccino per il virus B) e cura (antivirali per virus B e C, in quest’ultimo caso la terapia è eradicante). Entrambi possono determinare infezioni croniche. (vedi campagna di screening della Regione Veneto)
Il virus D causa infezioni solo in presenza del virus B, del quale complica considerevolmente il quadro clinico.
Per tutti questi virus, l’infezione nella forma cronica tende nel corso deglianni a causare malattia ingravescente e irreversibile del fegato, talvolta associata a carcinoma.
“L’impegno di AMCLI – sottolinea Pierangelo Clerici, Presidente AMCLI ETS e Direttore U.O. Microbiologia A.S.S.T Ovest Milanese – va nella direzione di incentivare la lotta alle epatiti virali promuovendo e sostenendo con le attività di laboratorio di Microbiologia Clinica il programma di screening per l’epatite C per identificare e curare i malati con epatite cronica e lo studio genetico dei virus per individuare precocemente l’insorgenza di farmaco-resistenze. Non ultimo facilitando il confronto e l’integrazione con i clinici allo scopo di favorire l’ampliamento della
prevenzione nei confronti dell’Epatite B mediante vaccinazione e l’approvazione della nuova terapia per l’Epatite Delta”.
“Per il pesante carico sanitario e sociale per queste malattie epatiche – evidenzia Carlo Federico Perno, Direttore U.O. Microbiologia, IRCCS Ospe dale Pediatrico IRCCS Ospedale PediatricoBambino Gesù in Roma e componente Gruppo di Lavoro AMCLI– è necessario mantenere un impegno costante di informazione aggiornata e sensibilizzazione sia nella popolazione generale sia negli operatori sanitari, affinché siano identificate e curate precocemente le forme croniche prima che si avvii il processo irreversibile di danneggiamento epatico con esiti anche fatali come la cirrosi e l’epatocarcinoma. Inoltre non va abbassata la guardia nei confronti delle cosiddette infezioni pregresse da HBV, ricordando che il virus rimane stabilmente nel nostro organismo, pronto a riattivarsi e a causare danni epatici, a volte irreversibili, alle persone con immunocompromissione. Anche su questo pericolo è necessaria una corretta informazione insieme ad un’adeguata campagna di screening e follow up”.
“Negli ultimi mesi l’attenzione sulle epatiti è stata richiamata anche da forme molto gravi che si sono verificate nei bambini in diverse parti del mondo, compreso anche il nostro paese. La causa di questa forma pediatrica di epatite si ritiene possa essere virale, non di tipo primario, probabilmente associata all’infezione da parte di un altro virus, denominato Adenovirus. Dobbiamo però essere ancora cauti nella valutazione di queste epatiti pediatriche perché al momento non vi sono prove certe e definitive sulla loro causa eziologica” ha ricordato Maria Rosaria Capobianchi, consulente per la ricerca, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria IRCCS, Negrar di Valpolicella (Verona) e componente Gruppo di Lavoro AMCLI. “Nel complesso, è necessario tenere alta l’attenzione verso le epatiti virali, perché per la maggior parte di queste infezioni sono disponibili mezzi diagnostici, terapeutici e di prevenzione estremamente efficaci, in grado di cambiarne la storia naturale, e pertanto è un dovere civico oltre che deontologico e morale, mettere in campo tutte le risorse disponibili per prevenire e/o controllare la circolazione di questi virus” conclude la dottoressa Capobianchi.
L'IRCCS di Negrar è Centro Qualificato ERAS Society per la chirurgia bariatrica e del colon-retto
Primo in Italia per la chirurgia bariatrica, terzo per la chirurgia colon-rettale, anche oncologica, è tra i primi centri qualificati (66) ERAS Society al mondo per l’applicazione dell’innovativo protocollo che mette al centro il paziente anche nella fase pre e post operatoria, con una riduzione dei giorni di ricovero da 6 a 4 per gli interventi al colon-retto e dimissioni entro 48 ore per la chirurgia bariatrica.
L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria è Centro Qualificato per l’applicazione di ERAS, il protocollo chirurgico che ha come obiettivo – come recita l’acronimo Enhanced Recovery After Surgery – il miglior recupero dopo un intervento chirurgico. A certificarlo, ERAS Society, la società scientifica mondiale che si occupa della diffusione di questa “buona pratica clinica” tesa a una ripresa rapida del paziente, grazie al controllo ottimale del dolore e della nausea post-operatoria, alla drastica riduzione delle infezioni post chirurgiche e alla diminuzione dei giorni di degenza che per la chirurgia colon-rettale passano da 6 a 4, mentre per quella bariatrica le dimissioni sono entro le 48 ore.
DOPPIA CERTIFICAZIONE: PER LA CHIRURGIA BARIATRICA E QUELLA COLON-RETTALE
Per il “Sacro Cuore Don Calabria” si tratta di una doppia certificazione: infatti è il primo Centro Qualificato ERAS in Italia per la chirurgia bariatrica nel trattamento dell’obesità grave e il terzo (dopo l’Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo e l’ospedale Infermi Rimini) per la chirurgia colon-rettale, anche oncologica. Nel mondo ci sono solo altri 66 Centri Qualificati e quello di Negrar è risultato uno degli ospedali con un livello di aderenza più alto a tutto il percorso del paziente (dalla fase pre-operatoria a quella post-operatoria) avendo superato la soglia del 94% su entrambe le specialità chirurgiche.
PROSSIMI OBIETTIVI: CENTRO TRAINER E CENTRO DI ECCELLENZA
La certificazione di Centro Qualificato è il primo step di un iter triennale intrapreso dall’Ospedale di Negrar che si conclude con il riconoscimento di Centro di Eccellenza passando per quello di Centro Trainer, grazie al quale il team ERAS del “Sacro Cuore Don Calabria” potrà formare altre strutture.
IL PROTOCOLLO CHIRURGICO PER IL MIGLIOR RECUPERO DOPO L’INTERVENTO
“Se l’obiettivo di ERAS è quello di far tornare il paziente chirurgico il prima possibile alle sue occupazioni quotidiane, la condizione perché ciò avvenga è un percorso che inizia prima della chirurgia, con il raggiungimento da parte del paziente di una forma fisica ottimale” spiega il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale del “Sacro Cuore Don Calabria”. “Questa condizione si unisce poi a una chirurgia mini-invasiva (laparoscopica o robotica), a uno specifico trattamento anestesiologico che prosegue dopo la sala operatoria con un ottimale controllo del dolore e della nausea, e a una mobilizzazione precoce. L’applicazione di ERAS, possibile per ogni tipo di chirurgia, è un vantaggio per tutti i pazienti, ma in particolare per gli anziani e per coloro che subiscono interventi ad alta complessità”.
“Il percorso di certificazione ha avuto la durata di un anno, nel corso del quale abbiamo seguito diversi momenti di formazione con il Centro Trainer (Centre Hospitalier de Valenciennes-Francia), implementato ulteriormente il protocollo ERAS e inserito i dati relativi ai nostri pazienti (221 per la chirurgia colon-rettale e 95 per quella bariatrica) sulla piattaforma internazionale EIAS che ci ha permesso di misurare e analizzare l’aderenza al protocollo e i risultati post operatori”, spiega la dottoressa Elisa Bertocchi, chirurgo colon-rettale. “Ora parte la seconda fase per diventare Centro Trainer e che consiste nel mantenimento nel tempo degli ottimi risultati ottenuti”.
IL PAZIENTE PROTEGONISTA NEL PRE E NEL POST INTERVENTO, SUPPORTATO DA UN GRUPPO MULTIDISCIPLINARE
Sono due i fulcri principali del protocollo ERAS: la presa in carico del paziente da parte di un team multidisciplinare, attivo a Negrar già nel 2018 per la chirurgia colon-rettale, e il ruolo attivo e consapevole del paziente nella preparazione all’intervento e nella gestione del recupero post-operatorio. Del team fanno parte oltre ai chirurghi e agli anestesisti, anche i nutrizionisti, i farmacisti ospedalieri, i fisiatri, i fisioterapisti e il personale infermieristico dedicato. A questi specialisti per i pazienti bariatrici si aggiungono lo psicologo e il gastroenterologo che assieme al nutrizionista seguono il candidato alla chirurgia almeno da due mesi prima dell’intervento.
L’APP iCOLON: IL DIARIO DIGITALE CHE GUIDA IL PAZIENTE
Per agevolare invece l’aderenza attiva del paziente alle indicazioni che riguardano la corretta alimentazione, l’adeguata attività fisica e il monitoraggio dei parametri fisiologici nel post operatorio, dal 2019 viene proposta a tutti i pazienti l’APP iColon (vedi video), ideata dalla Chirurgia Generale di Negrar e unico esempio in Italia di applicazione digitale per la chirurgia colon-rettale. Si tratta una sorta di diario digitale in cui il paziente, a partire da sette giorni prima dell’intervento e fino a 5 giorni dopo la dimissione, registra il suo contributo per il raggiungimento un’ottimale forma fisica e nutrizionale in preparazione alla chirurgia e quindi l’aderenza al recupero una volta tornato a casa,
“Il coinvolgimento attivo è ancora più importante per il paziente affetto da obesità grave – sottolinea la dottoressa Irene Gentile, chirurgo bariatrico -. In particolare sotto l’aspetto dell’alimentazione e dell’attività fisica: il calo ponderale è fondamentale sia per la candidabilità all’intervento sia per la buona riuscita dello stesso”.
DRASTICA RIDUZIONE DELLE COMPLICANZE MEDICHE POST CHIRURGICHE
“Le tecniche di controllo del dolore permettono la mobilizzazione precoce del paziente che deambula già il giorno stesso dell’intervento diminuendo così drasticamente le polmoniti dovute all’allettamento; il mantenimento del catetere vescicale spesso solo in sala operatoria, e comunque non oltre le 12 ore, ha quasi cancellato le infezioni urinarie così come nettamente ridotte quelle del sito chirurgico, per l’uso sempre minore di drenaggi addominali. Restano le complicanze chirurgiche che, tuttavia, in un paziente in buona forma hanno un esito più favorevole”, conclude la dottoressa Bertocchi
Nella foto il team multidisciplinare ERAS. Da sinistra:
Silvia Bonadiman (fisiatra), Elisa Bertocchi (chirurgo colon-rettale), Gaia Masini (chirurgo generale), Irene Gentile (chirurgo bariatrico), Alessandro Tubaro (anestesista), Roberta Freoni (coordinatrice infermieristica della Chirurgia Generale), Roberto Rossini (chirurgo bariatrico), Nicola Menestrina (anestesista), Giovanni Lodi (anestesista), Giuliano Barugola (chirurgo proctologo), Alessandra Misso (dietista), Giacomo Ruffo (direttore della Chirurgia Generale), Teresa Zuppini (direttore della Farmacia Ospedaliera), Enrico Facci (chirurgo generale)
West Nile: il virus dal nome esotico, ma "italiano" dal 2008
La fotografia del West Nile Virus responsabile della febbre del Nilo Occidentale, che solo in meno dell’1% dei casi si manifesta nella forma neuroinvasiva. E’un virus trasmesso dalle zanzare più comuni e per ora, non essendo disponibile un vaccino, la prevenzione è affidata alla lotta contro la prolifirazione di questi insetti
La cronaca registra casi di febbre West Nile, tra cui anche alcuni decessi. Ecco la fotografia di un virus trasmesso dalle zanzare e – nonostante in nome esotico – endemico nel nostro Paese, per il quale non esiste una cura specifica e un vaccino. Attenzione nella prevenzione delle punture di zanzare, ma nessun allarme: meno dell’1% sviluppa la forma più grave, ai danni del sistema nervoso centrale. L’IRCCS di Negrar è referente scientifico del sistema di sorveglianza della Regione Veneto per le “febbri estive” (West Nile, Zika, Dengue e Chikungunya).
West Nile Disease (WND) o malattia del Nilo Occidentale è causata da un virus a RNA appartenente al genere Flavivirus. Il West Nile Virus (WNV) prende il nome dal distretto dell’Uganda (West Nile) dove nel 1958 è stato isolato per la prima volta il patogeno dal sangue di una donna colpita da febbre. Si è poi diffuso in Africa, Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è stato segnalato a partire dal 1958. In Italia è endemico. I primi casi si sono registrati nel 2008 sul territorio della Pianura Padana. L’ultima epidemia di West Nile Disease nel nostro Paese risale al 2018, quando il virus provocò 19 decessi tra i pazienti colpiti dalla forma più grave (neuro-invasiva).
Trasmissione
Il WNV non si trasmette da uomo a uomo, né per via aerea né per contatto. Il virus sopravvive in natura grazie a un ciclo primario di trasmissione: zanzara-uccello-zanzara. Le zanzare Culex di specie modestus e pipiens si infettano pungendo uccelli migratori (serbatoio del virus), trasmettendo a loro volta il virus ad altri uccelli. Tuttavia le stesse zanzare sono in grado di infettare ospiti accidentali come il cavallo e l’uomo, ma né negli equini né negli esseri umani il WNV raggiunge nel sangue una concentrazione sufficientemente elevata da infettare altre le zanzare.
La ragione per cui il WNV è diventato endemico in Italia è dovuta alla presenza sul territorio della Culex pipiens, la zanzara che punge dal tramonto fino alle prime luci dell’alba, e al passaggio di uccelli migratori.
L’infezione
La West Nile Disease è caratterizzata da 2-14 giorni di incubazione. Nella grande maggioranza dei soggetti colpiti è asintomatica; nel 20%-30% si manifesta come una sindrome simil-influenzale: febbre, mal di testa, ma di gola, dolori muscolari e alle articolazioni, congiuntivite, rash cutanei (tronco, estremità e testa), ingrossamento dei linfonodi, nausea, dolori addominali… Meno dell’1% dei casi sviluppa la forma neuro-invasiva: meningite, encefalite e paralisi flaccida acuta. I soggetti più a rischio per la forma più grave sono gli anziani, gli immunodepressi, i pazienti cronici o pluripatologici.
La diagnosi
Una febbre simile all’influenza deve sempre destare sospetti in piena estate. Nel caso in cui insorga torpore o uno stato confusionale è bene recarsi presso un ospedale con un reparto di Malattia Infettive. La diagnosi viene effettuata tramite specifici test di laboratorio
Terapia
Per la WND non esiste una terapia specifica, ma solo farmaci per alleviare i sintomi (antipiretici e antinfiammatori). Nei casi più gravi è necessario il ricovero in ospedale, dove si procede alla somministrazione di fluidi intravenosi e a respirazione assistita.
Prevenzione
Non esiste un vaccino contro il West Nile Virus. Il metodo più efficace di prevenzione è la protezione dalle punture di zanzare usando, in particolare dopo il tramonto, repellenti cutanei, zanzariere alle finestre e diffusori di insetticidi ad uso domestico. E’ fondamentale, inoltre, la collaborazione di tutti affinché non vengano a crearsi ambienti favorevoli al deposito delle uova e allo sviluppo delle larve di zanzare come i sebatoi i di acqua stagnante (anche un semplice sottovaso) che devono essere eliminati o trattati con larvicidi
Nel 2010 la Regione Veneto ha istituito un progetto pilota per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie trasmesse dalle zanzare) il cui responsabile scientifico è l’IRCSS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e a cui collaborano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e l’Istituto di Microbiologia e Virologia di Padova. Per le patologie di importazione (Zika, Dengue e Chikungunya) al fine di evitare che diventino endemiche, esso prevede la segnalazione del caso di infezione entro le 12 ore dal sospetto diagnostico al Servizio Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Ulss competente per il territorio che può attivarsi, attraverso i Comuni, per la disinfezione della zona limitrofa all’abitazione del paziente o nel luogo dove si è probabilmente infettato.
Per il West Nile Virus la disinfezione deve avvenire periodicamente soprattutto nelle aree in cui le trappole dell’Istituto Zooprofilattico hanno raccolto zanzare infette o dove il virus è stato isolato nei cavalli.
Le segnalazione dei casi di infezione assume notevole importanza per il controllo sulle donazioni di sangue e organi. Il Centro Nazionale del Sangue prevede la sospensione dalle donazioni di sangue di almeno 28 giorni per tutti coloro che hanno soggiornato anche per una sola notte nella provincia dove sono presenti zanzare infette o in alternativa l’utilizzo del test NAT sulle sacche di sangue, che viene eseguito di routine dai Centri trasfusionali. Anche i donatori di organi vengono sottoposti allo screening. Sangue e organi infetti sono una via di trasmissione del West Nile molto pericolosa perché l’infezione andrebbe a colpire pazienti con un sistema immunitario depresso a causa della malattia o degli immunosoppressori per impedire il rigetto dell’organo.
New England Journal of Medicine: nuova "Lettera" pubblicata dalla Cardiologia
A distanza di poco più di un anno il New England Journal of Medicine, una delle riviste mediche più attendibili e prestigiose del mondo, pubblica una nuova Letter to the editor dopo quella del maggio del 2021, firmata dal dottor Stefano Bonapace e dal dottor Giulio Molon, rispettivamente cardiologo e direttore della Cardiologia dell’IRCCS di Negrar. Oggetto per entrambe la Troponina I, l’enzima che rilascia il muscolo cardiaco in condizioni di sofferenza
Avere l’onore di vedere pubblicato un proprio intervento sul New England Journal of Medicine – una delle riviste mediche più attendibili e prestigiose del mondo – non è un evento che capita spesso. Se poi la cosa accade due volte in poco più di un anno siamo nel perimetro di una notizia. E poco importa se la prima firma di entrambe le pubblicazioni, il dottor Stefano Bonapace, cardiologo emodinamista della Cardiologia di Negrar, si schernisce sottolineando “sono entrambe una Letter to the editor e non uno studio clinico…”. La precisazione è sacrosanta ma si tratta pur sempre di due lettere accettate dall’editore di una rivista che vanta un Impact Factor di 176,079, un indice che per i ricercatori fa curriculum e misura il numero medio di citazioni ricevute in un anno da articoli pubblicati nei due anni precedenti dalla rivista.
“Inutile dire che doppia pubblicazione in poco più di 12 mesi ci rende particolarmente orgogliosi. Si tratta di un’attestazione prestigiosa della nostra attività di assistenza e di ricerca”, sottolinea il dottor Giulio Molon, direttore della Cardiologia e uno degli autori delle due pubblicazioni. “Letter to editor è una formula d’intervento attraverso la quale si alimenta il dibattito scientifico. Nel nostro caso entrambe le lettere sollevavano domande sul comportamento della Troponina I, un marcatore di danno cardiaco, in due studi clinici: la prima relativa ad un farmaco innovativo Omecamtiv Mecarbil per il trattamento dello scompenso cardiaco utilizzato nello studio internazionale, prospettico e randomizzato GALACTIC-HF; la seconda sul significato clinico e prognostico dei livelli di questo enzima che si può ritrovare nel sangue dei pazienti dopo un intervento di cardiochirurgia e analizzati nello studio internazionale e prospettico VISION. La rilevanza delle “obiezioni” è sicuramente un criterio di selezione delle Letters che arrivano a migliaia all’editore, ma poche trovano spazio e dignità di pubblicazione”.
La Troponina
“La Troponina I è un enzima che viene rilasciato nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco quando il cuore è in condizioni di sofferenza” spiega il dottor Bonapace. “Il dosaggio della Troponina I ad alta sensibilità infatti rientra tra gli accertamenti effettuati (insieme all’elettrocardiogramma e all’ecocardiogramma) in Pronto Soccorso su un paziente che arriva con dolore toracico. Il rilascio dell’enzima da parte del muscolo cardiaco avviene non solo in situazioni di urgenza, ma anche a seguito di procedure cardiologiche interventistiche, come l’angioplastica, o cardiochirurgiche (by-pass, sostituzione di valvole cardiache…). Il rilascio può essere più o meno ampio a seconda della sofferenza che ha subito il cuore durante la procedura”.
Le linee guida
Il danno miocardico dovuto a procedure di rivascolarizzazione coronarica – sia che si tratti di intervento coronarico percutaneo (angioplastica) o di bypass aorto-coronarico – può essere temporalmente correlato alla procedura stessa e dipende da molteplici fattori legati al tipo di intervento e alla sua complessità e non necessariamente riflette problemi come trombosi precoce dello stent o occlusione acuta/subacuta del bypass. Le linee guida internazionali, sulle quali poi si basa l’attività clinica dei cardiologi e dei cardiochirurghi, indicano dei valori di cut-off (valore limite) oltre il quale il livello di Troponina I potrebbe essere legato ad un danno infartuale che potrebbe richiedere la necessità di reintervenire. Per la cardiologia interventistica si considerano valori di troponina I non superiori a 5 volte il limite massimo basale di 26 ng/L mentre per la cardiochirurgia valori non superiori a 10 volte tale limite basale.
Lo studio
Negli ultimi anni alcuni autori avevano evidenziato che i valori di Troponina da considerarsi patologici post cardiochirugia erano probabilmente più elevati suggerendo cut-off fino a 70 volte il limite basale. Philip J. Devereaux e i colleghi della divisione di cardiologia della McMaster University di Hamilton in Canada hanno pertanto condotto e pubblicato nel numero del 3 marzo del 2022 del New England Journal of Medicine uno studio prospettico (VISION) su 13.860 pazienti che andavano incontro ad interventi di cardiochirurgia tra cui il bypass cardiaco con l’obiettivo di determinare quale fosse il livello di troponina post-chirurgica correlata a una mortalità a 30 giorni o a un anno dall’intervento. “Gli autori hanno così rilevato che i livelli di Troponina I predittivi di prognosi infausta sono ben oltre i limiti stabiliti dalle Linee Guida, definendo valori da 258 a 499 volte superiori rispetto al valore basale di 26 ng/L a seconda dell’intervento effettuato”, spiega ancora il dottor Bonapace.
La lettera
“Il risulto dello studio ha rilevanti risvolti clinici” prosegue il cardiologo. “L’aver innalzato in modo così importante la soglia dei livelli di Troponina I che sono da considerarsi veramente patologici dopo gli interventi di cardiochirurgia, da una parte consente di considerare anche rialzi più elevati come legati all’intervento in se e quindi non necessariamente secondari ad una problematica ischemica periprocedurale, dall’altra però impone a nostro giudizio un’attenta valutazione di ulteriori parametri clinici e strumentali per inquadrare il più correttamente possibile tale incremento enzimatico e per poter decidere in modo appropriato se è necessario reintervenire.”. Pertanto “forti della nostra esperienza clinica abbiamo inviato una Letter to the editor sollevando l’obiezione che il dosaggio della Troponina I non può essere considerato isolatamente come fattore diagnostico predittivo di mortalità e di nuovo evento ischemico, ma deve essere inserito in un quadro di dati clinici, elettrocardiografici e ecocardiografici che possano giustificare eventualmente un nuovo studio angiografico. L’editore ha accettato la Lettera quindi l’obiezione era di un certo rilievo”.
La risposta
La risposta alla Lettera è arrivata, non tanto dagli autori del lavoro che si sono limitati a ribadire i nuovi cut-off della Troponina I derivati dal loro studio, ma da due importati studi recentemente pubblicati dall’European Heart Journal in cui gli autori Hazem Omran e Leo Pölzl riportano la necessità di altri parametri clinico-strumentali che, associati all’aumento della Troponina I, sono di fondamentale importanza nel predire la prognosi e nel consentire di discriminare tra danno ischemico legato all’intervento o movimento enzimatico compatibile con la complessità della stessa procedura, confermando di fatto quanto avanzato dai dottori Bonapace e Molon.
Malattie Infettive e Tropicali: il prof Bisoffi va in pensione. Il nuovo direttore è il dottor Gobbi
Il dottor Gobbi prende il testimone dal professor Zeno Bisoffi, che lascia la direzione per sopraggiunti limiti di età. Ma la collaborazione del prof. Bisoffi con l’Ospedale di Negrar non termina. Infatti assume l’incarico di direttore scientifico dell’IRCCS per le Malattie Infettive e Tropicali, ruolo finora tenuto dal professor Pier Carlo Muzzio
Il dottor Federico Gobbi è il nuovo direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive e Tropicali, succedendo al professor Zeno Bisoffi, che lascia per sopraggiunti limiti di età. Ma la collaborazione del prof. Bisoffi con l’Ospedale di Negrar non termina. Infatti assume l’incarico di direttore scientifico dell’IRCCS per le Malattie Infettive e Tropicali, ruolo finora tenuto dal professor Pier Carlo Muzzio
Il professo Bisoffi, classe 1955, giunge al “Sacro Cuore Don Calabria” nel 1990, quando il Centro per le Malattie Tropicali era diretto dal dottor Mario Marsiaj. Precedentemente (dal 1986) aveva operato in Burundi come responsabile del programma sanitario Unicef-Oms, dopo tre anni (1982-1985) in Nicaragua con l’Ong Mlal Progetto nel Mondo. Il 1° gennaio del 2000 la nomina di direttore del Centro per le Malattie Tropicali, proseguendo così l’opera di Marsiaj e portando il Centro al riconoscimento ministeriale di Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.
Il suo successore, Federico Gobbi, 49 anni, originario di Rivoli (Torino), si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università del capoluogo piemontese nel 1998 e nello stesso Ateneo si è specializzato nel 2003 in Malattie Infettive. Ha conseguito nel 2012 il Dottorato di Ricerca in “Metodologie e tecniche appropriate nella cooperazione internazionale allo sviluppo” presso l’Università di Brescia. Inizia la sua collaborazione con l’Ospedale di Negrar nel 2010 presso l’Unità Operativa di Malattie Infettive e Tropicali, occupandosi in modo particolare di patologie di importazione, medicina dei viaggi, cooperazione internazionale e ricerca. È referente per la parte clinica del gruppo tecnico per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie virali trasmesse da vettori come zanzare e zecche) della Regione Veneto. Dal 2021 è Consigliere dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Verona
Retina artificiale liquida: efficace anche per la retinite pigmentosa avanzata
Il team tutto made in Italy, di cui fa parte anche la dottoressa Grazia Pertile, ha pubblicato gli ottimi risultati ottenuti sui modelli di laboratorio: un ulteriore passo avanti verso la sperimentazioen sull’uomo anche nel caso di retinite pigmentosa, una malattia genetica che può portare alla cecità.
L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, l’Istituto Italiano di Tecnologia di Milano e l’Ospedale Policlinico San Martino di Genova hanno testato con successo il prototipo di retina liquida negli stadi avanzati di retinite pigmentosa in cui attualmente è consentito l’intervento chirurgico di protesi retinica.
Il buon esito della sperimentazione, pubblicato su Nature Communications, rappresenta un ulteriore avvicinamento alla fattibilità di futuri studi clinici sull’uomo.
Il gruppo formato da ricercatori e ricercatrici del Center for Synaptic Neuroscience and Technology dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova diretto dal prof. Fabio Benfenati presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e del Center for Nano Science and Technology dell’IIT di Milano, diretto dal prof. Guglielmo Lanzani, in collaborazione con la Clinica Oculistica dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dalla dott.ssa Grazia Pertile, ha dimostrato l’efficacia del modello di retina artificiale liquida presentato dallo stesso team nel 2020 (Nature Nanotechnology 2020, https://opentalk.iit.it/sviluppato-il-primo-modello-sperimentale-di-protesi-liquida-di-retina/) anche negli stadi più avanzati e irreversibili della degenerazione retinica dovuta alla retinite pigmentosa, patologia genetica che può portare alla cecità.
Poiché è proprio nella fase avanzata che i pazienti affetti da questa malattia – oltre 5 milioni nel mondo – vengono sottoposti ad interventi di chirurgia protesica, questo risultato getta solide basi per i passaggi successivi mirati a condurre i primi test sugli esseri umani, stimati intorno al 2025-2026.
La retina liquida è un modello di retina artificiale di “seconda generazione”, biocompatibile, ad alta risoluzione ed è costituita da una componente acquosa in cui sono sospese nanoparticelle polimeriche fotoattive realizzate ad hoc nei laboratori IIT, delle dimensioni di circa 1/100 del diametro di un capello, che prendono il posto dei fotorecettori danneggiati. Rispetto ad altri approcci già esistenti, la nuova natura liquida della protesi assicura interventi più brevi e meno traumatici che consistono in microinieizioni delle nanoparticelle direttamente sotto la retina, dove queste restano intrappolate prendendo il posto dei fotorecettori degenerati, oltre a una maggior efficacia.
Lo studio, soprannominato Nanosparks, letteralmente “nanoscintille”, ha potuto contare sul supporto della Fondazione 13 Marzo, Fondazione Cariplo e di finanziamenti europei come Marie Curie Training Network e EuroNanoMed3.
I test di tipo preclinico sono stati condotti su modelli sperimentali riportanti pari condizioni dell’essere umano nelle fasi più avanzate della retinite pigmentosa, condizioni più critiche rispetto agli stadi in cui erano stati effettuati dallo stesso team gli studi negli anni passati. In questi casi, la retina oltre ad essere completamente priva di fotorecettori presenta anche significative alterazioni dei neuroni che convogliano il segnale al nervo ottico.
Nei modelli preclinici sperimentali la parte del cervello addetta alla visione (corteccia visiva) è completamente silente, mentre in seguito all’iniezione delle nanoparticelle polimeriche fotoattive “made in Italy” si registrano nuovi segnali fisiologici, la corteccia visiva si riattiva, riacquisisce acuità e tornano a formarsi memorie visive. Questi risultati dimostrano che l’approccio basato sulla retina artificiale di “seconda generazione”, biocompatibile e ad alta risoluzione, è vincente.
Lo sviluppo del concetto di retina artificiale liquida è affidato a Novavido s.r.l. la startup nata nel 2021, che si occupa di implementare e standardizzare la produzione delle nanoparticelle per avvicinarsi ai primi test su pazienti di retinite pigmentosa.
“Avere dimostrato – afferma la dott.ssa Pertile – che le nanoparticelle fotovoltaiche rimangono efficaci in stadi di avanzata degenerazione della retina non solo completamente priva di fotorecettori, ma anche “destrutturata” a causa delle profonde modificazioni dei circuiti retinici residui, uno scenario che mima fedelmente la situazione dei pazienti candidati a un intervento di protesi retinica, apre la porta all’applicazione di questa strategia alle patologie umane”.
“Il nostro recente studio – afferma Simona Francia, ricercatrice IIT nel gruppo del prof. Benfenati e prima autrice del lavoro – è un’ulteriore importante tappa verso la terapia di patologie come la Retinite pigmentosa e la degenerazione maculare legata all’età. Non solo queste nanoparticelle si distribuiscono ad ampie aree retiniche permettendo di guadagnare un ampio campo visivo, ma in virtù delle loro piccole dimensioni sono in grado di assicurare un recupero dell’acuità visiva”.
“Le nanoparticelle polimeriche – conclude Guglielmo Lanzani, Direttore del centro IIT di Milano – 250 volte più piccole dello spessore di un capello agiscono come microcelle fotovoltaiche, convertendo la luce in un segnale elettrico e non determinano nessuna reazione negativa nel tessuto essendo costituite da polimeri del carbonio, come le nostre proteine e i nostri acidi nucleici. L’avere ridotto la protesi retinica a una sospensione di nanoparticelle, riduce l’intervento di impianto della protesi a una semplice iniezione molto meno invasiva”.
NEL VIDEO QUI SOTTO LA DOTTORESSA PERTILE OSPITE DELLA TRASMISSIONE NEWTON DI RAI STORIA
Il radioterapista oncologo Rosario Mazzola riceve il premio "Young Investigator Award 2022"
E’ un prestigioso riconoscimento per la ricerca scientifica nel campo della radiochirurgia e radioterapia stereotassica quello consegnato al dr. Mazzola, in forza al Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata diretto dal prof. Filippo Alongi, a Milano durante il 15° Congresso Internazionale di Radiochirurgia
Il dott. Rosario Mazzola, radioterapista oncologo del Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata, diretto dal professor Filippo Alongi, è stato insignito del riconoscimento “Young Investigator Award 2022” per i contributi scientifici nel campo della Radiochirurgia e Radioterapia stereotassica per la cura delle patologie oncologiche.
Il premio rientra nell’ambito del 15^ Congresso Internazionale di Radiochirurgia, che si è tenuto a Milano dal 19 al 23 giugno con la presenza di radio-oncologi, neurochirurghi, fisici sanitari e radiobiologi di rinomata fama internazionale provenienti da tutti i continenti.
Da tempo il Dipartimento di Radioterapia Oncologica Avanzata dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria rappresenta un punto di riferimento nazionale ed internazionale in questo ambito clinico. Tale riconoscimento rimarca, ancora una volta, il livello delle eccellenze professionali e tecnologiche che l’ospedale di Negrar valorizza al servizio dei propri pazienti.
Nella foto: il momento della premiazione del dottor Mazzola (al centro); a destra la dottoressa Laura Fariselli, direttore della Radioterapia dell’Istituto Carlo Besta di Milano e presidente del Congresso, a sinistra il professor Marc Levivier, ordinario di Neurochirurgia presso l’Università di Losanna e vicepresidente del Congresso.
Covid 19: cosa contraddistingue questa ondata estiva
Cos’è una variante di un virus? Perché si impone? Cosa è dovuta l’alta contagiosit? Gli attuali vaccini ci proteggono ancora? La virologa Concetta Castilletti fa il punto sulla nuova ondata di contagi che caratterizza questa estate.
Facciamo il punto sulla nuova ondata di contagi Covid -19 con la dottoressa Concetta Castilletti, responsabile dell’Unità Operativa di Virologia dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria
Questa ondata estiva è caratterizzata dalla sottovariante Omicron BA.5. Che cos’è una variante e una sottovariante del virus?
Tutti i virus, così come tutti gli esseri viventi, si moltiplicano per sopravvivere. Ma la natura non è perfetta e così, in questo processo di replicazione all’interno delle cellule, il virus può “mutare”; possono cioè verificarsi errori casuali nel processo di “copiatura” del genoma virale, e le nuove copie di RNA possono contenere variazione rispetto al genoma originario. La maggior parte delle mutazioni non ha un impatto significativo sulla diffusione del virus, ma alcune mutazioni o combinazioni di mutazioni possono fornire al virus un vantaggio evolutivo, come una maggiore trasmissibilità o la capacità di eludere la risposta immunitaria dell’ospite, che nel caso del Sars Cov2 è l’uomo. Darwin ci ha insegnato che il più forte, quello che si adatta meglio all’ambiente, sopravvive. Se quindi una mutazione del genoma, generatasi casualmente, permette a questo “nuovo” virus (variante) di riprodursi con maggiore efficienza e rapidità e/o di adattarsi meglio all’ambiente nel quale si trova, può diventare dominante e soppiantare il ceppo originario o altre varianti meno efficienti dal punto di vista evolutivo. Sempre per quanto il SARS-CoV-2 le variazioni avvengono a livello di mutazioni della proteina Spike, presente sull’involucro esterno. Una sottovariante è un virus che rispetto alla variante originaria ha subito qualche altra mutazione non tale da differire completamente.
Perché le varianti sono sempre più contagiose delle precedenti? Avviene per ogni virus o il SARS-Cov-2 fa eccezione? E perché sempre per il SARS-CoV-2 la maggiore contagiosità corrisponde a una minore pericolosità?
Le varianti che “vincono” sono quelle le cui nuove mutazioni sono più convenienti per il virus soprattutto in termini di capacità di diffusione e quindi di maggiore contagiosità. Tuttavia maggiore contagiosità non sempre si associa a minore pericolosità, per questo motivo bisogna mantenere elevato il livello di attenzione e monitorare l’andamento dell’evoluzione del virus.
Eravamo convinti che il caldo fosse una condizione climatica sfavorevole per il virus, invece…
Non è soltanto il caldo a sfavorire la diffusione di un virus che si propaga per via aerea, ma anche il fatto che con l’estate stiamo molto meno in ambienti chiusi e poco arieggiati. Purtroppo la vita all’aperto fa ben poco di fronte a una variante che ha un RT parti a 15-17 (maggiore anche rispetto a quello del morbillo) contro l’RT 2 del virus di Wuhan o il 7 del Delta. Significa che ogni persona contagiata ne contagia 15-17.
Sentiamo spesso la frase: ho fatto tre dosi, ho preso il Covid e sono stato/a pure male. I vaccini hanno fallito?
Le sperimentazioni che hanno portato all’immissione in commercio dei vaccini, avevano dimostrato la loro efficacia nel proteggere dalla malattia grave, non dall’infezione. Questo accade normalmente anche con i virus influenzali per i quali la maggior parte di noi non è vaccinata ma ha acquisito negli anni un’immunità naturale che ci protegge dalle forme influenzali gravi. Non per questo l’influenza stagionale non causa una sintomatologia che ti costringe a stare a casa con sintomi non lievi come raffreddore, mal di gola, cefalea, febbre anche alta, spesso accompagnata da dolori alle ossa e alle articolazioni. Il vaccino ci ha protetto e ci protegge dalle complicanze gravi del COVID-19, come le polmoniti bilaterali interstiziale, quelle che riempivano le terapie ed erano causa di decessi. Oggi non sono scomparse, ma sicuramente rare. Un dato è indiscutibile: in questi giorni il tasso di positività va oltre il 20%, ma gli ospedali non sono più in affanno come lo erano prima dei vaccini
Se il virus è così mutato rispetto al ceppo originario di Wuhan, i test diagnostici sono ancora efficaci?
Per evitare che i kit perdano efficacia si scelgono tratti del genoma del virus non soggetti a mutazione proprio perché mantengano affidabilità. Questo vale sia per i tamponi antigenici sia per i molecolari il cui livello di precisione è decisamente migliorato rispetto all’inizio della pandemia. Inoltre, di solito i test molecolari non si basano sulla ricerca di un solo gene, ma due o tre ed è molto difficile che in tutti i geni oggetto della ricerca siano presenti mutazioni che possono inficiare il risultato del test.
Infine, la sorveglianza sull’ è molto attiva e tutta la comunità scientifica internazionale è in contatto proprio per monitorare questo aspetto.
Se i vaccini sono stati realizzati su il ceppo originario di Wuhan perché è consigliabile ai fragili ed agli anziani effettuare già ora la quarta dose?
Il vaccino attuale, pur se basato sul ceppo originario, ci protegge dalle forme gravi perché la vaccinazione stimola una risposta specifica di tutto il nostro sistema immunitario. Il soggetto vaccinato produce, quindi, sia anticorpi specifici che cellule che riconoscono il virus e le cellule infette e contrastano la malattia. I soggetti fragili e gli anziani hanno spesso una capacità ridotta di rispondere alla vaccinazione, per tale motivo è consigliato effettuare un richiamo già da ora, soprattutto vista la velocità di diffusione di queste nuove sottovarianti cosi contagiose.
In autunno avremo i vaccini che proteggono anche dalle varianti o tale protezione arriverà solo dai vaccini universali?
Probabilmente i vaccini “bivalenti” che saranno disponibili in autunno saranno ancora più efficaci nel difenderci dalle varianti che conosciamo. È auspicabile lo sviluppo di un vaccino cosiddetto anti pancoronavirus che ci possa proteggere dalle forme gravi causate anche da “nuovi” betacoronavirus.
Servono ancora le mascherine?
Purtroppo non siamo ancora arrivati alla tanto desiderata fase di endemia, quindi in situazioni al chiuso e di assembramento indossare la mascherina è ancora un’abitudine da mantenere. Come il distanziamento e il lavaggio frequente delle mani.
Alla biologa Elena Pomari il premio "Positive Droplet Award” nell'ambito della lotta contro il Covid
La dottoressa Elena Pomari, che all’interno del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali è referente del Trasferimento Tecnologico, è stata premiata per l’attività di ricerca sui vantaggi della tecnica ddPCR rispetto alle tecniche di riferimento come la Real-Time PCR applicata nell’ambito del Sars-CoV2
La dottoressa Elena Pomari, biologa del Dipartimento di Malattie Infettive Tropicali e Microbiologia, è stata insignita del premio “Positive Droplet Award”, categoria “Fight Against SARS-CoV-2”, indetto dalla Biorad, la multinazionale con sede in California specializzata in biotecnologie sia in ambito diagnostico che di ricerca.
Il riconoscimento rientra nelle celebrazioni per i 10 anni dall’immissione sul mercato da parte della stessa Biorad del macchinario Droplet Digital PCR (ddPCR), che applica l’omonima tecnica di biologia molecolare.
La dottoressa Pomari, che all’interno del Dipartimento diretto dal professor Zeno Bisoffi è referente del Trasferimento Tecnologico, è stata premiata per l’attività di ricerca sui vantaggi della tecnica ddPCR rispetto alle tecniche di riferimento come la Real-Time PCR, familiare anche al grande pubblico in quanto viene impiegata per la diagnosi molecolare del SARS-CoV-2. In particolare proprio in riferimento al virus responsabile della COVID19, la biologa dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria è stata, insieme ai suoi colleghi, tra i primi a sviluppare un sistema di quantificazione della carica virale con la ddPCR direttamente sul tampone nasofaringeo senza dover effettuare il passaggio che precede la PCR e cioè quello di estrazione e purificazione dell’RNA virale, e quindi riducendo costi e tempi dell’analisi.
La giuria del Positive Droplet Award ha assegnato il premio alla dottoressa Pomari, classe 1983, sulla base del suo contributo nell’applicazione della ddPCR nella lotta contro il SARS-CoV-2 e delle pubblicazioni scientifiche presentate.
“La tecnica di biologia molecolare Droplet Digital PCR ha l’obiettivo, come la Real-Time PCR, di cercare gli acidi nucleici di un patogeno (ad esempio un batterio o un virus) che ne individuano la presenza in un organismo – spiega la biologa –. Il nostro Dipartimento impiega questa metodica, e il relativo macchinario, da alcuni anni sui parassiti. In particolare stiamo indagando i vantaggi di questa tecnica sulla quantificazione, cioè sulla misurazione della quantità del plasmodium della malaria. Con l’avvento della pandemia, abbiamo applicato la ddPCR anche per la ricerca del SARS-CoV-2. Infatti, per quanto riguarda l’ambito della virologia, la ddPCR ha mostrato già utili applicazioni per il virus dell’HIV, per il Citomegalovirus e per il virus dell’epatite B”.
Ma quali sono i vantaggi della Droplet Digital PCR rispetto alle tecniche tradizionali? “Sicuramente è una metodica che può risultare più sensibile– risponde -. Quando la carica virale è alta le due tecniche sono simili. Il vantaggio si presenta nel momento in cui, invece, la carica è bassa, cioè quando la quantità del genoma virale all’interno del materiale prelevato è minima. In questi casi la PCR classica può non risultare sufficiente alla rilevazione del patogeno, mentre con la ddPCR il rilevamento è immediato con notevoli vantaggi dal punto di vista diagnostico”.
Sacro Cuore: una mostra e una targa per celebrare il Centenario
La ricorrenza del Sacro Cuore di Gesù è una delle due Feste patronali dell’Ospedale di Negrar. Quest’anno è stata speciale perché celebrata nel Centenario della struttura ospedaliera (1922-2022). Per l’occasione è stata scoperta una targa commemorativa e inaugurata una mostra fotografica che racconta un secolo di vita del Sacro Cuore: da Ospizio per anziani a Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico
Una speciale ricorrenza del Sacro Cuore – Festa patronale dell’Ospedale di Negrar – quella celebrata questa mattina all’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. Il tradizionale appuntamento di inizio estate si è coniugato con le celebrazioni del Centenario della struttura ospedaliera della Valpolicella (1922-2022).
Le celebrazioni hanno visto lo scoprimento della targa commemorativa del Centenario e l’inaugurazione della mostra fotografica “100 anni Sacro Cuore Don Calabria-Immagini e voci di una grande storia”, realizzata dal fotografo Renzo Udali con l’Ufficio Stampa dell’Ospedale (Elena Zuppini e Matteo Cavejari).
La mostra (35 grandi pannelli fotografici) è allestita nel tunnel di collegamento al piano terra della palazzina d’ingresso. Ogni pannello è dotato di una formella che riporta un testo esplicativo e, alcune, un QRCODE, attraverso il quale è possibile vedere filmati storici e attuali. Le foto degli anni del secolo scorso provengono dall’Archivio Storico di San Zeno in Monte (Casa Madre dell’Opera Don Calabria) e da quello dell’Ospedale, mentre le immagini della storia più recente sono state realizzate da Udali, che ha effettuato la post-produzione dell’intero materiale fotografico. Il percorso racconta attraverso l’evoluzione strutturale e tecnologica dell’ospedale di Negrar, anche il progresso della scienza medica nell’ultimo secolo.
La mostra è visitabile liberamente da tutti coloro che si recano in ospedale per motivi sanitari.
Le celebrazioni si sono concluse con la messa nella chiesa di Negrar, presieduta da mons. Giuseppe Zenti, Vescovo di Verona. Un omaggio, quello dell’eucaristia in parrocchia, al parroco don Angelo Sempreboni, che nel 1922 realizzò il Ricovero Casa del Sacro Cuore, per dare una risposta ai bisogni degli anziani del paese. Il sacerdote originario di Fumane aveva realizzato anche una struttura che nelle sue intenzioni doveva diventare un ospedale. Un sogno, questo, che prese nelle sue mani don Giovanni Calabria nel 1933, quando la Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, da lui fondata, assunse la proprietà di Casa del Sacro Cuore e degli edifici adiacenti, collocati nella zona dell’attuale Pronto Soccorso.
Oggi l’Ospedale è un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico per le Malattie Infettive e Tropicali (IRCCS); è un ospedale Classificato ed Equiparato agli ospedali pubblici pur essendo di proprietà privata e Presidio Ospedaliero della Regione Veneto. Conta 549 posti letto a cui si aggiungono i 365 dell’aerea sociale, 30.661 ricoveri nel 2021 di cui il 23% provenienti da fuori regione, e oltre 22mila interventi chirurgici. I dipendenti sono 2.318 di cui 416 medici.
La targa commemorativa di marmo rosso Verona è collocata sulla facciata della chiesa dell’Ospedale Sacro Cuore, nei pressi della quale sorgeva il Ricovero Casa del Sacro Cuore e riporta la frase profetica scritta da San Giovanni Calabria in una lettera datata 17 agosto del 1948 a fratel Camillo Clementi: “L’Ospedale Sacro Cuore di Negrar, che nei disegni della Divina Provvidenza occupa uno dei posti più belli e che è destinato a svilupparsi sempre più e sempre meglio”.
“L’abbandono filiale alla Provvidenza realizza grandi cose, scriveva don Calabria nel 1953 parlando dell’Ospedale”, ha detto il presidente del “Sacro Cuore Don Calabria”, fr. Gedovar Nazzari, aprendo le celebrazioni. “Se ci guardiamo attorno, se pensiamo al lavoro svolto ogni giorno per il bene dei pazienti, ai tanti di loro che attraversano l’Italia per curarsi qui da noi: questo ospedale è una grande cosa. L’abbandono filiale alla Provvidenza e ai suoi disegni quindi prosegue ancora oggi. Prosegue nel lavoro di voi collaboratori, grazie alla vostra professionalità e umanità con cui mostrate, come voleva don Calabria, che “Iddio c’è e che da Padre buono pensa alle sue creature”.
“Cento anni fa qui sorgeva un ricovero per anziani, oggi un Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) – ha detto l’amministratore delegato Mario Piccinini -. Uno sviluppo strutturale e tecnologico enorme. Ma questo non sarebbe stato possibile senza gli operatori di ieri e di oggi, senza la loro competenza e la loro capacità professionale, unite a un grande cuore. In una struttura che oggi conta 2.300 persone è difficile conoscersi personalmente. Ma io posso dire che ci conosciamo tutti, perché conosciamo il nostro grande cuore”.
Prima dello scoprimento e della benedizione della targa commemorativa da parte di don Ivo Pasa, delegato dell’Opera Don Calabria per l’Europa, don Alfonso Bombieri ha letto il messaggio augurale del nuovo Superiore generale dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, padre Massimiliano Parrella, eletto lo scorso 25 maggio e assente perché colpito da Covid: “Auspico a breve di poter celebrare con voi il traguardo e continuare a lodare la Provvidenza e tutti i suoi i collaboratori per le meraviglie che si manifestano anche in questo luogo provato dalla malattia e dalla sofferenza”.
Nell’introdurre la mostra il fotografo Renzo Udali ha sottolineato che “la storia non va dimenticata, ma documentata. A me è stato dato il privilegio di documentare la straordinaria e centenaria storia dell’Ospedale di Negrar. E’ stato un percorso entusiasmante di selezione, di restauro di immagini storiche e di realizzazione di nuove. Il risultato è un racconto su cui riflettere, lungo il quale le foto antiche descrivono l’ospedale di ieri mettendo in luce quello di oggi, un’eccellenza nazionale riconosciuta in tutta Italia”
Tra le fotografie più significative quella della sala operatoria dove nel 1944 è stato eseguito il primo intervento, il cui confronto con le sale operatorie di oggi (dotate di robot chirurgici) rappresenta non solo lo sviluppo che in un secolo ha avuto l’Ospedale di Negrar ma anche quello della scienza medico-chirurgica. Straordinari anche i documenti ritrovati, come la riproduzione del contratto di acquisto, datato 1933, della Casa del Sacro Cuore e degli edifici adiacenti da parte della Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza. A vendere la proprietà avuta in eredità dal fratello, la sorella del parroco di Negrar, Maria Sempreboni.