"Il Papa per l'Ucraina": sono realtà i progetti sanitari vagliati dal "Sacro Cuore"
Il dottor Claudio Bianconi è ritornato nella parte meridionale del Paese per controllare lo stato di avanzamento dei progetti delle Ong finanziati dal Pontefice e scelti da un’équipe dell’ospedale di Negrar
Prosegue la collaborazione dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria nell’ambito dell’iniziativa “Il Papa per l’Ucraina”, voluta personalmente da Francesco per aiutare la popolazione stremata da un conflitto che perdura, nel silenzio più totale del mondo, dall’aprile del 2014.
Dal 13 al 15 giugno il dottor Claudio Bianconi (foto 1, il quarto a sinistra con l’équipe dell’ospedale di Dnipro), direttore della Neurologia, accompagnato dal nunzio apostolico dell’ex Repubblica dell’Unione Sovietica, il veronese Claudio Gugerotti(nella foto 2 a destra), si è recato nella parte meridionale del Paese, teatro del conflitto, per verificare lo stato di avanzamento di alcuni progetti sanitari rivolti alla popolazione del luogo e in favore di oltre un milione di profughi che si sono riversati sulle città non interessate dalla guerra.
I progetti di carattere sanitario sono solo una parte di un’operazione umanitaria che può contare su 16 milioni di euro: 11 milioni raccolti dalla colletta che si è tenuta in tutta Europa il 24 aprile del 2016 a cui il Papa ha aggiunto personalmente 5 milioni di euro.
Quello compiuto lo scorso giugno è il secondo viaggio che il dottor Bianconi intraprende nel Donbass, la regione sud-orientale dell’Ucraina tagliata dalla cosiddetta “zona grigia”, che separa i due eserciti: quello ucraino e quello dei separatisti filorussi, che controllano le Repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk.
Nell’ottobre dello scorso anno si era recato sul posto assieme ad alcuni colleghi dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria: Zeno Bisoffi, direttore del Centro di Medicina Tropicale, Carlo Lorenzi, del Pronto Soccorso, e Teresa Zuppini, direttore della Farmacia. Con loro anche don Ivo Pasa, delegato per l’Europa dell’Opera Don Calabria (foto 3).
L’équipe, su incarico della Santa Sede, ha acquisito informazioni dirette sulla situazione sanitaria dell’Ucraina e in base ad esse ha supportato la valutazione dei progetti presentati, rispondendo ad un apposito bando internazionale, dalle organizzazioni umanitarie che lavorano nel Paese e raccolti da un comitato tecnico locale scelto da papa Francesco.
Gli interventi, che sono già in fase avanzata di realizzazione, rispondono alla drammatica condizione sanitaria della popolazione che la guerra ha privato di ogni forma di assistenza. A ridosso della linea del fronte gli ospedali sono stati distrutti, mancano apparecchiature mediche, le poche cure e i rari farmaci disponibili sono a totale carico della gente. La presenza dei profughi ha aggravato ulteriormente anche la situazione delle strutture sanitarie lontane dalle bombe, che dal punto di vista organizzativo sono rimaste ospedali dell’ex Unione Sovietica, ma sostenuti con limitati finanziamenti da parte dello Stato.
Così all’ospedale comunale di Rubizhne nella regione di Lugansk, dove il tasso di mortalità materno-infantile supera di gran lunga quello del resto del Paese, l’iniziativa “Il Papa per l’Ucraina” ha donato apparecchiature per il reparto di Pediatria e il reparto di Ginecologia ed Ostetricia (foto 4 e 5). Inoltre è stata allestita una nuova sala radiologica (foto 6).
Alcuni progetti hanno riguardato la distribuzione di farmaci oncologici sia per i bambini che per gli adulti . Ma anche di medicinali più comuni come quelli contro l’ipertensione e il diabete o per fronteggiare i moltissimi casi di tubercolosi e Aids (foto 7).
Le conseguenze del conflitto sono pesantissime anche sulla salute psicologica della popolazione, specie di quella più giovane. Per questo nel territorio regionale di Donetsk è in corso un progetto di supporto psico-sociale per i ragazzi in difficoltà. Mentre per assicurare l’accesso a servizi medici qualificati e ai farmaci alle persone che vivono nella zona grigia sono state allestite delle cliniche mobili.
Gli operatori dell’ospedale di Negrar ritorneranno in Ucraina nei prossimi mesi per valutare con il Comitato tecnico ulteriori progetti sanitari da realizzare con una seconda tranche di finanziamenti.
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Quel liquido che offusca improvvisamente la vista
La Corioretinopatia sierosa centrale è una patologia dell’occhio che si manifesta improvvisamente e se trascurata porta a una grave diminuzione della vista. Come viene diagnosticata e di quali terapie disponiamo? Risponde il dottor Antonio Polito
Un improvviso offuscamento della vista, le immagini diventano confuse e più piccole e i colori si alterano. Sono i sintomi acuti della Corioretinopatia sierosa centrale, una patologia dell’occhio che consiste nello scollamento della parte centrale della retina (la macula) dall’epitelio pigmentato, sul quale la retina appoggia, a causa dell’accumulo di liquido sieroso.
“Si crea una sorta di bolla di fluido che solleva in maniera circoscritta e localizzata la retina impedendo di mettere a fuoco la vista in maniera corretta”, spiega il dottor Antonio Polito (nella foto) che nell’ambito dell’Unità Operativa di Oculistica del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dalla dottoressa Grazia Pertile, si occupa prevalentemente di retinopatie.
Essendo quello di Negrar un Centro di riferimento nazionale per le patologie della retina, sono qualche centinaia i pazienti (tra nuovi e in follow up) che all’anno, anche da fuori regione, si rivolgono alla struttura veronese per la diagnosi e il trattamento di una patologia che, se trascurata, porta a una grave diminuzione della vista.
La Corioretinopatia sierosa centrale colpisce circa 10 persone su 100mila abitanti con un’età media di 40 anni ed è sei volte più frequente negli uomini.
“Le cause della prevalenza maschile non sono certe in quanto non è ancora chiara l’eziologia della malattia – sottolinea il dottor Polito -. Si pensa che la patologia abbia origine da un’alterazione della permeabilità dei capillari del coroide (lo strato vascolarizzato su cui poggia la retina) provocata da un’estrema sensibilità verso alcune sostanze vasoattive, per esempio il cortisone. In altre parole i vasi a contatto con questo ormone reagirebbero facendo fuoriuscire la frazione seriosa del sangue. Infatti questi pazienti presentano in genere un livello di cortisolo (il cortisone prodotto dall’organismo, ndr) molto alto e l’assunzione per via inalatoria, cutanea e orale di cortisone espone le persone predisposte al rischio di contrarre la malattia”. E’ stato inoltre rilevato che questo tipo di patologia colpisce maggiormente i soggetti ansiosi (profilo di personalità di tipo A). “In condizioni di ansia vengono liberati epinefrina o glucocorticoidi, ormoni reattivi che in genere inducono reazioni positive, ma in soggetti predisposti a questa patologia possono provocare alterazioni alla permeabilità del coroide”, precisa ancora lo specialista oftalmologo.
Come avviene la diagnosi di Corioretinopatia sierosa centrale?
“Oggi l’esame diagnostico per eccellenza è la Tomografia Ottica a Luce Coerente (OCT), la cosiddetta TAC dell’occhio (foto 1). Fino a poco tempo fa la diagnosi avveniva tramite Fluorangiografia, una metodica più invasiva poiché necessita della somministrazione di liquido colorante che potrebbe provocare reazioni avverse. L’OCT acquisendo delle immagini sezionate dell’occhio ci consente di individuare lo scollamento tra la parte centrale della retina e il suo epitelio di appoggio. Cosa che non potremmo fare ad occhio nudo in quanto le raccolte sierose sono nell’ordine di alcune decine di micron, almeno nelle fasi iniziali. Nei prossimi mesi la nostra Unità Operativa potrà avvalersi di un OCT di ultimissima generazione: l’Angio-OCT in grado di diagnosticare anomalie vascolari senza iniezione di colorante. Grazie a questo macchinario si è rilevato che in una percentuale non trascurabile di pazienti sono presenti neovascolarizzazioni coroideali, le stesse di cui soffre l’anziano colpito da maculopatia degenerativa e che vanno a complicare ulteriormente il quadro clinico”.
Dopo la diagnosi a quale terapia si ricorre?
“Prima di procedere attendiamo circa un mese dall’insorgenza, in quanto la presenza di liquido permane solo per alcune settimane e nelle gran parte dei casi si verifica un riassorbimento spontaneo. Tuttavia nella metà dei casi il problema si ripresenta nell’arco temporale di un anno. Nel 15-20% dei pazienti l’accumulo di liquido non regredisce da solo e perdura per più di sei mesi, allora in quel caso si parla di forma cronica che provoca danni permanenti alla vista”.
In cosa consiste la terapia?
“Abbiamo a disposizione due opzioni. Se i capillari permeabili al liquido si trovano vicino alla parte centrale della retina, se interessano aree estese o si presentano in più punti procediamo con la terapia fotodinamica (PDT). Invece nel caso in cui sono distanti dalla parte centrale e localizzati in un solo punto si procede con il Laser termico-diretto. Quale parte dell’occhio trattare e quindi quale trattamento applicare viene indicato dalla Fluorangiografia, un esame che richiede la somministrazione di un colorante tramite una vena del braccio o della mano (foto 2 e 3)”.
Che differenza esiste tra le due modalità terapeutiche?
“La terapia fotodinamica si serve di una sostanza fotosensibilizzante (la Verteporfina), che viene iniettata nel paziente molto lentamente dalla vena di un braccio o di una mano.Una volta raggiunto l’occhio viene attivata da un raggio laser di una determinata lunghezza d’onda. Il farmaco colpito dal laser va incontro a una modificazione biochimica tale da creare un danno fotochimico là dove si trova, precisamente a livello dei capillari permeabili, chiudendoli. Il Laser termico-diretto, senza farmaco, invece procede con una vera e propria bruciatura, di cui, naturalmente, il paziente non si accorge. Si sta facendo strada una terza opzione, che consiste in una terapia farmacologica”.
Di cosa si stratta?
“Consiste in un principio attivo – inibitore di recettori per i mineralcorticoidi, già utilizzato in cardiologia nello scompenso cardiaco post-infarto miocardico – in grado di impedire il legame tra i recettori presenti sul vaso e il cortisone endogeno, responsabile di una reazione anomala che porta alla aumentata permeabilità del vaso. Si è visto che in alcuni casi i pazienti possono migliorare in misura significativa e che i farmaci non espongono al rischio di un’eccessiva chiusura dei capillari con la creazione di una cicatrice. Noi ricorriamo a questi farmaci sui pazienti che rispondono poco alla terapia fotodinamica o al laser. Per produrre dei risultati, la terapia farmacologica deve essere assunta per un minimo di 3 mesi e fino a 6 mesi, quotidianamente”.
Il trattamento fotodinamico e quello con il laser sono risolutivi?
“Sì entrambi, ma solo della fase acuta. Non impediscono infatti che si aprano capillari in un’altra area dell’occhio. Ad ogni modo se questo avviene i trattamenti sono ripetibili senza particolari rischi”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
In Photo Gallery:
Foto 1: una sezione ottica di 9 mm della regione maculare all’OCT: si evidenzia il sollevamento del neuroepitelio rispetto al sottostante epitelio pigmentato retinico per presenza del fluido, che appare nero
Foto 2 e 3: due Fluorangiografie dello stesso paziente acquisite a 2 minuti (in basso a sinistra) e a 20 minuti (in basso a destra) dall’iniezione del colorante: si vede l’accumulo di colorante (chiaro) all’interno della bolla, per fuoriuscita dai capillari.
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ll "Sacro Cuore" accanto alle future mamme straniere
La ginecologa Mariangela Fornalé racconta in un video l’attività della Ginecologia e Ostetricia dedicata alle donne provenienti da altri Paesi perché possano vivere soprattutto il parto nel modo più vicino alla loro cultura
Come vivono la gravidanza e il parto le donne provenienti da altri Paesi del mondo?
L’Unità Operativa di Ginecologia e Ostetricia dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Marcello Ceccaroni, in occasione della realizzazione delle nuove sale parto e travaglio ha attrezzato gli ambienti in modo tale che anche le future mamme straniere possano vivere quei momenti irripetibili il più naturalmente possibile e nella modo più vicino alla loro tradizione.
La ginecologa Mariangela Fornalé, come ci racconta nel video, da tempo segue le donne straniere collaborando con alcune sue colleghe anche con il Centro salute per immigrati che si trova presso il Palazzo della Sanità di Verona.
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L'alluce torna a posto senza cicatrici e dolore
Per l’alluce valgo di entità media o moderata è indicata la chirurgia percutanea, che non prevede incisioni sulla pelle. E già dal giorno dopo l’intervento il paziente può tornare a camminare caricando sul piede
Si chiama chirurgia percutanea dell’alluce valgo ed è una tecnica chirurgica che corregge la dolorosa deformità del primo dito del piede senza incidere la pelle. Un intervento in anestesia locale, che consente al paziente di camminare caricando sul piede già dal giorno dopo l’operazione. Il dolore post operatorio è pressoché assente come le cicatrici, con un notevole vantaggio estetico.
“Tuttavia è importante precisare che non sempre il valgismo dell’alluce può essere trattato con la tecnica percutanea, che ha indicazioni molto precise alle quali il chirurgo deve attenersi per ottenere buoni risultati”, spiega il dottor Venanzio Iacono (foto 1), responsabile della Chirurgia del piede e della caviglia, nell’ambito dell’Unità operativa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Claudio Zorzi.
Cos’è l’alluce valgo
L’alluce valgo è una delle patologie più comuni dell’avanpiede soprattutto nel sesso femminile: la sua prevalenza, pari al 23% tra i 18 e i 65 anni, aumenta con l’età, attestandosi su valori superiori al 35% dopo i 65 anni.
“Il dito appare deviato lateralmente (foto 2), a volte è ruotato esternamente – prosegue il dottor Iacono -. Alla sua base sul lato mediale si forma una tumefazione (borsite reattiva dolente) corrispondente alla testa del primo metatarso, chiamata comunemente ‘cipolla’. Con il peggiorare della deformazione si sviluppa un sovraccarico sulla parte anteriore del piede con alterazione dolorosa del carico sulle teste metatarsali, accompagnata da deformità a danno del secondo dito che sviluppa callosità dolenti. Il cosiddetto dito a martello” (foto 3).
La deformazione è legata a cause genetiche. Tra i fattori predisponenti vi è il cosiddetto piede egizio, ossia il morfotipo caratterizzato da un alluce più lungo, rispetto alle altre dita. Altri fattori sono i dismorfismi rotazionali dell’arto inferiore come il piede piatto. Ma il valgismo può essere correlato anche a malattie infiammatorie come, per esempio, l’artrite reumatoide oppure a conseguenze di fratture della caviglia o delle ossa del piede. Non vanno sottovalutati, infine, i fattori ambientali in grado di alterare la biomeccanica del passo, come l’uso di scarpe a pianta stretta e con tacchi alti che, agendo su un piede predisposto, contribuiscono a favorire lo sviluppo precoce della deformazione.
I trattamenti
E’ possibile provare a trattare il problema con l’uso di calzature comode, a pianta larga con tomaia morbida e suola flessibile, con sostegno della volta e dello scarico dei metatarsi. Il tacco non deve essere più alto di 4 cm. I tutori correttivi possono avere una certa efficacia nelle prime fasi.
“Quando questi rimedi non sortiscono effetto o non vengono accettati dal paziente in quanto antiestetici – sottolinea l’ortopedico – è indicato procedere con l’intervento chirurgico per ‘riallineare l’alluce’. Esistono varie tecniche chirurgiche per correggere i diversi gradi di valgismo. L’obiettivo è quello di ottenere una buona correzione per diverse tipologie di deformità. E’ importante distinguere se si tratta di una deformità limitata al primo dito del piede o se è parte di una sindrome. In quest’ultimo caso è fondamentale correggere tutti i malfunzionamenti nel piede e non solo il valgismo dell’alluce. La chirurgia percutanea è indicata in genere per gli alluci valghi di entità lieve o moderata“.
La chirurgia percutanea dell’alluce valgo
L’intervento viene effettuato in anestesia periferica o locale in regime di day-surgery o ambulatoriale. Prevede gesti chirurgici precisi che riguardano sia le parti molli sia quelle ossee. Gli strumenti chirurgici impiegati sono estremamente semplici e di piccole dimensioni (foto 4).
“Questa tecnica mininvasiva – spiega ancora Iacono – prevede l’esecuzione di sezioni ossee e sezioni delle strutture capsulari e legamentose retratte, come nella chirurgia tradizionale. L’aspetto rivoluzionario e vantaggioso è da individuarsi nelle modalità di esecuzione e nella strategia operatoria: i sottilissimi strumenti chirurgici impiegati vengono introdotti nella cute tramite minuscoli forellini e senza bisogno di eseguire incisioni. L’operazione avviene ‘a cielo chiuso’ ossia senza l’esposizione del piano osseo e dei tessuti circostanti per cui il monitoraggio radiologico durante la seduta operatoria è essenziale per guidare con precisione il chirurgo. La chirurgia percutanea non può essere considerata una chirurgia minore – sottolinea – . E’ vero che viene eseguita tramite incisioni cutanee minime ma, attraverso di esse, vengono effettuati gesti chirurgici analoghi a quelli delle tecniche aperte. Per questo motivo l’intervento deve essere eseguito da chirurghi esperti del piede sia in chirurgia tradizionale che in chirurgia percutanea“.
Quando è indicata
Non tutti i casi di alluce valgo possono essere trattati con la chirurgia percutanea. “La scelta del tipo di intervento viene decisa in sede di visita e dopo una attenta valutazione delle radiografie dei piedi sotto carico, tenendo conto di diversi parametri quali l’età, il dolore e soprattutto del grado di deformità. Talvolta la chirurgia percutanea può essere associata a tecniche chirurgiche tradizionali di correzione dell’alluce, in particolare per trattare anche le deformità a carico delle altre dita”, afferma Iacono.
Il decorso post-operatorio
Il paziente viene dimesso lo stesso giorno dell’intervento o la mattina successiva dopo aver effettuato la medicazione e può tornare a camminare caricando sul piede con un’apposita calzatura a suola piana (foto 5). Il dolore post operatorio è minimo rispetto alla chirurgia classica notoriamente dolorosa.
“Il bendaggio, che deve essere rinnovato ogni 7/10 giorni per un mese è fondamentale nel trattamento (foto 6) – conclude il dottor Iacono -. Esso deve mantenere stabili le correzioni effettuate in sala operatoria in quanto l’intervento non prevede l’uso di mezzi di sintesi come viti, fili di acciaio... Dopo un mese dall’operazione viene effettuata una RX di controllo e collocato uno spaziatore morbido tra 1° e 2° dito per altri 30 giorni”.
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Con il percorso del bambino l'ospedale è "senza paura"
Dalla visita al pre-ricovero, dalla degenza alla dimissione: l’Unità di ORL del “Sacro Cuore” ha ideato un originale percorso per ridurre lo stress nei piccoli pazienti e nei loro familiari in occasione di interventi chirurgici che riguardano i bambini
L’idea di andare in ospedale, la visita in reparto, l’eventuale ricovero o il doversi sottoporre ad un intervento: ciascuna di queste situazioni può provocare un forte stress nel paziente e nei familiari. Ma se il paziente è un bambino, l’agitazione è sicuramente maggiore e spesso diventa vera e propria paura, soprattutto da parte dei genitori e dei nonni che vedono il proprio piccolo affidato a mani “sconosciute”, anche se esperte.
Come fare, dunque, perché l’esperienza dell’ospedale per un bambino non diventi un momento così traumatico? A partire da questa domanda, i medici e gli infermieri dell’Unità Operativa di ORL del Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Sergio Albanese, hanno ideato un percorso assai originale che ha l’obiettivo di eliminare la paura e mettere a proprio agio i piccoli pazienti e i loro familiari durante tutte le fasi della permanenza in ospedale.
I BAMBINI IN ORL
Nell’Unità di ORL di Negrar i bambini rappresentano circa il 30% di tutti i pazienti: nel 90% dei casi la loro età è compresa tra 3 e 6 anni. Il rimanente 10% è rappresentato per la maggior parte da bambini oltre i 6 anni e in minima parte da bambini di età inferiore ai 3 anni. Gli interventi effettuati in questo ambito sono circa 450 all’anno, di cui il 90% è costituito da tonsillectomia e adenoidectomia, due procedure chirurgiche che in genere provocano dolore, anche se per un tempo molto circoscritto.
Partendo da questi dati, il personale ha analizzato tutto il percorso che porta il bambino dalla visita all’intervento e quindi alla dimissione, identificando i passaggi più traumatici e apportando le opportune correzioni per ridurre lo stress psicofisico dei piccoli pazienti.
IL PERCORSO DEL BAMBINO
Il risultato è il nuovo percorso del bambino all’interno dell’Unità Operativa che si articola in quattro fasi:
1. La visita e la programmazione dell’intervento. Spesso i genitori si trovano in difficoltà nello spiegare ai propri piccoli ciò che avverrà in ospedale. Per aiutarli, in ORL viene loro consegnato un libretto illustrato che racconta in forma di favola, utilizzando caratteri di scrittura chiari e sufficientemente grandi e con linguaggio molto semplice, tutto il percorso dal momento dell’insorgenza del problema (tonsillite, ipertrofia adenoidea…) e quindi ancor prima della visita ORL iniziale, fino al momento della dimissione dall’ospedale, dopo l’intervento.
I diversi libretti, delle dimensioni di un quaderno, sono costituiti da una quarantina di pagine di cui 20 sono occupate da testo e 20 riportano in immagine, a tutta pagina, quanto scritto. Questa impostazione grafica è stata pensata per permettere al bambino, in relazione alla sua età e al livello di scolarità, di leggere e osservare l’immagine, oppure di non leggere ma di farsi raccontare la storia dal genitore e di colorare l’immagine per fissare i passaggi del percorso (vedi foto).
2. Il pre-ricovero – circa una settimana prima del ricovero – in cui il bambino viene sottoposto alle indagini diagnostiche per la preparazione dell’intervento (prelievo ematochimico, visita ORL, visita anestesiologica, visita pediatrica). Uno dei punti più temuti da bambini e genitori è il prelievo di sangue e su questo aspetto, nell’ambito del percorso del bambino, è stata inserita l’applicazione di una pomata anestetica sul braccio (EMLA) per ridurre il dolore dell’ago durante la procedura. Questo ha permesso di eliminare non solo l’eventuale dolore, ma anche la paura di molti bambini nel vedere il sangue che fluisce nella siringa.
3. La degenza, in genere in regime di Day Hospital, che ha la durata di due giorni (quello dell’intervento, che è anche il giorno di ingresso, e quello successivo). In questa fase c’è anzitutto da affrontare l’ansia legata alla separazione dai genitori prima dell’intervento. Per ridurre lo stress del distacco, i genitori possono accompagnare il bambino al piano inferiore verso la sala operatoria e insieme ad un infermiere gli somministrano delle gocce sedative che lo tranquillizzano cosicchè quando viene preso in carico per entrare in sala l’ansia risulta molto ridotta.
Un secondo aspetto rilevante in questa fase riguarda la comunicazione con i genitori che attendono impazienti il ritorno dei bimbi dalla sala. A tal fine è stato predisposto un poster che, con l’aiuto di una chiara grafica, illustra i tempi tecnici dell’intervento così che l’attesa non si carichi di paura.
A livello operativo poi è stata introdotta una fase che consiste nell’applicazione di anestetico locale sulle ferite: il blocco delle terminazioni nervose porta ad una totale analgesia che dura molte ore evitando al bambino la fase più dolorosa del decorso postoperatorio. Successivamente in reparto il controllo del dolore viene supportato da un trattamento farmacologico concordato preventivamente con gli anestesisti in modo da anticipare la comparsa del dolore. Il pomeriggio vengono portati ghiaccioli per tutti e successivamente arrivano a sorpresa i clown ad allietare i bambini appena operati. Eliminando lo stress e il dolore la degenza diventa un soggiorno che i bimbi ricordano senza particolare ansia, come confermano i genitori durante le visite di controllo.
4. L’ultima fase è quella della dimissione, quando ai genitori e al bambino, dopo un’ulteriore visita ORL, lo specialista illustra i comportamenti corretti da adottare – alimentazione, movimento – durante il periodo della convalescenza.
Il filo rosso del percorso senza paura è l’informazione su “misura”, anche attraverso le immagini, che si colloca in un contesto in cui è il “prendersi cura” e non il “curare” a orientare l’assistenza, in un’ottica di miglioramento continuo e che concorre significativamente a contenere e ridurre lo stress e gli aspetti negativi dell’esperienza vissuta.
Un percorso, questo pensato dall’ORL, che è in continua evoluzione e che aderisce, in modo attento, ai contenuti della Carta dei Diritti dei Bambini e degli Adolescenti (Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989, ratificata da tutti i governi europei e si ispira alla Carta di Each del 1988). La Carta, infatti, enfatizza, accanto ad altri aspetti, l’importanza dell’informazione e del coinvolgimento del bambino, con i genitori, nel suo percorso all’interno delle diverse strutture.
Stop al reflusso gastrico con la chirurgia robotica
Il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale, illustra in un video l’intervento con il Robot chirurgico Da Vinci Xi per eliminare l’ernia iatale, una delle cause del reflusso gastrico di cui soffre il 20% della popolazione occidentale
Si stima che il 20% della popolazione dei Paesi occidentali soffra di reflusso esofageo, che si verifica quando i succhi gastrici dello stomaco, risalendo, vengono a contatto con la parete dell’esofago provocando bruciore dietro lo sterno e rigurgito acido.
Sono questi i sintomi più comuni riferiti dai pazienti che si rivolgono al gastroenterologo per eliminare un disturbo a volte sopportabile e rimediabile con un antiacido, ma in alcuni casi tale da trasformarsi in un dolore simile a quello dell’infarto. L’importante è non sottovalutare i sintomi, perché un reflusso cronico può causare l’esofagite che può svilupparsi in cancro all’esofago.
Una delle cause del reflusso è l’ernia iatale, cioè lo scivolamento dello stomaco in torace attraverso il diaframma. Il trattamento di solito è farmacologico ed implica anche un cambiamento di stili di vita che comprende una dieta equilibrata, la perdita di peso e attività fisica giornaliera.
Quando però le “armi” terapeutiche del gastroenterologo falliscono entra in campo il chirurgo con un intervento risolutivo dell’ernia iatale.
Il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, illustra in un video come avviene l’intervento utilizzando il Robot chirurgico Da Vinci Xi, che consente un ritorno più rapido del paziente alle normali attività quotidiane.
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L'estate vista dal Pronto Soccorso pediatrico
Al “Sacro Cuore Don Calabria” è stato studiato un accesso privilegiato per le urgenze dei bambini che parte dal Pronto Soccorso generico, dove il minore ha la precedenza al triage, e continua in Pediatria. I consigli per la salute dei bambini in estate
L’estate non sempre è sinonimo di bella stagione. Basta entrare in un Pronto Soccorso per toccare con mano che se l’inverno ha i suoi mali, l’estate non è da meno, anche per i bambini.
Il bel tempo e le giornate più lunghe sono l’ideale per giocare all’aperto e cimentarsi in attività che il freddo e la pioggia non consentono, ma anche per i traumi, provocati soprattutto dalle cadute in bicicletta o da arrampicate non proprio salutari sugli alberi.
Per non parlare delle gastroenteriti batteriche da intossicazione alimentare dovute al mancato rispetto della catena del freddo nella conservazione degli alimenti. E poi l’asma bronchiale o le orticarie allergiche per i tanti allergeni che madre natura ci dona nei mesi estivi. Per finire con le punture di vari insetti e quelle più meritevoli di attenzione delle zecche.
“L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria dispone di un Pronto Soccorso pediatrico – spiega il dottor Antonio Deganello, direttore della Pediatria – riservato ai pazienti da zero a 17 anni. E’ stato concepito per ridurre i tempi di attesa del bambino o del ragazzo e perché il minore fin dall’ingresso in ospedale sia preso in carico da una équipe e da un ambiente adeguato alla sua età”.
Il primo accesso è al Pronto Soccorso generale, dove il bambino effettua subito il triage senza attendere il suo turno. Dopo una prima valutazione delle condizioni, il minore viene inviato al reparto di Pediatria (quarto piano ingresso F) dove è preso in carico dal pediatra che quel giorno è in staff al Pronto Soccorso o, nei giorni festivi e durante la notte, dal pediatra di guardia. Per i casi per cui non è indicato un ricovero immediato è stato previsto anche uno spazio per l’Osservazione breve intensiva.
“Il Pronto Soccorso pediatrico si occupa di tutte le patologie – spiega il primario – ad eccezione di traumi di lieve entità (come le ferite da taglio) che vengono curate direttamente dai colleghi del Pronto Soccorso generale”.
All’anno il Pronto Soccorso pediatrico registra circa 4mila accessi, il 10% di tutte le urgenze che afferiscono al “Sacro Cuore Don Calabria” e proprio le urgenze che hanno come soggetti i bambini costituiscono il 60% dei ricoveri in Pediatria.
“I Pronto Soccorso pediatrici soffrono della stessa patologia di quelli generali – commenta il dottor Deganello -. Molto spesso gli utenti abusano di una struttura che dovrebbe essere riservata solo alle urgenze. Nell’ambito pediatrico – prosegue il medico – l’accesso improprio risente sicuramente dell’ansia del genitore che di fronte al malessere o all’incidente del figlio cerca una soluzione immediata in una struttura meritevole di fiducia come è considerato l’ospedale“.
Tuttavia in moltissimi casi dovrebbero prevalere la calma e il buon senso. “La gravità di un trauma, per esempio, dovrebbe essere valutata dalle modalità con cui è avvenuto e dall’evidenza delle condizioni del bambino – sottolinea il dottor Deganello -. E non sempre l’esordio di una febbre alta merita una corsa al Pronto Soccorso, spesso è sufficiente una telefonata al pediatra di riferimento.
Buon senso significa anche prevenzione: i colpi di calore sono evitabili non esponendo il bambino al sole nelle ore più calde, coprendogli il capo, dandogli molto da bere. Come si possono evitare le intossicazioni alimentari non mangiando cibi ad alto rischio di deterioramento se non si sa come sono stati conservati”. E’ più difficile impedire a un bambino di giocare e di correre in bicicletta, ma la regola di indossare il caschetto prima di inforcare la bici è sempre valida per i piccoli e per i grandi.
elena.zuppini@sacrocuore.it
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Da Negrar a Luanda: 25 anni di cooperazione sanitaria in Angola
Nel 1992 a Luanda partiva un progetto di assistenza sanitaria su iniziativa dell’Opera Don Calabria e dell’Unione Medico Missionaria Italiana. Nasceva così una rete di servizi che tuttora è un punto di riferimento per quasi due milioni di persone
Una rete di servizi sanitari e territoriali per quasi due milioni di persone in un quartiere molto povero di Luanda, capitale dell’Angola. Al centro della rete c’è l’ospedale Divina Providência, con 134 posti letto, che nel 2016 ha visto 6.646 ricoveri (dati da gennaio a ottobre), di cui 3.938 in Pediatria, 743 nel Centro Nutrizionale Terapeutico, 1.572 in Medicina Generale e 393 al Centro anti tubercolosi. E poi cinque Centri di salute periferici, dove nel corso del 2016 sono state effettuate 169.545 visite ambulatoriali e 85.649 vaccinazioni a bambini e adulti.
I numeri non dicono tutto, ma certamente aiutano a inquadrare la rilevanza di un progetto di sviluppo sanitario che ebbe inizio esattamente 25 anni fa, nel 1992, nella missione angolana dell’Opera Don Calabria. I missionari calabriani erano presenti nel Paese africano già dal 1982, quando nel pieno di una cruenta guerra civile avevano avviato attività in campo pastorale, sociale ed educativo. Ben presto, però, risultò chiaro che una delle grandi emergenze dell’Angola, in modo particolare nella capitale Luanda, era legata alla mancanza di una dignitosa assistenza sanitaria per i milioni di poveri e rifugiati che di giorno in giorno andavano ad affollare le baraccopoli della città per sfuggire alla guerra.
Fu così che nel 1992 si decise di avviare un progetto sanitario con la collaborazione dell’Unione Medico Missionaria Italiana – UMMI, organizzazione non governativa che ha sede all’interno della Cittadella della Carità di Negrar e che fin dalla sua fondazione nel 1933 ha sempre avuto un rapporto molto stretto di collaborazione con l’Opera Don Calabria e con l’ospedale Sacro Cuore (vedi scheda di approfondimento). E proprio l’ospedale Sacro Cuore è uno degli attori che hanno dato e continuano a dare un contributo allo sviluppo di questa rete sanitaria nel cuore di Luanda, attraverso la formazione di personale volontario, confermando una vocazione alla cooperazione internazionale che si verifica anche in altri progetti in Brasile, Filippine, Ucraina e Bielorussia (vedi link alla fine di questo articolo).
UN PO’ DI STORIA
Nel 1992 l’Angola viveva un momento di pace transitoria nel bel mezzo di un conflitto che poi sarebbe proseguito ancora per molto tempo. Fu proprio allora che l’UMMI fece un primo sopralluogo nella capitale Luanda, su invito dell’Opera Don Calabria che era presente da 10 anni nel Paese e aveva già avviato un’attività di assistenza sanitaria per iniziativa di don Mario Castagnini, religioso calabriano e medico.
La missione si trovava, e si trova tuttora, nel “bairro do Golf”, un quartiere abitato da quasi due milioni di poveri, in prevalenza rifugiati della guerra civile, nel municipio di Kilamba Kiaxi vicino all’aeroporto della capitale. Da quel sopralluogo risultò subito evidente la drammatica situazione sanitaria vissuta dalla popolazione, aggravata dall’assenza di infrastrutture e servizi igienico-sanitari, con indicatori tra i peggiori al mondo, tra cui una mortalità infantile, da 0 a 5 anni, pari nel 1992 al 330 per mille.
L’obiettivo della visita dell’UMMI era di arrivare a realizzare un progetto più strutturato di assistenza sanitaria nella missione. E il progetto venne effettivamente redatto nel corso della visita, prevedendo in sintesi l’avvio di attività territoriali in quattro “Centri di Salute” e la creazione di un Centro Diagnostico e Materno-Infantile presso l’area utilizzata dall’Opera alla periferia di Luanda.
I CENTRI DI SALUTE E L’OSPEDALE
Il progetto prese avvio immediatamente con la realizzazione dei quattro Centri periferici. Nel tempo questi centri si sono dotati di strumenti e percorsi diagnostici per le patologie a maggior rischio di mortalità – malaria in primis – e della presenza del medico. Oltre ad una grande mole di attività ambulatoriale, presso i Centri vengono svolte attività di diagnosi precoce, prevenzione, in particolare per la fascia materno-infantile, e di formazione. Il numero di tali presìdi sanitari è salito recentemente a cinque, grazie all’inaugurazione di un ampio Centro Medico – con sezione di ostetricia e maternità – in una nuova zona dell’area urbana (vedi mappa).
L’altra parte del progetto, ovvero il Centro Diagnostico e Materno Infantile, realizzato nel 1993 e oggi divenuto Hospital Divina Providência, ha iniziato la sua attività puntando principalmente sulla capacità diagnostica di laboratorio e per immagini e su un’attività ambulatoriale specialistica diversificata, svolta in buona parte dietro l’azione di filtro promossa dai Centri Medici.Con il tempo è stato perfezionato il sistema dei trasferimenti interni ed esterni alla rete sanitaria e sono stati attivati nuovi settori di intervento.
Nel 2001 è stata aperta la Divisione di Pediatria, con 55 posti letto, e sono state costruite dai Volontari dell’UMMI la Divisione di Medicina, con 54 posti letto, e il Centro per il controllo della Tubercolosi, che oggi ha in trattamento circa 1.700 persone. Negli anni successivi è stato inoltre creato un Centro per diagnosi e cura dell’HIV, che oggi provvede all’accompagnamento di quasi 6.000 ammalati. Quello che nel frattempo era diventato l’HDP – Hospital Divina Providência – è oggi ufficialmente riconosciuto dal governo angolano come parte del servizio sanitario locale (vedi ampia galleria fotografica dell’ospedale e dei centri di salute).
LA LOTTA ALLA MALNUTRIZIONE
Negli ultimi quindici anni è stato sviluppato anche un altro fondamentale settore di attività, che si può ricondurre al più generale tema della “lotta alla malnutrizione”. Visto il rilievo che la problematica assume, anche rispetto alla vulnerabilità verso le patologie emergenti, si è articolata l’attività di lotta alla malnutrizione con interventi dedicati presso l’Ospedale, con la prevenzione, la formazione e l’integrazione alimentare presso i Centri Medici, e con la costruzione di un Centro Nutrizionale Terapeutico con 22 posti letto presso il quale i bambini colpiti da malnutrizione severa possono risiedere con le mamme per il tempo necessario anche alla gestione della nutrizione una volta completata la dimissione. In questi mesi è infine allo studio un progetto per la creazione di una Divisione di Malattie Infettive.
VOLONTARI DA NEGRAR E DA TUTTA ITALIA
Questo progetto, così essenziale per centinaia di migliaia di persone e così difficile da immaginare 25 anni fa in quel contesto, si è gradualmente realizzato. Ciò grazie innanzitutto ai Religiosi dell’Obra da Divina Providencia, che hanno scelto di stare accanto a questa popolazione dal 1982, quando cadevano le bombe e spostarsi sulle strade era un rischio quotidiano, che hanno creduto e partecipato alle diverse fasi dell’intervento sanitario e che hanno sostenuto l’azione dell’UMMI e dei suoi Volontari.
Proprio i Volontari rappresentano un’altra grande risorsa di questo progetto. In questi anni l’UMMI ha inviato 253 persone a Luanda, che con diverse professionalità e periodi di permanenza hanno garantito – sia nelle strutture che nella qualità sanitaria dei servizi – la crescita di questa rete sanitaria. Tra di loro c’è anche chi sta per “compiere” 20 anni di presenza. E tra loro ci sono anche medici e personale sanitario dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar (vedi articolo sui volontari dell’ospedale partiti a gennaio 2016).
Il progetto si è realizzato inoltre – consentendo all’UMMI un impegno economico di oltre 16 milioni di euro in 25 anni – grazie alle persone fisiche, agli enti privati e agli enti pubblici che ne hanno sostenuto, con contributi ed erogazioni, i singoli passi, consentendo all’intero programma un percorso sicuro di sviluppo a beneficio di un altissimo numero di persone. Il ruolo di ciascuno, così come ricordato in queste poche righe, ha avuto un peso determinante e ha rappresentato concretamente il volto della Provvidenza che – dall’altra parte del mondo – si è manifestato come risposta viva e vera a ciascuno di quei poveri che – incolpevoli del loro bisogno e in maniera inattesa – hanno potuto ritrovare la salute e il conforto umano.
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Chirurgia della spalla: l'innovazione è "biologica"
Esperti da tutta Europa a confronto sulle più moderne tecniche chirurgiche per intervenire in caso di rottura irreparabile del maggior tendine della spalla. Se ne parla il 7 e 8 luglio in un corso che vede tra gli organizzatori l’Ortopedia del Sacro Cuore
Tecniche chirurgiche innovative e mini-invasive, tra cui l’utilizzo di protesi biologiche, per intervenire sulle lesioni irreparabili della cuffia dei rotatori della spalla. Il confronto tra queste tecniche, in relazione al tipo di lesione e al tipo di paziente, sarà al centro di un corso in programma il 7 luglio all’ospedale Sacro Cuore di Negrar e il giorno successivo all’ICLO Teaching Center di Verona, con la partecipazione dei maggiori esperti a livello italiano ed europeo (vedi programma).
La cuffia dei rotatori è un grosso tendine della spalla, formato in realtà dalla confluenza di quattro diversi muscoli, di fondamentale importanza per effettuare i vari movimenti dell’articolazione. In alcuni casi i tendini della cuffia sono soggetti a lesioni, dovute a eventi traumatici oppure di tipo degenerativo a causa dell’usura e dell’invecchiamento. Nelle situazioni più compromesse, tali lesioni sono definite irreparabili proprio perché la rottura è massiva, con dolori anche forti e crescente difficoltà nei movimenti (vedi foto). In questi casi il recupero della funzionalità della spalla è possibile attraverso particolari tecniche chirurgiche, alcune delle quali molto recenti e innovative, che possono rappresentare una valida alternativa alla protesi inversa della spalla, che è un intervento più invasivo per il paziente.
“Attualmente ci sono tre tecniche possibili per intervenire quando la lesione della cuffia è irreparabile: il transfer del gran dorsale, il balloon e la ricostruzione della capsula superiore”, dice il dottor Paolo Avanzi, presidente del corso in programma il 7 e 8 luglio e chirurgo in forza all’Unità di Ortopedia e Traumatologia del Sacro Cuore, diretta dal dottor Claudio Zorzi. Proprio il dottor Zorzi introdurrà il corso nella prima parte che si svolgerà a Negrar. “Metteremo a confronto queste tre tecniche – prosegue Avanzi – con l’obiettivo di chiarire in quali casi è preferibile usare l’una o l’altra. L’idea di fondo, infatti, è di arrivare ad una chirurgia che si adatta al paziente e non viceversa” (vedi foto con dottor Zorzi e dottor Avanzi).
Fra le tre tecniche citate, il transfer è quella meno recente e più usata. Consiste nel distacco del tendine del muscolo gran dorsale, che si trova sul tronco e si inserisce sull’omero, con successivo trasferimento del tendine stesso in artroscopia all’interno della spalla sulla testa omerale, in modo da sopperire alla lesione della cuffia. Viceversa la tecnica del balloon prevede l’inserimento all’interno della cuffia, sempre in artroscopia, di un palloncino riassorbibile che viene gonfiato con soluzione fisiologica. Tale dispositivo funge da spaziatore biologico e permette, in sede di fisioterapia, di ricentrare la testa dell’omero che spesso in caso di lesione importante risulta spostata dalla sua sede naturale. In questo modo si migliora la biomeccanica della spalla e si recupera la funzionalità del muscolo deltoide.
Infine la tecnica più recente e innovativa è rappresentata dalla ricostruzione della capsula superiore. La dinamica è simile a quella del balloon, solo che come spaziatore biologico viene usata una membrana di cute suina, inserita in artroscopia tra la glena e la testa dell’omero. Questa patch permette il ritensionamento del tendine e il recupero della funzionalità della cuffia, tra l’altro con un follow up che spesso risulta più breve.
“Al Sacro Cuore pratichiamo da tempo tutte queste tecniche. In particolare per il balloon e la ricostruzione con cute suina siamo stati tra i primi a livello nazionale – dice il dottor Avanzi – Gli interventi con balloon sono stati un centinaio dal 2009 in avanti, mentre le ricostruzioni con materiale biologico sono state circa duecento, di cui una decina con la cute suina che è di recente introduzione, prima invece si usavano altre patch”. Un’attenzione al biologico, quella dell’Ortopedia del Sacro Cuore, che prosegue da tempo e vede il dottor Zorzi e la sua equipe tra i pionieri non solo per la spalla ma anche per il ginocchio (vedi articolo sulla chirurgia rigenerativa della cartilagine).
Ma le tre tecniche illustrate vanno bene per tutti i pazienti e per tutte le lesioni irreparabili della cuffia? “In realtà è fondamentale una valutazione caso per caso – conclude Paolo Avanzi – Ad esempio nel paziente giovane e attivo, con lesione superiore e postero-superiore della cuffia, è indicato il transfer del gran dorsale. Viceversa nell’anziano con un inizio di artrosi sono più indicati il balloon o la ricostruzione. Ma ogni caso fa storia a sé e da parte del chirurgo ci vuole uno sforzo di analisi personalizzata del paziente, con la disponibilità ad usare ognuna di queste tecniche. Proprio questo sarà il messaggio di fondo al centro del corso del 7-8 luglio. Tanto più che l’uso di una tecnica non esclude l’altra, e se una non ha dato i risultati sperati dopo qualche anno se ne può provare un’altra”.
La prima parte del corso, in programma al Sacro Cuore in Sala Perez, prevede una serie di interventi frontali e un collegamento in diretta con la sala operatoria dove verranno mostrati tre interventi, uno per ogni tecnica illustrata. Questa parte è rivolta non solo ai chirurghi della spalla ma anche a fisiatri, medici sportivi, fisioterapisti e in generale tutti coloro che possono aver a che fare con pazienti affetti da questa patologia anche in sede di riabilitazione. Infatti la riabilitazione è fondamentale e varia a seconda dell’intervento che viene fatto in sede chirurgica.
La seconda parte, a numero chiuso, si svolgerà presso la sede dell’Iclo a Verona, con una dimostrazione pratica di transfer del gran dorsale realizzata su un cadavere. Il corso ha il patrocinio dell’ESA (European Shoulder Associates) e dell’ESSKA (European Society for Sports Traumatology, Knee Surgery and Arthroscopy).
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Sclerodermia: la malattia dalle mani bianche
l 29 giugno è la Giornata mondiale della sclerodermia, la malattia reumatica autoimmune di cui non si conoscono le cause e per cui non esistono farmaci. A Negrar un Ambulatorio per la diagnosi e il trattamento precoce al fine di evitare gravi complicanze
La parola è uno di quei termini medici difficili da pronunciare, ma il suo significato descrive immediatamente come si presenta questa patologia cronica ed evolutiva che fa parte delle malattie reumatiche autoimmuni. Infatti chi è affetto da sclerodermia, soffre molto spesso di un ispessimento della cute, di “pelle dura” (questo il significato del termine) soprattutto delle dita delle mani, ma non solo.
Il 29 giugno è la Giornata mondiale dedicata alla malattia, la cui frequenza nella popolazione generale (prevalenza) è compresa tra 10-20 casi per 100mila persone, con la comparsa di 1-2 nuovi casi all’anno ogni 100mila abitanti. La sclerodermia è più frequente nelle donne, in genere inizia tra i 15 e i 45 anni, ma può manifestarsi a qualsiasi età.
Non si conoscono le cause
La sclerodermia si verifica a partire da un processo infiammatorio, di cui non si conoscono le cause, che inizia dalle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni. Questo processo provoca un’alterazione della microcircolazione e dell’irrorazione sanguigna nella cute e negli altri organi che a sua volta porta ad un’esagerata produzione di collagene, di cui è ricco il tessuto connettivo, con conseguente fibrosi progressiva.
Non ci sono farmaci specifici
Rimanendo sconosciuti i meccanismi patogenitici per la sclerodermia, a differenza delle altre malattie reumatiche, non sono a disposizione terapie mirate. I farmaci disponibili oggi si limitano a rallentare l’evoluzione della malattia e la comparsa delle complicanze, anche molto gravi che possono interessare perfino gli organi interni.
La forma limitata e quella diffusa
Infatti tenendo distinta la sclerodermia localizzata – che si cura dermatologicamente – la sclerosi sistemica o sclerodermia viene distinta, in base all’interessamento cutaneo, in forma limitata e forma diffusa. La prima, che è la più frequente, ha un esordio graduale e si limita alla cute delle estremità degli arti inferiori e superiori. Mentre la seconda si presenta spesso con indurimento e fibrosi della pelle estesi a tutto il corpo e può comparire anche un interessamento cardiopolmonare e renale di difficile gestione e trattamento.
Fondamentale è la diagnosi precoce
“Pertanto diventa imperativo giungere ad una diagnosi tempestiva e precoce della malattia sclerodermica – spiega il dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria – riconoscendo il sintomo di esordio più precoce che è il Fenomeno di Raynaud. Esso consiste in un marcato vasospasmo delle arteriole terminali delle mani o dei piedi per lo più scatenato dall’esposizione al freddo, da situazioni di stress emotivo, dal fumo, dall’assunzione di taluni farmaci vasocostrittori (betabloccanti) e da attività lavorative che richiedono l’uso di attrezzi che vibrano, come i martelli pneumatici”.
Quelle mani bianche
Classicamente il Fenomeno di Raynaud si manifesta con il pallore intenso delle mani, seguito da cianosi (colore violaceo della pelle) e da un’ultima fase di vasodilatazione. La persona che ne soffre avverte una sensazione dolorosa intensa con formicolio, perdita temporanea della sensibilità all’estremità delle mani e dei piedi , ma talora anche a livello del naso e della lingua.
Il Morbo e il Fenomeno di Raynaud
“Di fronte al fenomeno delle dita bianche e blu nei giovani e adulti – riprende il dottor Marchetta – è necessario fare diagnosi differenziale tra Morbo di Raynaud (sintomo clinico senza segni di connettivite) e Fenomeno di Raynaud (quando si accompagna alla presenza di autoanticorpi e alterazioni del microcircolo). Tuttavia in presenza di un Morbo di Raynaud intenso e ripetuto è opportuno attivare un trattamento farmacologico adeguato per prevenire possibili fatti ischemici acuti e ulcere digitali”.
La diagnosi: la videocapillaroscopia
L’esame diagnostico per eccellenza è la videocapillaroscopia, che viene effettuato presso il Servizio di Reumatologia tutti i lunedì mattina. Si tratta di una procedura non invasiva e completamente indolore che si basa sull’osservazione diretta della zona attorno alle unghie delle dita delle mani per mezzo di una lente di ingrandimento immersa in olio di cedro. Nelle persone sane i capillari hanno una forma ordinata e regolare, mentre in presenza del Morbo o del Fenomeno di Raynaud, si rilevano delle caratteristiche alterazioni dei capillari che viene definito “scleroderma pattern” . In questo caso vengono ricercati gli autoanticorpi specifici (ANA, ENA) e a seguire si fa la valutazione Reumatologica. All’anno il Servizio effettua circa 300 videocapillaroscopie.
L’Ambulatorio per la sclerodermia e disturbi del microcircolo
Il paziente con sclerodermia e disturbi del microcircolo viene poi preso in carico a Negrar dall’Ambulatorio divisionale gestito dalla dottoressa Cinzia Scambi (nella foto con il dottor Marchetta) ogni martedì mattina. Nell’Ambulatorio viene effettuato il completamento diagnostico volto alla stadiazione della malattia e al follow-up delle complicanze con videocapillaroscopia, Rx del torace, ecocardio, spirometria, esame del tubo digerente, ecografia osteoarticolare e funzionalità renale. La dottoressa Scambi è anche responsabile del Day Hospital terapeutico della Reumatologia che dispone di 10 postazioni infusive in cui vengono somministrati anche i farmaci per la sclerodermia. L’Ambulatorio segue circa 200 pazienti e sono una ventina i nuovi casi all’anno di sclerodermia.
“L’esperienza in questo ambito ci permette di poter affermare che la diagnosi precoce della sclerodermia è possibile con indagini semplici e mirate. L’utilizzo precoce di prostanoidi (forti farmaci vasodilatatori) in infusione ci ha consentito di ottenere ottimi risultati e di scongiurare la comparsa delle temibili ulcere cutanee alle dita delle mani e dei piedi oltre che rallentare la comparsa delle complicanze della sclerodermia”, conclude il dottor Marchetta.
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