Comitato Italiano Paralimpico e "Sacro Cuore" insieme per lo sport senza barriere

Viene ufficializzato oggi a Negrar un accordo tra il Dipartimento di Riabilitazione del “Sacro Cuore” e il Comitato Italiano Paralimpico per favorire la pratica di sport a livello anche agonistico tra i pazienti con disabilità motoria acquisita

L’esempio più eclatante è quello di Bebe Vio, che a causa di una meningite fulminante ha perso molte delle proprie funzionalità motorie, ma non si è arresa e ha trovato nello Fioretto una grande occasione di rinascita, fino a diventare un simbolo di tutto lo sport italiano. Di storie come la sua ce ne sono tante, magari meno note ma ugualmente straordinarie. Come quella di Federico Falco, costretto su una sedia a rotelle a seguito di un incidente, ricoverato per lungo tempo presso la il Dipartimento di Riabilitazione dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e oggi nazionale di tennistavolo paralimpico, pronto per partecipare alle olimpiadi di Tokyo 2020.

 

Altre storie come queste potrebbero nascere grazie ad una nuova convenzione tra ospedale di Negrar e il Comitato Italiano Paralimpico (CIP), per promuovere lo sport tra i pazienti che hanno acquisito una disabilità motoria in seguito ad un trauma e sono ricoverati nel reparto di Riabilitazione del nosocomio della Valpolicella. L’accordo sarà ufficializzato oggi al “Sacro Cuore Don Calabria”, in concomitanza con una gara di orienteering organizzata all’interno dell’ospedale per i pazienti dell’Unità Spinale. Sarà presente anche il vicepresidente del CIP Veneto, Giovanni Izzo.

 

La convenzione prevede che il CIP metta i propri tecnici a disposizione dei pazienti della Riabilitazione interessati a intraprendere uno sport paralimpico, offrendo loro una consulenza e, quando necessario, anche la strumentazione necessaria alla pratica scelta. I destinatari sono in particolare i pazienti adulti con patologie neurologiche (mielolesioni, gravi cerebrolesioni acquisite, malattie cerebrovascolari) in carico presso il “Sacro Cuore Don Calabria”.

 

L’idea alla base dell’iniziativa è che lo sport, praticato a livello amatoriale o agonistico, offra un grande supporto alla riabilitazione delle persone con una disabilità motoria acquisita, contribuendo al mantenimento dello stato di salute e alla prevenzione di ulteriori problemi. “All’interno del nostro reparto proponiamo già da tempo appuntamenti settimanali con la pratica sportiva amatoriale e collaboriamo già con molte società del territorio che fanno parte della Federazione Sport Paralimpici, come basket, tennistavolo, nuoto, tiro con l’arco e altri – spiega il dottor Renato Avesani, direttore del Dipartimento di Riabilitazione – ora con questa convenzione pensiamo di proporre, naturalmente solo per chi lo desidera, un avvio ad un’attività anche agonistica con tecnici e strumenti adeguati”.

 

Proprio la gara di orienteering in programma oggi alle ore 14 nel giardino dell’ospedale (ritrovo ore 13) rappresenta la conclusione delle attività extraospedaliere, in particolare sportive, praticate durante l’anno dai pazienti dell’Unità Spinale, diretta dal dottor Giuseppe Armani. Durante l’evento gli utenti in carrozzina saranno impegnati su un percorso disegnato appositamente all’interno dell’ospedale. La gara si svolgerà su 15 punti distribuiti tra spazi comuni interni e parco esterno del nosocomio. La partecipazione sarà a coppie, in quanto ogni utente sarà affiancato da un volontario, anch’egli in carrozzina, del Galm Verona (Gruppo di Animazione dei Lesionati Midollari), associazione che da molti anni collabora con l’Ospedale e che, proprio all’interno del Servizio di Riabilitazione, ha uno sportello settimanale con presenza del suo presidente, Aldo Orlandi. Con questa presenza ed altre iniziative si occupa di dare supporto a coloro che sono affetti da lesione al midollo spinale a Verona e provincia.

 

matteo.cavejari@sacrocuore.it

 


Avviso di selezione per medici infettivologi

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L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria indice una selezione riservata a medici specialisti in malattie infettive o titoli affini per attività di ricerca clinica presso il Dipartimento di malattie infettive e tropicali

È indetta una selezione, per titoli ed eventuale colloquio, finalizzata alla stipulazione di n. 4 contratti di prestazione d’opera, ai sensi degli artt. 2222 e segg. del codice civile, sotto forma di rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, riservato a medici specialisti in malattie infettive o titolo affine e finalizzato all’espletamento di attività clinica e di ricerca e presso il Dipartimento di Malattie infettive etropicali dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore – Don Calabria, nell’ambito del Progetto “Miglioramentodell’approccio diagnostico e della gestione delle NTDs in area endemica e non”.

In allegato (link) l’avviso di selezione con la modalità e i termini di presentazione della domanda (ENTRO IL 15 SETTEMBRE 2018). Per maggiori informazioni di carattere tecnico contattare il professor Zeno Bisoffi (zeno.bisoffi@sacrocuore.it, tel. 0456013326) o la dottoressa Dora Buonfrate (dora.buonfrate@sacrocuore.it, tel. 0456013326)


La prevenzione di alcuni tumori inizia dai vaccini

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L’Incontro oncologico del Triveneto affronta al “Sacro Cuore” la correlazione tra le infezioni provocate da alcuni virus e batteri e certe forme tumorali: l’efficace arma contro il cancro dei vaccini anti-Papilloma Virus e contro il virus dell’epatite B

Tra i fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza dei tumori vi sono le infezioni. Si stima infatti che l’8,5% delle neoplasie in Italia sia dovuto all’azione oncogena di virus e batteri (dati AIOM 2017).Tra questi il Papilloma Virus 16-18 è responsabile del cancro della cervice uterina; l’Epstein-Barr Virus per le lesioni linfoproliferative e del cavo orale; l’Herpes-Virus 8 per il sarcoma di Kaposi e linfomi; l’Helicobacter Pylori per il carcinoma allo stomaco e il linfoma MALT; il virus dell’epatite B e C per il carcinoma epatocellulare. Le infezioni parassitarie da Trematodi diffuse nel Sud del mondo sono chiamate in causa per il colangiocarcinoma e quelle da Schistosoma per il carcinoma della vescica.

 

Prevenire le infezioni anche con i vaccini attualmente a disposizione, contrastarle o bloccarle significa in questi casi prevenire la forma neoplastica di cui sono causa. Di “Tumori e agenti infettivi” si parlerà venerdì 7 settembre all’IRCCS-Ospedale Sacro Cuore Don Calabria nel 42° incontro oncologico del Triveneto, promosso dal Coordinamento organizzativo ed educazionale della Rete Oncologica Veneta.

Coordinato scientificamente dalla dottoressa Stefania Gori, presidente degli oncologi italiani e direttore dell’Oncologia Medica di Negrar, l’incontro vede come relatori specialisti del Cancer Care Center e del Dipartimento Malattie infettive e tropicali del “Sacro Cuore”, ma anche provenienti dall’Istituto Oncologico Veneto, dal Centro di Riferimento Oncologico di Aviano, dall’ospedale San Bortolo di Vicenza e dal Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna(programma allegato).

 

“Affronteremo la correlazione tra virus-cancro e tra batteri-cancro a 360° – spiega la dottoressa Gori -. Quindi tratteremo non solo i meccanismi che portano un’infezione ad essere causa di un tumore, ma anche le modalità di prevenzione primaria e secondaria di alcuni tumori (per esempio provocati da Papilloma Virus-HPV). Affronteremo anche – prosegue – le problematiche del trattamento antitumorale dei pazienti con infezioni croniche ed una sessione sarà dedicata alla cura del paziente oncologico sieropositivo o con AIDS conclamata. E’ fondamentale sottolineare – conclude la presidente AIOM – che oggi grazie al vaccino contro l’HPV abbiamo la possibilità di abbattere drasticamente le infezioni provocate da questo virus e le forme tumorali ad esse correlate, quali il tumore al collo dell’utero, alla vulva, alla vagina e ad altre parti del corpo come ano, pene, distretto testa-collo. E grazie al vaccino contro l’epatite B possiamo fare altrettanto per combattere il tumore del fegato. Sono vaccini sicuri: vaccinarsi e vaccinare i nostri figli oggi significa chiudere la porta in futuro a queste forme neoplastiche”.

 

Il Papilloma (HPV) e i virus che provocano l’epatite B (HBV) e l’epatite C (HCV) sono gli agenti infettivi più noti ad azione oncogena.


Il Papilloma Virus Umano

L’HPV infatti è la causa principale del tumore della cervice uterina.Non esiste la possibilità di insorgenza di questo tipo di cancro senza la presenza e l’azione trasformante di alcune forme di virus ad alto rischio oncologico come i genotipi 16 e 18. Nel 2017 sono stati stimati in Italia 2.300 casi di cancro alla cervice. Ma l’HPV ha un ruolo causale per i tumori di vulva (1.200 casi), vagina (200 casi), pene (500 casi), ano (300 tra maschi e femmine), cavità orale (4.600 casi tra maschi e femmine) e orafaringe (1.900 casi tra maschi e femmine). Se grazie al programma di screening che prevede il Pap test gratuito ogni tre anni per le donne da 25 ai 64 anni i casi di tumore alla cervice uterina sono drasticamente diminuiti in Italia, nel mondo si stimano circa 500.000 nuovi casi all’anno e 250.000 decessi dovuti a carcinoma della cervice; l’80% dei casi e oltre 85% delle morti avviene nei Paesi poveri.

Le infezioni da HPV si trasmettono per via sessuale e sono molto frequenti: il 75% delle donne sessualmente attive si infetta nel corso della vita, anche se poi la maggior parte della infezioni è transitoria, perché il virus viene eliminato dal sistema immunitario.

 

In Italia è offerto gratuitamente e attivamente dal Servizio sanitario Nazionale il vaccino anti-HPV che viene somministrato in due dosi alle ragazze e ai ragazzi nel corso del 12° anno di età. Sono disponibili tre diversi vaccini contro l’infezione da HPV: il bivalente che contiene i sierotipi 16 e 18, responsabili della maggior parte delle forme neoplastiche; il tetravalente, contenente oltre ai sierotipi 16 e 18, anche i sierotipi 6 e 11, causa dei condilomi (lesioni benigne di natura infettiva che compaiono nella zona genitale femminile e maschile), e il 9-valente, utile verso i tipi di Papillomavirus 6, 11, 16, 18, 31, 33 45, 52, 58 per prevenire il 90% dei ceppi oncogeni. Il vaccino non sostituisce il Pap-test perché non copre tutti genotipi di HPV che possono provocare il cancro.

 

Virus dell’epatite B e C ed epatocarcinoma

Oltre il 70% dei casi di tumori primitivi del fegato (nel 2017 sono stati stimati 13mila nuovi casi) è riconducibile a fattori di rischio noti, in primis collegati alla prevalenza dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV) e dell’epatite B (HBV). Entrambi i virus vengono trasmessi attraverso l’esposizione a sangue infetto o a fluidi corporei come sperma e liquidi vaginali. Inoltre l’epatite B può essere trasmessa dalla madre infetta al neonato. Se per l’epatite C non esiste un vaccino ma farmaci molto efficaci che portano alla guarigione nella maggioranza dei casi, per l’epatite B è un commercio da tempo un vaccino che viene somministrato gratuitamente in Italia dal Servizio Sanitario Nazionale al 3°, 5° e 11° mese di vita del bambino. Negli adolescenti e negli adulti si somministrano tre dosi al tempo 0 e dopo 3 e 6 mesi.

 

Altri virus oncogeni

Il congresso del 7 settembre si occuperà anche della correlazione tra il virus Epstein-Barr (EBV- responsabile della mononucleosi) e i linfomi; dell’Herpes Virus 8 (HHV8) e sarcoma di Kaposi che può manifestarsi con delle lesioni a livello di cute, mucose e organi interni; il Polyomavirus (MCV) e carcinoma a cellule di Merkel, una neoplasia neuroendocrina altamente maligna della cute che colpisce soprattutto le persone anziane e /o con una storia di immunodepressione; l’Human T-cell hymphotropic Virus type 1 responsabile del Linfoma a cellule T.

 

 

Non solo virus

L’infezione da Helicobacter Pylori (Hp) è il principale fattore di rischio per l’ulcera peptica ma anche per il tumore allo stomaco. La gastrite cronica provocata da HP induce una riduzione di fattori antiossidanti e una aumentata attività proliferativa ghiandolare, condizione di rischio per la successiva comparsa di tumore. Per l’eradicazione dell’HP ormai da molti anni, si utilizzano associazioni antibiotiche (la cosiddetta triplice terapia) a base di amoxicillina-claritromicina (o amoxicillina-metronidazolo), in associazione ad un inibitore della pompa protonica (la cosiddettatriplice). Purtroppo l’efficacia di tali terapie è in forte diminuzione in tutto il mondo per l’aumento della resistenza alla claritromicina. Attualmente in aree con elevata resistenza a questo antibiotico vengono raccomandati, come terapia di prima linea, i trattamenti con quadruplice terapia contenente anche bismuto. I tumori allo stomaco diagnosticati nel 2017 sono stati circa 13.000, la maggior parte dei quali in stadio avanzato. Proprio per questo motivo la prevenzione basata anche sull’eradicazione dell’HP rappresenta una modalità di lotta di questo tumore.


Servizio Civile al Sacro Cuore: parte il nuovo progetto

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È aperto il bando di selezione per nove giovani che svolgeranno il Servizio Civile presso Casa Nogarè, Casa Perez e Casa Clero a partire dall’autunno 2018. C’è tempo fino al 28 settembre per presentare la domanda di partecipazione

La musica come punto di partenza per risvegliare ricordi ed emozioni e per costruire una relazione profonda tra giovani e anziani. È questo il cuore del nuovo progetto di servizio civile nazionale che si svolgerà all’interno della Cittadella della Carità di Negrar a partire dall’autunno 2018, intitolato non a caso “Accordi e ricordi: sullo spartito delle emozioni”.

 

Il progetto prevede l’inserimento di nove volontari in servizio per un anno nelle tre residenze dell’area socio-sanitaria della Cittadella: Casa Nogarè (3 posti), Casa Perez (4 posti) e Casa Clero (2 posti). Il bando di selezione per i volontari è aperto fino al 28 settembre e possono partecipare tutti i giovani e le giovani di età compresa fra i 18 e i 28 anni. Per presentare la propria candidatura bisogna mandare un’e-mail a csocialeperez@sacrocuore.it oppure educatrici@sacrocuore.it o ancora contattare telefonicamente il numero 045.6013066 (Mauro Cordioli) o 045.6013656 (Laura Dall’Ora). Per maggiori informazioni sul Servizio Civile si può consultare il sito www.serviziocivile.gov.it/.

 

Non sono richieste competenze specifiche ai volontari, se non la voglia di mettersi in gioco e la disponibilità a costruire una relazione con il personale e con gli utenti delle strutture. I volontari saranno impegnati in affiancamento agli educatori in varie attività: incontri d’equipe, colloqui con gli ospiti, accompagnamento degli ospiti nei loro spostamenti, predisposizione degli spazi e dei materiali per le attività, supporto al personale addetto agli interventi socio-educativi, affiancamento durante i pasti, accompagnamento nelle uscite… Con il minimo comun denominatore della musica in molti dei momenti trascorsi insieme agli ospiti (vedi sintesi progetto).

 

Un’attenzione particolare sarà dedicata alla formazione generale e specifica. La parte generale sui valori del servizio civile verrà svolta insieme ai volontari operativi nelle altre case dell’Opera Don Calabria (vedi pagina del Servizio Civile dell’Opera Don Calabria). La parte specifica sulla Cittadella della Carità si svolgerà invece a Negrar.

 

“Sono diversi anni che proponiamo progetti di Servizio Civile e finora i ritorni sono sempre stati molto positivi, sia per i giovani che hanno partecipato sia per gli ospiti delle nostre Case – dice Mauro Cordioli, educatore presso Casa Perez e referente del progetto – i volontari che arrivano qui hanno modo di interfacciarsi con le varie professionalità presenti nell’ospedale e possono sperimentare com’è organizzato il lavoro e quali sono le attitudini richieste per lavorare in questo campo. Ma la ricchezza maggiore, naturalmente, è quella che deriva dal rapporto con gli ospiti”.

 

L’impegno richiesto è di 30 ore alla settimana, distribuite su 6 giorni, con una certa flessibilità richiesta nell’alternare mattine e pomeriggi. Il rimborso previsto è di 433,80 euro netti mensili. Una volta scaduto il bando, il 28 settembre, il personale della struttura valuterà le candidature pervenute e procederà a un colloquio con ogni candidato. A seguire verranno scelti i nove volontari e in autunno inizierà il servizio vero e proprio.


Artrite psoriasica: i farmaci che curano la pelle e le articolazioni

Oggi la Reumatologia dispone di molteplici armi per la cura della patologia, dagli antinfiammatori non steroidei ai farmaci biotecnologici fino alle piccole molecole. La terapia è come un abito su misura per ogni paziente

Unisce due patologie, ognuna delle quali di per sé comporta rilevanti conseguenze sul piano fisico e anche psicologico. Si tratta dell’artrite psoriasica, una malattia infiammatoria articolare cronica che presenta nella maggior parte dei casi un interessamento della cute e contemporaneamente dell’apparato osteo-articolare.

 

Si stima che il 3-4%% della popolazione soffra di psoriasi, la dermatite di origine autoimmune caratterizzata da placche rilevate di colore rosso acceso, rivestite da squame biancastre. Circa il 20-30% delle persone colpite da questa patologia dermatologica sviluppano anche l’artrite. In genere compare prima la psoriasi e anche decenni dopo (soprattutto nella fascia di età tra i 20 e i 40 anni) i primi sintomi dolorosi a livello delle articolazioni, accompagnati da calore, rossore e gonfiore. Raramente si manifesta prima l’artrite e ci sono casi di artrite psoriasica senza dermatite, ma sono persone che hanno una storia familiare di psoriasi.

 

Non solo pelle e articolazioni, ma anche cuore. Studi recenti hanno rilevato che un paziente affetto da psoriasi o da artrite psoriasica ha un aumentato rischio di incorrere in malattie cardiovascolari (ictus ed infarto). Infatti l’infiammazione accelera l’insorgenza di arteriosclerosi e in genere il paziente interessato da queste due patologie è obeso, iperteso, dislipidemico (tasso di colesterolo e trigliceridi alto), diabetico e fumatore. Fattori di rischio probabilmente generati da forme depressive o di isolamento, causate dalle difficoltà relazionali che incontrano i pazienti affetti dalla psoriasi, una malattia, che è bene sottolineare, non è assolutamente contagiosa.

 

Sintomi

“L’artrite psoriasica ha caratteristiche ben precise rispetto alla artrite reumatoide, sia per quanto riguarda i sintomi sia per le indagini di laboratorio”, precisa il dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia dell’IRCCS-Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. In genere i pazienti giungono dal reumatologo dopo essere stati sottoposti a una serie di esami tutti negativi ma lamentando dolori articolari in particolare alle mani che presentano le caratteristiche dita “a salsicciotto” (dattilite). Lo stato doloroso può essere tuttavia localizzato anche a livello delle piccole articolazioni dei piedi e delle grandi articolazioni (gomiti, ginocchia e caviglie: l’infiammazione protratta del tendine di Achille è un sintomo). E non risparmia nemmeno l’area lombare con un mal di schiena infiammatorio che si manifesta soprattutto di notte svegliando il paziente e migliorando con il movimento.

 

Diagnosi

“L’artrite psoriasica fa parte delle spondiloartriti sieronegative – spiega il dottor Marchetta – proprio perché gli esami non rilevano la presenza nel sangue del fattore reumatoide né degli anticorpi anti-citrullina (anti-CCP) che sono i marcatori dell’artrite reumatoide. Spesso sono negativi anche gli indici di infiammazione come la VES e la proteina C reattiva (PCR)”. Frequentemente, però, si registra un aumento nel sangue dell’acido urico dovuto all’attività delle lesioni cutanee. Quindi non è raro che nella storia clinica di un paziente affetto da artrite psoriasica ci sia una diagnosi pregressa ed errata di Gotta, basata su un’artrite (magari all’alluce) e sull’iperuricemia. “Diviene quindi fondamentale l’esame obiettivo e l’anamnesi del paziente soprattutto quando non presenta tracce di psoriasi nelle zone classiche come gomiti, ginocchia o viso. La psoriasi bisogna saperla cercare – sottolinea il medico -. Può essere localizzata ovunque anche all’interno degli organi genitali o sul cuoio capelluto e, quando attacca le unghie, può essere confusa con un fungo (onicopatia psoriasica). Nei casi in cui non vi è traccia, in genere sono pazienti che hanno familiari di primo o secondo grado affetti dalla patologia delle pelle o dall’artrite psoriasaca”. La diagnosi viene completata con l’aiuto della ecografia osteo-articolare per le piccole e grandi articolazioni e della risonanza magnetica se il dolore interessa la colonna.

 

Terapia

Una diagnosi e un trattamento precoce dell’artrite psoriasica possono aiutare a prevenire o limitare il danno articolare che compare negli stadi avanzati della malattia. La terapia è consigliata dal reumatologo in base alla storia clinica del paziente, alla severità del coinvolgimento articolare e alla tollerabilità dei farmaci che hanno l’obiettivo di alleviare il dolore, ridurre il gonfiore e prevenire il danno alle articolazioni. Questi i farmaci oggi a disposizione.

 

FANS e COXIBS

Secondo le linee guida, in prima istanza si utilizzano i farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) e i COXIB (inibitori della ciclo-ossigenasi) al bisogno e per brevi cicli. Essi non curano la malattia ma sono efficaci nel controllare il dolore e la rigidità articolare; agiscono rapidamente e il loro effetto si esaurisce dopo poche ore o nell’arco della giornata, per cui vanno assunti in maniera continuativa.

Farmaci di fondo

Qualora i FANS e i COXIB perdano efficacia o non sono tollerati (tra gli effetti collaterali: ipertensione arteriosa, disturbi gastroenterici, riduzione della diuresi) o la malattia mostra tendenza alla progressione è necessario iniziare l’uso dei farmaci di fondo (DMARDs), così chiamati perché agiscono anche sul gonfiore e sul danno articolare modificando il decorso della patologia. I più utilizzati: il metotrexate, la ciclosporina e la leflunomide, che possono essere usati anche in associazione tra loro. Essendo degli immunosoppressori possono avere degli effetti collaterali sulle cellule del sangue, del fegato e dei reni e quindi è necessario effettuare dei prelievi periodici per controllare eventuali alterazioni della funzione di questi organi.

 

Farmaci biotecnologici

Se anche i farmaci di fondo non danno i risultati sperati, da oltre venti anni sono disponibili i farmaci biotecnologi, prodotti dall’ingegneria genetica. Sono anticorpi monoclonali che si oppongono a una citochina (molecola proteica) molto importante nei processi infiammatori chiamata TNF-alfa (Tumor Necrosis Factor alfa). Tra i primi ad essere utilizzati l’infiximab, l’adalimumab e l’etanercept. Tali farmaci hanno efficacia anche nel trattamento della psoriasi e nelle gran parte dei pazienti si verifica una remissione della malattia anche per lungo tempo.

Da qualche anno sono a disposizione ulteriori farmaci, biotecnologici e non, molto più mirati e selettivi per la psoriasi e la artrite psoriasica che vanno a bloccare delle citokine diverse dal TNF-alfa. Si tratta dello ustekinumab (a somministrazione ogni 3 mesi) e del recente secukinumab (a somministrazione mensile). Infine l’apremilast (non biotecnologico, appartenete al numeroso gruppo delle cosiddette “piccole molecole “) in formulazione orale ( compresse).

 

“L’armamentario terapeutico oggi a disposizione del reumatologo per la cura della artrite psoriasica è assai ampio e il suo compito, non semplice, è quello di scegliere il farmaco più adatto al singolo paziente come un abito su misura”, conclude il dottor Marchetta.

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West Nile: l'identikit del virus del Nilo Occidentale

Viene trasmesso dalla puntura della zanzara Culex: l’80% delle persone infettate non sviluppa sintomi. Cosa fare per proteggersi e se insorge una febbre estiva, soprattutto se accompagnata da torpore e stato confusionale

La febbre del Nilo Occidentale è provocata dal virus West Nile, isolato per la prima volta in Uganda nel 1937 e arrivato negli anni ’90 del secolo scorso prima negli Stati Uniti e poi in Europa tramite le migrazioni di uccelli (in particolare passeriformi e corvidi) che sono gli ospiti definitivi di questo Flavivirus.

La trasmissione del virus

I vettori della trasmissione del virus sono le zanzare che appartengono al genere Culex, le comuni zanzare che vivono anche in Italia. Il virus, giunto tramite gli uccelli migratori, è così diventato autoctono nel nostro Paese, dove dieci anni fa sono stati segnalati i primi casi umani (in Veneto e Emilia Romagna). La zanzara infetta trasmette il virus agli animali mammiferi (in particolare ai cavalli) e all’uomo. Pertanto il contagio non avviene da uomo a uomo e le zanzare non si infettano pungendo una persona già colpita dal virus. Il periodo di incubazione dopo la puntura di zanzara è di 2-14 giorni.

Cosa provoca il virus

Su 2.500 persone infettate da West Nile, circa 2000 sono asintomatiche, 490 accusano sintomi simil-influenzali (febbre, male alle ossa, stanchezza, cefalea…), 9 sviluppano la forma neuroinvasiva (meningite, encefalite o paralisi flaccida) che viene superata con o senza sequele; una va incontro a decesso. Il rischio di malattia neuroinvasiva è più elevato fra gli adulti oltre i 60 anni e nelle persone con il sistema immunitario debilitato a causa di altre patologie. Quest’anno il numero dei casi di infezione (quindi anche il numero delle forme neuroinvasive) è particolarmente alto in Italia in quanto il proliferare delle zanzare è stato favorito da un’estate calda e umida iniziata già a giugno.

La febbre: cosa fare

Una febbre “influenzale” fuori stagione, priva di cause, deve sempre suscitare una certa attenzione. Se i sintomi persistono e soprattutto se insorge torpore e uno stato confusionale è fondamentale recarsi presso un reparto di Malattie Infettive per eseguire il test per il West Nile.

Terapia

Non esistono farmaci specifici, ma solo finalizzati ad alleviare i sintomi (come gli antipiretici e gli antiinfiammatori). Non è nemmeno disponibile un vaccino.

Prevenzione

Il controllo della diffusione del virus è possibile solo con la lotta alle zanzare. Nel 2010 la Regione Veneto ha istituito un progetto pilota per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie trasmesse dalle zanzare: West Nile, Zika, Dengue e Chikungunya) il cui responsabile scientifico è l’IRCSS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e a cui collaborano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e l’Istituto di Microbiologia e Virologia di Padova. Esso prevede la segnalazione del caso di infezione entro le 12 ore dal sospetto diagnostico al Servizio Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Ulss competente per il territorio che può attivarsi, attraverso i Comuni, per la disinfezione della zona limitrofa all’abitazione del paziente o nel luogo dove si è probabilmente infettato. La disinfezione deve avvenire periodicamente soprattutto nelle aree in cui le trappole dell’Istituto Zooprofilattico hanno raccolto zanzare infette o dove il virus è stato isolato nei cavalli.Ogni cittadino da parte sua deve eliminare ogni fonte di acqua stagnante o trattarla con larvicidi, in quanto ambienti ideali per il deposito delle uova e lo sviluppo delle larve di zanzare. Soprattutto dopo il tramonto, se si è all’aperto, si raccomanda di utilizzare repellenti cutanei e di indossare un abbigliamento protettivo (maglie a maniche lunghe e pantaloni lunghi, possibilmente di colore chiaro). Zanzariere e repellenti per l’ambiente sono mezzi efficaci per proteggersi dalle punture in luoghi chiusi.

Donazione di sangue e organi

Le segnalazione dei casi di infezione assume notevole importanza per il controllo sulle donazioni di sangue e organi. Il Centro Nazionale del Sangue prevede la sospensione dalle donazioni di sangue di almeno 28 giorni per tutti coloro che hanno soggiornato anche per una sola notte nella provincia dove sono presenti zanzare infette o in alternativa l’utilizzo del test NAT sulle sacche di sangue. Anche i donatori di organi vengono sottoposti allo screening. Sangue e organi infetti sono una via di trasmissione del West Nile molto pericolosa perché l’infezione andrebbe a colpire pazienti con un sistema immunitario depresso a causa della malattia o degli immunosoppressori per impedire il rigetto dell’organo.

Ha collaborato il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Dipartimento Malattie Infettive e Tropicali, diretto dal professor Zeno Bisoffi


Malattie infettive e tropicali confermato centro collaboratore dell'OMS

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rinnovato la collaborazione iniziata nel 2014 per la strongiloidosi e le malattie tropicali neglette, la cui ricerca caratterizza il neonato IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria

Il Dipartimento Malattie infettive e tropicali dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è stato confermato Centro collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Dopo quattro anni dalla designazione da parte del Direttore generale dell’OMS, l’Organizzazione che ha sede a Ginevra ha effettuato le verifiche periodiche e ha rinnovato la collaborazione all’Unità Operativa Complessa, diretta dal professor Zeno Bisoffi, per la strongiloidosi e le altre malattie tropicali neglette, i cui studi contraddistinguono il neonato Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.

I Centri collaboratori affiancano l’OMS in svariati ambiti: per esempio nella ricerca, nella stesura delle linee guida, nella raccolta e analisi di dati, nella diffusione delle informazioni scientifico-sanitarie, nel fornire pareri tecnici alla stessa OMS. “Nel nostro piano di attività avanziamo delle proposte e rispondiamo a delle richieste specifiche fatte dal Dipartimento delle malattie tropicali neglette dell’OMS che si occupa dei programmi di controllo di queste patologie nei Paesi in cui sono endemiche. Queste attività spesso riguardano lo sviluppo di test diagnostici da impiegare ‘sul campo’ o studi sui farmaci”, spiega la dottoressa Dora Buonfrate che assieme al professor Bisoffi dirige il Centro collaboratore di Negrar.

Sono 276 i Centri collaboratori dell’Oms in Europa, 28 in Italia, ed ogni Centro, oltre ad essere sottoposto a verifica ogni quattro anni, deve fornire annualmente un report sull’attività svolta. “Quello di Negrar è l’unico Centro collaboratore dell’OMS che si occupa di strongiloidosi: tra i nostri obiettivi vi è anche quello di fornire dati scientifici all’Organizzazione per dimostrare quanto sia fondamentale iniziare ad implementare sistemi di controllo per lo Strongyloides, il parassita responsabile della malattia”, sottolinea l’infettivologa.

Maggiormente diffusa in aree tropicali e subtropicali, la strongiloidosi è una malattia presente anche in Italia sebbene spesso misconosciuta. Negli ultimi dieci anni il Dipartimento di Malattie infettive e tropicali del “Sacro Cuore Don Calabria” ha diagnosticato diverse centinaia di casi (la più alta casistica in Italia), ma si stima che nel mondo siano almeno 360 milioni le persone infette e uno studio del 2006 ha dimostrato che nella parte settentrionale del nostro Paese sono migliaia i soggetti ammalati. Si tratta in gran parte di anziani, che si sono infettati, magari in gioventù o da bambini, camminando in campagna a piedi scalzi, o toccando con le mani terriccio contaminato da feci umane. Il sintomi possono essere banali (come un intenso prurito), ma in caso di immunodepressione la parassitosi può svilupparsi nella forma nota come disseminata, quasi sempre mortale. Fondamentale quindi la diagnosi precoce, da proporre prima di tutto a soggetti sintomatici o con aumento dei globuli bianchi eosinofili nel sangue.

Sempre per quanto riguarda la strongiloidosi, il Dipartimento del “Sacro Cuore Don Calabria” gestisce la Strongyloides Sharing Platform, una piattaforma informatica all’interno del sito web dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che riunisce i ricercatori di tutto il mondo interessati alla malattia parassitaria, per lo scambio di informazioni e di dati e per azioni comuni di sensibilizzazione verso questa patologia.

E’ di fatto una malattia negletta, cioè trascurata dalla ricerca pubblica e anche dalle case farmaceutiche in quanto non ha attrazione commerciale – afferma la dottoressa Buonfrate – . Una delle nostre proposte all’OMS condivisa da altri ricercatori è di inserirla nell’elenco delle neglected tropical diseases con l’obiettivo che venga così inclusa nei programmi di controllo nelle aree endemiche”.

Le malattie tropicali neglette sono una delle aree principali di ricerca dell’IRCCS di Negrar, tra queste la Schistosomiasi, la Malattia di Chagas e le filarie. L’ampia casistica e le ricerche effettuate dal Dipartimento hanno indotto l’Oms ad ampliare l’area di collaborazione con il “Sacro Cuore Don Calabria” rispetto a quattro anni fa, includendo assieme alla strongiloidosi non solo le altre parassitosi intestinali ma anche le patologie tropicali neglette.


Può anche non essere un banale svenimento

Perché si sviene? E quali sono gli esami che ne determinano le cause? Il cardiologo Molon spiega cosa provoca la sincope, come prevenirla e perché è bene rivolgersi sempre al medico quando si sviene per la prima volta

La testa gira, la vista si annebbia e le gambe non reggono. Ci si risveglia dopo pochi secondi a terra, il più delle volte con qualcuno che a suon di schiaffi “benevoli” ci riporta nel mondo reale. E’ il classico svenimento, ovvero, in termini medici, la sincope.

Soprattutto in estate – a causa delle alte temperature e della disidratazione – sono frequenti gli accessi al Pronto Soccorso di pazienti colpiti da questo evento, non grave di per sé, ma che però non deve essere banalizzato in quanto potrebbe essere un campanello di allarme di gravi patologie, in primo luogo cardiache.

“Sono le circostante in cui è avvenuto lo svenimento a darci indicazioni molto importati, cioè se siamo di fronte a una sincope a basso rischio oppure al sintomo di qualcosa di più serio”, spiega il dottor Giulio Molon che, con il dottor Alessandro Costa, si occupa della “Syncope Unit”, ambulatorio polispecialistico (prevede infatti la collaborazione di altri medici specialisti, come il neurologo) della Cardiologia del “Sacro Cuore Don Calabria” diretta dal professor Enrico Barbieri.

“Per sincope a basso rischio intendiamo lo svenimento causato da un brusco calo di pressione, accompagnato, o meno, da un rallentamento del battito cardiaco – sottolinea il cardiologo -. Sono le sincopi neuromediate, cioè provocate da un repentino cambiamento del sistema nervoso autonomo o vegetativo. Paradossalmente la sincope è un fattore protettivo del nostro cervello. Quando esso non riceve sangue a sufficienza, per proteggersi ‘spegne l’interruttore’. Con la caduta, infatti, il soggetto riequilibria la pressione e porta la perfusione cerebrale a livelli ottimali”.

In genere le sincopi neuromediate si manifestano in donne giovani ipotese, in anziani con la pressione molto bassa anche a causa del fatto che bevono poco o in adolescenti in fase di crescita. I fattori scatenanti possono essere forti emozioni, ansia, ambienti caldi, un dolore molto forte o semplici circostanze come, per esempio, un prelievo di sangue o la visita a un parente ammalato in ospedale. In questi casi il rischio maggiore è rappresentato dalle conseguenze della caduta a volte anche gravi.

Di altra gravità sono le sincopi in persone affette da malattie cardiache, come la cardiopatia ipertrofica o quella dilatativa. “Si stima che in questi pazienti, se non adeguatamente seguiti, gli episodi sincopali aumentano fino al 24% l’incidenza di morte improvvisa entro un anno dalla sincope”, precisa il dottor Molon.

Come viene effettuata la diagnosi differenziale della sincope? “L’esame elettivo per la diagnosi delle cause della sincope è l’Head Up Tilt Test (foto di copertina e Photo Gallery)- risponde il medico – La maggior parte dei pazienti che arriva a questo test ha già una probabile diagnosi di sincope neuromediata, in quanto è già stato sottoposto, in genere al Pronto Soccorso, alla visita cardiologica, agli esami del sangue e a un elettrocardiogramma che hanno escluso patologie importanti a livello cardiaco. Tuttavia può rimanere il dubbio che lo svenimento possa essere stato provocato, per esempio, da un difetto elettrico del muscolo cardiaco. In questi casi durante il Tilt Test e in concomitanza della sincope si manifesta, evidenziato dall’elettrocardiogramma, una sospensione del ritmo cardiaco che può durare anche decine di secondi. Sono i casi più gravi per i quali bisogna intervenire con terapie farmacologiche mirate o con un impianto di pacemaker o defibrillatore”.

Il Tilt Test ha lo scopo di riprodurre, in un ambiente protetto e sotto monitoraggio continuo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, un eventuale episodio sincopale e comprendere le cause che lo determinano. Il paziente viene posizionato su un lettino e messo in sicurezza tramite delle apposite imbragature. Il lettino viene poi alzato in verticale fino a raggiungere i 60°.

“In quella posizione il nostro organismo tende a reagire bene e a compensare il pulling venoso che si concentra agli arti inferiori – spiega ancora Molon -. Tuttavia nella gran parte dei pazienti che hanno avuto episodi sincopali, questi sistemi di compensazione cedono: la pressione crolla improvvisamente e si rallenta anche il ritmo cardiaco, causando la tipica sincope neuromediata”. Al contrario, se dopo 20 minuti nella posizione ortostatica, non si verifica nessuna sintomatologia significativa viene somministrata una compressa sublinguale di nitroglicerina che ha l’effetto rapidissimo di abbassare la pressione.

“Se anche con il farmaco il paziente resta cosciente e non riferisce particolari sintomi, è improbabile che si manifestino altri episodi sincopali. Se il dubbio diagnostico rimane e si verificano altre sincopi, si può decidere per l’impianto di ‘loop recorder’ (piccoli registratori sottocutanei per il monitoraggio, con durata fino a tre anni, del comportamento del cuore, ndr) per escludere importanti aritmie di cui il paziente non si accorge”.

Una volta diagnosticata la sincope neuromediata, la terapia consiste in semplici consigli di come prevenire o far “abortire” la sincope. “Se per esempio la causa dello svenimento è il prelievo di sangue – specifica il cardiologo – è sufficiente effettuare il prelievo in posizione supina e attendere alcuni muniti prima di alzarsi. La cosa più importante è non ignorare i sintomi che precedono la sincope: se la testa inizia a girare e la vista ad ingrigirsi è fondamentale sdraiarsi dove si è per non incorrere in brutte cadute. Infine, soprattutto d’estate, è necessario assumere molti liquidi per mantenere la pressione ai giusti livelli. Se il paziente mette in pratica questi piccoli accorgimenti, di solito la sincope resta un ricordo”.


elena.zuppini@sacrocuore.it


Che cos'è la pertosse? Sintomi, terapia e vaccino

Per la malattia contagiosa, che colpisce a qualsiasi età ma può essere molto pericolosa per i neonati, è disponibile un vaccino che in Italia è obbligatorio per i nati dal 2001 ed è raccomandabile, oltre che gratuito, per le donne in gravidanza

Che cos’è la pertosse

La pertosse è una malattia altamente contagiosa causata dal batterio Gram-negativo Bordetella pertussis. L’uomo è l’unico serbatoio noto del batterio, quindi la trasmissione del contagio avviene esclusivamente fra esseri umani tramite starnuti e colpi di tosse. Si stima che un malato possa infettare dal 50 al 100% delle persone con cui viene in contatto.

Quali sono i sintomi?

Primi sintomi compaiono dopo 7-10 giorni dal contagio. Nella prima settimana sono sintomi aspecifici: rinite, starnuti, tosse catarrale e febbre. Dalla seconda settimana compaiono i sintomi classici della pertosse: tosse violenta che termina con il caratteristico ‘urlo’ o con il vomito che può durare, anche se trattata, settimane, tanto che viene definita la “tosse dei 100 giorni”.

Quali soggetti colpisce?

L’infezione può essere contratta a qualsiasi età, ma colpisce prevalentemente entro i cinque anni di vita. Diventa molto pericolosa per i bambini sotto l’anno di età a causa delle complicanze come le sovrainfezioni batteriche, che possono portare a otiti, polmonite, bronchiti o addirittura affezioni neurologiche (crisi convulsive ed encefaliti). Nei neonati, inoltre, non si presenta con le classiche manifestazioni (accessi di tosse), ma con delle apnee della durata anche di 20 secondi che, interrompendo l’afflusso del sangue al cervello, possono provocare danni neurologici gravi. Nel 2% dei casi in bambini sotto l’anno la pertosse può essere mortale.

Come viene diagnosticata?

La patologia viene diagnosticata con l’analisi del tampone nasofaringeo per isolare il batterio o con la sierologia.

Come si cura?

La terapia consiste in un ciclo di antibiotici prevalentemente della famiglia dei macrolidi o dei sulfaminici. Se viene assunto prima della fase della tosse violenta, l’antibiotico abbrevia il tempo della contagiosità e la durata della malattia, ma i sintomi non sempre vengono ridotti. Per alleviarli vengono prescritti farmaci anti-tosse, sedativi e antispasmodici. Il ricovero è raccomandato per i bambini sotto un anno.

Il vaccino

Il vaccino anti pertosse è obbligatorio in Italia per tutti i nati dal 2001. Consiste in tre dosi nel primo anno di vita e in due richiami al compimento del sesto anno e del quattordicesimo. E’ un vaccino che garantisce una buona risposta immunitaria ma non prolungata nel tempo, ecco perché sono necessari più richiami. Il vaccino come i richiami possono essere effettuati a qualsiasi età. In Italia è raccomandata e gratuita la vaccinazione per le donne in gravidanza non vaccinate o non immuni (è possibile saperlo con un prelievo di sangue) alla 27esima e alla 36esima settimana, in quanto l’immunizzazione aumenta la quantità di anticorpi che la madre passa al bambino. In caso di mancata vaccinazione in gravidanza, è utile effettuarla anche nei primi tre mesi di vita del neonato, non solo per le mamme ma anche per tutti coloro che verranno in contatto con il piccolo. E’ il modo per creare una zona di sicurezza attorno al nuovo nato.

Hanno collaborato il dottor Andrea Angheben del Dipartimento di Malattie infettive e tropicali e il dottor Antonio Deganello, direttore della Pediatria del Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona)-IRCCS per le malattie infettive e tropicali


La nuova palazzina è arrivata al tetto

I lavori procedono ora con l’impiantistica, mentre la prossima fase prevede la posa dei pavimenti galleggianti e delle pareti interne mobili. Verso fine anno la chiusura delle pareti esterne

La nuova palazzina dell’ospedale è arrivata al tetto (vedi photogallery). Attualmente gli operai stanno sistemando i supporti per la gronda, che come da progetto sporgerà di 4 metri rispetto all’edificio.

 

I lavori procedono dunque nel pieno rispetto dei tempi previsti. Ora la parte esterna della palazzina non subirà modifiche sostanziali per alcuni mesi, mentre si procederà con i lavori all’interno: l’impiantistica sui vari piani, la posa del pavimento galleggiante e le pareti interne mobili. Nella fase successiva, verso fine anno, si comincerà a vedere la chiusura delle pareti esterne.

 

Una volta ultimata, la nuova palazzina fungerà da ingresso unico a tutti i percorsi all’interno del “Sacro Cuore Don Calabria”. La prima pietra era stata posata dal presidente del Veneto Luca Zaia e benedetta dal Casante padre Miguel Tofful lo scorso 4 ottobre in occasione della festa di San Giovanni Calabria (vedi articolo).

 

Al piano terra della struttura sarà realizzata la grande e unica hall dell’ospedale, mentre ai vari piani saranno ospitati il Centro Prelievi, gli ambulatori per visite ed esami pre-operatori, gli uffici amministrativi e quelli della direzione. Dalla palazzina partirà un tunnel coperto, anch’esso già in fase avanzata, che andrà a congiungersi con quello che oggi collega l’ospedale Don Calabria all’ospedale Sacro Cuore.