Vene varicose: la scleroterapia, ecco come funziona
Si tratta di un metodo assolutamente indolore che occlude la vena servendosi di un farmaco in schiuma. Al “Sacro Cuore Don Calabria” un corso rivolto agli specialisti sullo stato dell’arte di questa terapia ‘antica’, ma in continua evoluzione
La scleroterapia è, insieme alla chirurgia ed alle tecniche ablative (laser e radiofrequenza a microonde), una delle tre opzioni terapeutiche di cui dispone oggi il flebologo per il trattamento della malattia varicosa degli arti inferiori. Pur avendo origini antiche, la scleroterapia trova oggi rinnovato interesse grazie all’utilizzo dei farmaci sclerosanti sotto forma di schiuma e all’uso routinario dell’ecografia.
Il principio è sempre lo stesso: occludere le vene della circolazione superficiale (tronchi safenici – grande e piccola safena – e rami collaterali) che non sono più in grado di svolgere la funzione di ritorno del sangue verso il cuore. Questo accade quando, a causa di una debolezza congenita, le valvole, di cui sono dotati i vasi, diventano incontinenti dilatando di conseguenza la vena, che assume una forma tortuosa e fa ricadere il sangue verso il basso.
Questo “ristagno” di sangue determina i sintomi della malattia varicosa: gambe gonfie, pelle pigmentata di rosso, comparsa di dermatiti ed eczemi e, negli stadi più avanzati, formazione di ulcere. Possono manifestarsi anche flebiti, perché dove il sangue ristagna, facilmente coagula.
“Lo stato dell’arte della scleroterapia” sarà oggetto del corso riservato agli specialisti che si terrà venerdì 30 novembre e sabato 1 dicembre all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Promosso dal dottor Paolo Tamellini, responsabile della Unità Operativa Semplice di Flebologia della Chirurgia Vascolare, e inserito nel programma didattico della Scuola Italiana di Flebologia, l’appuntamento scientifico prevede nel pomeriggio del primo giorno gli interventi degli specialisti sulla diagnosi e sul trattamento con farmaci sclerosanti delle varici degli arti inferiori; nella mattinata del giorno successivo saranno trattati dei casi clinici in diretta video dalla sala operatoria (programma in allegato).
Tra gli interventi degli specialisti anche quello del dottor Lorenzo Tessari, medico veronese a cui si deve il cosiddetto “metodoTessari” per la creazione della schiuma sclerosante. Questa viene ottenuta mescolando il farmaco con l’aria atmosferica o con gas biocompatibili, tramite due siringhe collegate tra loro da un rubinetto a tre vie.
“La schiuma è decisamente più efficace del farmaco liquido – spiega il dottor Tamellini -. Mentre questo si diluisce nel sangue e scorre via con lo stesso, la schiuma ristagna e sposta, per così dire, il sangue, restando più a lungo a contatto della parete della vena. Di conseguenza con farmaci a concentrazione più bassa e in volumi molto minori, si riesce a trattare tratti molto lunghi del vaso. La schiuma inoltre è visibile all’ecografia, pertanto si riesce a monitorare in tempo reale il percorso del farmaco stesso”. Il trattamento è assolutamente indolore, viene effettuato in ambulatorio e non richiede anestesia. Il paziente può tornare da subito alle sue normali attività.
I relatori affronteranno anche alcune tecniche cosiddette “miste”, quali la MOCA (Ablazione Endovenosa Meccano-Chimica) e la SFALT (Sclero Foam Assisted Laser Treatment). La prima comporta la chiusura della vena attraverso l’introduzione di un catetere rotante che, danneggiando lo strato più interno del vaso, permette al farmaco sclerosante iniettato di essere più efficace. La seconda sfrutta l’azione sinergica del laser e della schiuma sclerosante per giungere allo stesso risultato.
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Al Pronto Soccorso dove le donne vittime di violenza chiedono aiuto
Al “Sacro Cuore Don Calabria” opera un’équipe formata alla presa in carico delle donne oggetto violenza: un approccio multidisciplinare con lo scopo di mostrare alla vittima che una via di uscita c’è sempre
Valentina (nome di fantasia) è una giovane donna separata con due figli. Ha conseguito due lauree, un Master e lavora per una grande azienda. Quando arriva al Pronto Soccorso di Negrar ha il bavero del trench firmato sporco di sangue e agli orecchi due grossi brillanti. “Adesso basta!”, sono le parole che pongono fine ad anni di violenza da parte del marito, ora ex. L’ultima ragione per picchiarla, l’ha trovata nel coraggio della donna di rivendicare gli alimenti per i loro figli, non versati da mesi per “mancanza di disponibilità”. Quel coraggio l’ha tirato fuori di fronte all’ennesima auto di grossa cilindrata, passione per la quale lui non badava a spese La reazione della madre dei suoi figli? Un affronto, quindi, e ancora, giù botte.
In occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulla donna, abbiamo voluto raccontare una delle tante storie raccolte in questi anni dagli operatori del Pronto Soccorso dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Una storia che rompe gli schemi della “leggenda” per cui la violenza di genere nasce nel disagio economico e nell’ignoranza.
Nel 2018 sono già 19, due in più rispetto all’anno scorso, le donne che prese in cura dai sanitari hanno riferito di atti di violenza da parte di un membro del nucleo familiare, quasi sempre il marito o il compagno. Otto sono straniere e undici italiane. Sono invece 50 coloro che sono state vittime di colluttazione, aggressione e percosse in generale. Tra queste anche una percentuale di donne che seppur vittime di violenza di genere, hanno negato l’evidenza.Visi e nomi differenti, italiane e straniere, ceti sociali più o meno abbienti, laurea e diploma di scuola media, dirigenti e casalinghe: cambia l’ambientazione, ma la violenza fisica e psicologica è sempre la stessa. Anche la paura è sempre la stessa. “Si stima che trascorrano sette anni prima che la donna chieda aiuto – afferma il direttore del Pronto Soccorso, Flavio Stefanini -. E le ragioni sono le più disparate: il terrore delle ritorsioni da parte del compagno, i problemi economici, la sudditanza psicologica, il timore di non saper prendesi cura da sola dei figli minori..”.
L’IRCCS di Negrar è uno dei sottoscrittori del protocollo “per la segnalazione e la presa in carico urgente di donne vittime di violenza”. A firmarlo nel 2017 anche Ulss 9 Scaligera-Distretto Ovest Veronese, i Comuni della stessa zona, e la Clinica Pederzoli di Peschiera. L’obiettivo è quello di “assicurare interventi urgenti di presa in carico e inserimento in strutture protette delle donne vittime di violenza affinché possano determinarsi nella scelta di uscire dalle situazioni di violenza”. Una parte codifica la prassi operativa dei Pronto Soccorso, il primo riferimento, dicono i dati, per un terzo delle donne vittime di violenza in Italia. Al protocollo si affiancano da tempo dei corsi del Coordinamento Regionale Emergenza Urgenza (CREU) con l’obiettivo di formare gli operatori alla presa in carico della donna, avviandola, con la collaborazione delle forze dell’ordine e dei servizi sociali, a un percorso di protezione immediato e non, presso le case di pronta accoglienza. Un compito non facile, perché gli operatori devono anche confrontarsi con donne, spesso straniere, che tendono a giustificare la violenza come un sistema di vita legato alla storia culturale.
Al Pronto Soccorso del “Sacro Cuore Don Calabria” opera un’équipe formata a questo scopo. E’ composta oltre che dal direttore, il dottor Stefanini, dalla dottoressa Cinzia Ferraro, dal caposala Ivano Giacopuzzi e anche dall’assistente sociale Francesca Martinelli. “La logica di un approccio multidisciplinare, sia medico che sociale – spiega la dottoressa Martinelli – è quella non tanto di convincere la donna a sporgere denuncia, la cui decisione può avvenire in un secondo momento. Ma di informarla che una via di uscita c’è, per lei e per i suoi eventuali figli, grazie a un rete di servizi dedicati sul territorio. Che esiste un circuito di protezione che può usufruire subito, ma anche nel tempo quando avrà maturato la decisione di prendere in mano la propria vita. Che la legge è dalla sua parte e la aiuterà in questo percorso”. E’ bene ricordare, infatti, che la donna può fare richiesta per l’assegno di mantenimento per i minori a carico; può avvalersi del patrocinio gratuito di assistenza legale; può usufruire di astensione dal lavoro retribuita (per un massimo di tre mesi su base giornaliera e nell’arco di tre anni) e della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a part time; infine il giudice su istanza di parte può assumere il provvedimento di allontanamento da casa il maltrattante. Tutte informazioni, insieme agli indirizzi del Centri anti-violenza (telefono Rosa e Petra), che vengono date alla donna al momento delle dimissioni dal Pronto Soccorso.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Si parla di apnee del sonno all'aperitivo con gli esperti
Venerdì 30 novembre al Centro Diagnostico Terapeutico si terrà un incontro dedicato alla Sindrome delle apnee ostruttive del sonno con gli interventi degli specialisti di Negrar e dell’Associazione Apnoici Italiani
E’ un aperitivo insolito quello che si svolgerà venerdì 30 novembre a partire dalle 19 presso il Centro Diagnostico Terapeutico di via San Marco 121. Una volta posati i bicchieri, si parlerà infatti della Sindrome delle apnee ostruttive del sonno (Obstruction Sleep Apnea Syndrome-OSAS), una vera e propria patologia che in Italia coinvolge il 10% della popolazione adulta e il 1-6% di quella pediatrica. Molto spesso la sindrome viene derubricata come semplice russamento, ma in realtà comporta ricadute pesanti sulla salute – è uno dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari – e la qualità di vita di chi ne soffre.
L’appuntamento è promosso dall’Associazione Apnoici Italiani in collaborazione con il Centro di medicina del sonno dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e l’associazione InformaSonno.Aprirà la serata Luca Roberti, presidente dell’Onlus nazionale nata per sensibilizzare la popolazione sul problema delle apnee notturne e per supportare coloro che ne sono affetti. Seguiranno poi le relazioni degli specialisti dell’ospedale di Negrar per illustrare il percorso di trattamento delle apnee. Interverranno: il dottor Gianluca Rossato (neurologo), il dottor Davide Tonon (tecnico di neurofisiologia), la dottoressa Daniela Turetta (otorinolaringoiatria), di dottori Stefano Orio e Letizia Lonia (dentisti) e il dottor Roberto Rossini (chirurgo bariatrico). (programma in allegato)
Le apnee si manifestano con un forte russamento e la sospensione del respiro per alcuni secondi più volte durante la notte. Questo comporta una serie di microrisvegli, che sono all’origine di sonnolenza e difficoltà di concentrazione durante il giorno,condizione particolarmente rischiosa per coloro che svolgono lavori pericolosi o si mettono alla guida per lunghi tragitti. Si stima infatti che in Italia un migliaio di morti e 120mila feriti sulle strade ogni anno siano causati da incidenti dovuti a colpi di sonno, dietro i quali, in molti casi, si nascondono le apnee notturne. Dal 2017 sono in vigore le nuove normative per il rilascio o il rinnovo della patente che inseriscono le OSAS tra le patologie da indagare, come sarà illustrato durante l’incontro.
Dopo la diagnosi, che viene effettuata tramite la polisonnografia, il trattamento delle apnee prevede un approccio multispecialistico per la scelta della migliore terapia in base alle cause e alla gravità della malattia. La ventilazione meccanica durante il sonno, tramite un’apposita maschera, può essere sostituita, nelle forme lievi e moderate, da un dispositivo di avanzamento mandibolare, creato dal dentista. Il Mad, questo il nome del dispositivo, mantenendo la mandibola in posizione avanzata impedisce alla lingua, rilassata durante il sonno, di andare ad ostruire la via area e provocare così le apnee notturne.
Infarto: le onde d'urto che puliscono le arterie del cuore
L’Emodinamica di Negrar ha eseguito, prima nel Veneto, due angioplastiche utilizzando un “palloncino” che grazie alle onde d’urto riesce a frantumare le placche di calcio che si depositano nelle arterie. Ecco come funziona.
Sono le onde d’urto l’ultima frontiera dell’angioplastica coronarica, la procedura di cardiologia interventistica impiegata per prevenire o curare l’infarto del miocardio. La Cardiologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal professor Enrico Barbieri, ha utilizzato per la prima volta nel Veneto un innovativo dispositivo in grado di ‘frantumare’ le placche di calcio che si erano depositate nelle arterie del cuore (coronarie) di due uomini, di 79 e 76 anni, esponendoli ad alto rischio di infarto.
Lo “Shock Wave” (nella Photo Gallery), questo il nome del dispositivo in uso in Italia da meno di un anno (circa 150 casi eseguiti i centri selezionati), è simile al palloncino che viene utilizzato nell’angioplastica tradizionale per dilatare meccanicamente l’arteria e permettere l’inserimento dello stent affinché rimanga aperta, consentendo il regolare flusso di sangue. Ma, a differenza del palloncino tradizionale, lo Shock Wave è dotato di due poli che, azionati da un generatore esterno, emanano onde d’urto capaci di rompere la placca di calcio. Il sistema, che si basa sullo stesso principio di quello usato per la frantumazione dei calcoli renali (litotrissia), abbassa significativamente i rischi di rottura dell’arteria, di formazione nel tempo di una nuova stenosi o dello sviluppo di una trombosi.
“I pazienti con arteriosclerosi coronarica che presentano una prevalente deposizione di calcio nelle pareti possono essere particolarmente complessi da trattare“, sottolinea la dottoressa Esther Campopiano, che ha eseguito la procedura affiancata dal dottor Guido Canali, responsabile dell’Emodinamica di Negrar (nella foto di copertina, l’équipe). “In questi casi l’angioplastica tradizionale non è del tutto efficace perché il palloncino non riesce, a causa della resistenza del calcio, a dilatare completamente l’arteria e consentire il posizionamento corretto dello stent con il rischio che in seguito il paziente possa sviluppare un nuovo restringimento o una trombosi, anticamera dell’infarto”, spiega la cardiologa.
Finora per questi pazienti la Cardiologia del “Sacro Cuore” utilizzava il Rotablator, una metodica che prevede al posto del palloncino una piccola fresa a punta diamantata (simile a quella del dentista), che ruotando ad altissimi giri polverizza il calcio interno al lume dell’arteria e crea microfratture nel calcio di parete, consentendo così il passaggio e la dilatazione del palloncino. “Si tratta di una tecnica che si è dimostrata fondamentale per trattare questa tipologia di pazienti, ma con alcuni limiti – prosegue la dottoressa Campopiano – E’ particolarmente invasiva e comporta un più alto rischio di rottura del vaso, inoltre per la sua complessità richiede una lunga formazione da parte del cardiologo e per questo è praticata in pochi centri in Italia. Lo ‘shock wave’ quindi, affiancandosi all’utilizzo del Rotablator, si pone come un nuovo strumento nelle mani di operatori esperti per trattare con minore rischi pazienti selezionati, permettendo di eseguire una procedura simile all’angioplastica tradizionale e mediante l’accesso radiale (ovvero dal polso del paziente).
Nel 2017 l’Emodinamica del “Sacro Cuore Don Calabria”, Centro che fa parte della rete del Veneto per il trattamento dell’infarto del miocardio, ha eseguito 300 angioplastiche, la metà delle quali in urgenza.
Cos’è l’arteriosclerosi
L’arteriosclerosi è una malattia infiammatoria cronica delle arterie (vasi sanguigni che portano sangue ossigenato agli organi del corpo) caratterizzata da depositi di grassi, coaguli di sangue, colesterolo e calcio che si accumulano nelle pareti delle arterie creando stenosi e lasciando sempre meno spazio per il fluire del sangue.Le stenosi si possono formare lentamente e bloccare progressivamente la circolazione, oppure rompersi e staccarsi improvvisamente provocando l’infarto miocardico quando colpiscono le arterie del cuore: le coronarie.Per trattare questa patologia in particolare a livello del cuore si utilizza, nei casi indicati dalla linee guida, un intervento “percutaneo” (ovvero che non comporta l’apertura del torace) chiamato angioplastica che si basa sulla dilatazione della stenosi dall’interno della coronaria (arteria del cuore) con un palloncino che “spalma” gli accumuli di grasso e calcio nella parete stessa; a completamento dell’intervento si impianta uno stent (ovvero una retina metallica) all’interno della parete del vaso per garantirne la pervietà a distanza.
Quando il diabete toglie la vista: la retinopatia
In occasione della Giornata mondiale del diabete parliamo con la dottoressa Emilia Maggio di una delle complicanze delle malattia, prima causa di cecità legale nei Paesi industrializzati. Venerdì un convegno al “Sacro Cuore”
Più di 425 milioni di persone al mondo sono colpite da diabete, di cui il 14 novembre si celebra la Giornata mondiale. Secondo l’International Diabetes Federation (IDF) nel 2030 i diabetici saranno 522 milioni, in considerazione dell’aumento dei fattori di rischio predisponenti al diabete quali l’invecchiamento della popolazione, la sedentarietà e le scorrette abitudini alimentari. Una propria e vera pandemia che porta con sé tutte le conseguenze della malattia.
Tra queste la retinopatia, una complicanza oculare del diabete mellito che interessa la retina. Può essere una patologia invalidante, tanto da rappresentare, nei Paesi industrializzati, la prima causa di cecità legale per i pazienti in età lavorativa.
Sulla “Retinopatia diabetica e patologie vascolari retiniche: l’approccio nella pratica clinica”, venerdì 16 novembre l’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria ospiterà un convegno organizzato dall’Oculistica diretta della dottoressa Grazia Pertile. Lo scopo dell’incontro è di analizzare le diverse possibili manifestazioni cliniche dell’edema maculare associato a retinopatia diabetica e occlusioni venose retiniche, valutandone l’impatto funzionale e,soprattutto, il miglior indirizzo terapeutico (vedi programma).
Con l’oculista Emilia Maggio (nella foto Gallery) facciamo il punto sulla retinopatia, che colpisce il 30% dei pazienti diabetici.
Dottoressa, perché il diabete può determinare dei danni alla retina?
Come è noto, il diabete è una malattia caratterizzata da un aumento dei livelli ematici di glucosio (iperglicemia), causato da un’insufficienza assoluta o relativa dell’ormone insulina. L’iperglicemia causa un’alterazione dei vasi sanguigni di tutto il corpo, in particolare dei vasi di piccolo calibro (microangiopatia), come quelli localizzati nella retina, sebbene anche i vasi di calibro maggiore possano essere colpiti.
Tutti coloro che soffrono di diabete possono sviluppare una retinopatia diabetica o ci sono soggetti più a rischio?
Il rischio di sviluppare una retinopatia diabetica aumenta sensibilmente con la durata del diabete, il cattivo controllo glicemico e l’eventuale coesistenza di ipertensione arteriosa e dislipidemia. Tra i fattori di rischio modificabili, il controllo glicemico è sicuramente il più importante. E’ stato dimostrato che il corretto controllo glicemico e l’ottimizzazione di pressione arteriosa ed assetto lipidico possono ritardare la comparsa e rallentare il peggioramento della retinopatia.
Quali sono i sintomi?
La retinopatia diabetica può essere una patologia molto insidiosa, in quanto, anche negli stadi avanzati, può risultare asintomatica, pur in presenza di una microangiopatia severa e di alterazioni retiniche importanti. La riduzione della vista spesso compare tardivamente, quando le possibilità di trattamento risultano limitate. Pertanto, anche in assenza di sintomi, è importante che il paziente diabetico si sottoponga a visite oculistiche periodiche, ad intervalli prestabiliti in base allo stadio di severità della patologia.
Si parla di retinopatia non proliferante e proliferante: cosa significa?
Esistono diversi stadi di severità. In particolare, si possono distinguere una retinopatia diabetica non proliferante e proliferante. La retinopatia non proliferante è una forma più precoce e meno grave della patologia. In questo stadio l’iperglicemia danneggia i capillari retinici portando alla formazione di zone di “sfiancamento” della parete vasale (microaneurismi), emorragie ed anomalie della morfologia, decorso e calibro vascolare. Tali alterazioni possono causare la trasudazione di alcune componenti ematiche con conseguente formazione di edema retinico o essudati intraretinici. Inoltre, la microangiopatia può condurre ad una ridotta perfusione del tessuto retinico, fino alla ischemia retinica. Se la patologia non viene riconosciuta e controllata in questa fase, evolve progressivamente verso la forma proliferante, ovvero lo stadio più avanzato ed invalidante della malattia. In questa fase la presenza di aree retiniche ischemiche è lo stimolo per la formazione di neovasi retinici. I vasi sanguigni neoformati, in quanto anomali per sede e struttura, possono condurre a complicanze più gravi, come emorragie intraoculari, glaucoma neovascolare e distacco di retina.La prevenzione è importante, in quanto si stima che fino al 45% dei pazienti affetti da retinopatia diabetica non proliferante severa presenti il rischio di sviluppare una retinopatia proliferante entro un anno.
Come viene diagnosticata?
La diagnosi di retinopatia diabetica viene eseguita mediante la visita oculistica con esame del fondo oculare. Esistono, inoltre, numerosi esami diagnostici utili per perfezionare la diagnosi ed approfondire le caratteristiche della malattia. Tra questi si annoverano l’esame OCT (tomografia a coerenza ottica), utile soprattutto in caso di retinopatia associata ad edema maculare diabetico, e la fluorangiografia, esame che consente di definire l’esatta estensione delle aree di ischemia retinica e di identificare la presenza dei neovasi.
Quali sono i trattamenti?
I principali trattamenti dei quali disponiamo per affrontare la retinopatia diabetica sono la terapia laser retinica, le iniezioni intravitreali e, nei casi di retinopatia diabetica proliferante avanzata, la chirurgia.
E’ possibile prevenirla?
La diagnosi precoce e l’inquadramento della retinopatia diabetica sono essenziali per ostacolare l’instaurarsi di danni oculari irreversibili. Per prevenire o contrastare l’evoluzione della patologia è raccomandato eseguire visite oculistiche ad intervalli regolari, mantenere un corretto controllo della glicemia, della pressione arteriosa sistemica e dell’assetto lipidico.
Il trattamento personalizzato: la nuova sfida al tumore al retto
Nel congresso di venerdì 16 novembre specialisti nazionali e internazionali a confronto sui trattamenti non solo chirurgici di una delle neoplasie più diffuse in Occidente: il tumore del retto
Il trattamento personalizzato del tumore del retto con l’obiettivo di preservare la qualità di vita del paziente e aumentarne la sopravvivenza è al centro del congresso che si terrà venerdì 16 novembre nella sala conferenze della Fondazione Cariverona (via Garibaldi, 2). Organizzato dal dottor Giacomo Ruffo (nella foto allegata), direttore della Chirurgia generale dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, il meeting scientifico, giunto alla terza edizione, vedrà la presenza dei maggiori specialisti italiani (endoscopisti, chirurghi, oncologi e radioterapisti) e personalità di rilievo internazionale che si occupano di una delle neoplasie più diffuse nei Paesi Occidentali (programma allegato). Tra i relatori il professor Eric Rullier, esponente della maggiore scuola europea di laparoscopia, e i professori Roel Homps (Oxford University Hospital) e Danilo Miskovic (St’s Marks Academic Istitute di Londra) che hanno implementato TaTme (Transanal Totale Mesorectal Excision), una tecnica chirurgica innovativa e nel contempo mini-invasiva, eseguita in pochi centri specializzati, tra cui quello di Negrar.
Su un totale complessivo di 373mila nuove diagnosi di tumore attese per il 2018 in Italia (dati AIOM-AIRTUM), sono oltre 15mila quelle che riguardano il tumore del retto, 1.200 nel Veneto e, secondo stime, circa 200 nella provincia di Verona. La sopravvivenza media a cinque anni è del 62%.
La chirurgia è la principale opzione terapeutica con intento curativo, ma è ancora temuta da parte dei pazienti, perché fino a pochi anni fa comportava un alto rischio di stomia permanente e disfunzioni a livello sessuale e urinario.”Oggi non è più così – rassicura il dottor Ruffo -. Questo perché siamo in grado di personalizzare il trattamento per ogni paziente in base all’età, al sesso, oltre alla grandezza, alla posizione e all’assetto genetico della forma tumorale. Una neoplasia di piccole dimensioni, per esempio, può essere asportata anche per via endoscopica. Quando invece è indicata la chirurgia, le procedure mini-invasive ad alta tecnologia (laparoscopica o robotica) consentono un gesto chirurgico preciso tale da estirpare il tumore, ridurre il rischio di recidiva, ma nello stesso tempo di preservare la qualità di vita del paziente. Attualmente – precisa il chirurgo – la percentuale di stomie permanenti e provvisorie nel Centro di Negrar è, rispettivamente, del 2% e del 20%, in linea con gli altri centri qualificati”
La chirurgia non è la sola arma terapeutica a disposizione per combattere il tumore del retto. Ad essa si aggiungono la chemioterapia – prima e dopo l’intervento chirurgico, ma anche intraoperatoria -, la radioterapia e i nuovi farmaci a bersaglio molecolare.
Temi che saranno trattati durante il congresso, la cui apertura è dedicata a un innovativo approccio multidisciplinare all’intervento chirurgico. Si tratta del protocollo ERAS (Enhanced Recovery After Surgery), da poco adottato anche dalla Chirurgia generale dell’IRCCS di Negrar.
Questo protocollo vede come protagonista attivo il paziente sia nella fase preparatoria sia in quella post-operatoria con l’obiettivo di un miglior recupero dopo la chirurgia, evitando così le complicazioni legate all’immobilità e alla degenza in ospedale. Il paziente che aderisce al protocollo è invitato a migliorare prima dell’intervento le proprie condizioni fisiche con una dieta bilanciata e supportata da integratori e con una giornaliera attività fisica. Cade la regola aurea del digiuno fin dalla mezzanotte prima dell’intervento e il paziente inizia a muoversi e ad alimentarsi già nelle ore immediatamente successive all’operazione. Studi clinici rilevano che per le patologie del tratto intestinale l’utilizzo intensivo della chirurgia mini-invasiva abbinato al protocollo ERAS accorcia la degenza da 10 a 5 giorni, con notevoli benefici per il benessere del paziente e una riduzione dei costi per il Servizio sanitario nazionale.
Bando Servizio Civile alla Cittadella della Carità: la graduatoria
Pubblichiamo la graduatoria del bando per il Servizio Civile alla “Cittadella della Carità”: nove i giovani che parteciperanno al progetto: “Accordi e Ricordi: sullo spartito delle emozioni”
In allegato la graduatoria del Bando per il Servizio Civile a Casa Clero, Casa Nogarè e Casa Perez: 9 i giovani che parteciperanno al progetto “Accordi e Ricordi: sullo spartito delle emozioni”
Influenza: ci sono tanti motivi per vaccinarsi
Vaccinarsi è un atto di responsabilità verso noi stessi e verso la comunità: il vaccino è l’arma migliore per prevenire e combattere l’influenza e una misura formidabile per bloccarne la diffusione
L’influenza è già tra noi. Secondo il primo bollettino di InfluNet (Rete Italiana Sorveglianza Influenza) del Ministero della salute i casi stimati sono già 125mila. E’ tempo quindi di pensare al vaccino. In questi giorni tutte le Ulss del Paese inizieranno la campagna vaccinale contro l’influenza. I vaccini poi sono già disponibili da alcune settimane nelle farmacie, per chi volesse vaccinarsi, ma non ha i requisiti per farlo gratuitamente.
Perché vaccinarsi? In fondo si tratta solo di influenza
E’ un’affermazione che sentiamo ripetere frequentemente in questa stagione. La risposta è nella realtà dei fatti. L’influenza è una patologia che può dare incontro a complicanze gravi e ha una mortalità che raggiunge qualche punto percentuale: si stima che ogni anno decine di migliaia di morti nel mondo siano attribuibili a questa patologia. Complicanze e decessi colpiscono soprattutto alcune categorie di soggetti: bambini, anziani, donne in gravidanza, persone con morbidità e malattie croniche, come asma, patolgie cardiologiche, diabete ed obesità. Il vaccino è quindi un atto di resposabilità verso noi stessi – si riduce notevolmente la probabilità di contrarre la malattia e, in caso di sviluppo di sintomi influenzali, questi sono molto meno gravi – e verso coloro che sono più deboli. Senza contare che grazie al controllo dell’infezione tramite il vaccino, si ridurrebbero i costi economici in termini di ore di lavoro perse e di spesa sanitaria.
Ma che cos’è l’influenza?
L’influenza è una malattia respiratoria acuta, stagionale, causata sostanzialmente da due tipi di virus: il virus A e il virus B. Il C è di scarsa rilevanza clinica e il D non ancora chiaramente legato a patologia umana. I virus dell’influenza A sono ulteriormente suddivisi in sottotipi sulla base di differenze molecolari nelle due glicoproteine di superficie: emoagglutinina (H) e neuraminidasi (N). Da qui deriva il nome, per fare un esempio a molti noto, dell’influenza H1N1, che nel 2009 aveva messo in allarme il mondo intero. In effetti i virus influenzali sono in grado con intervalli di tempo non ben prevedibili di provocare pandemie, ovvero epidemie a carattere planetario. Avvenne con la cosiddetta Spagnola nel 1918 (si trattò di H1N1) che provocò 20 milioni di morti; con l’Asiatica del 1957 (H2N2), con la pandemia del 1968 (Hong Kong, H3N2) e poi con quella del 2009 (suina).
Perché si verificano pandemie?
La causa è nei riarrangiamenti degli antigeni di superficie del virus A (dovuti alla circolazione degli stessi anche negli animali), se i virus mantengono una capacità di trasmissione da uomo ad uomo. Quando avvengono riarrangiamenti che danno origine a virus che non si trasmettono o sono a bassa strasmettibilità, la pandemia non si verifica. E questo fortunatamente accade quasi ogni anno.Ora, al di là del carattere pandemico di un’epidemia influenzale, che costituisce un grande problema di sanità pubblica, ognuno di noi dovrebbe preoccuparsi dei rischi che comporta la classica influenza stagionale. Proprio per la variabilità antigenica del virus influenzale, siamo tutti generalmente suscettibili a sviluppare l’influenza sebbene siamo stati colpiti l’anno prima in quanto gli anticorpi prodotti non sono sempre capaci di neutralizzare il nuovo virus.
Come si trasmette l’influenza?
I virus influenzali si trasmettono prevalentemente per via aerea e si diffondono molto facilmente attraverso le goccioline di saliva che il malato produce tossendo, starnutendo o semplicemente parlando, soprattutto negli ambienti affollati e chiusi. La trasmissione avviene anche per contatto diretto con persone infette o attraverso oggetti, dato che il virus dell’influenza può persistere molto a lungo e penetrare nell’organismo tramite le mucose.
I sintomi
L’influenza compare in modo brusco, dopo un’incubazione in genere abbastanza breve (circa 1-2 giorni) e dura almeno 3-4 giorni se non 10-14. I sintomi all’inizio sono solo respiratori, con febbre elevata accompagnata da dolori ossei e muscolari. Può esservi tosse, mal di testa, stanchezza e prostrazione; nausea e vomito di solito non sono presenti nella classica influenza.
Come prevenirla
Vaccinarsi è la misura migliore per prevenire e combattere l’influenza e una misura formidabile per bloccarne la diffusione. Per questo chi lavora in ambito sanitario – medici, infermieri, operatori – ha il dovere morale di vaccinarsi preservando in tal modo il proprio ruolo di servizio per la comunità e contemporaneamente impedendo alla malattia di diffondersi ulteriormente. Accanto al vaccino rimane sempre la vecchia e buona abitudine di lavarsi le mani frequentemente con acqua e sapone (o in assenza con gel idro-alcoolico) e la copertura della bocca con un fazzoletto quando si starnutisce o tossisce.
I farmaci da assumere in caso di infezione
Il farmaco migliore è il riposo in luogo caldo. Andare a scuola o al lavoro con l’influenza non è un atto eroico, ma una decisione che mette a rischio se stessi, aumentando le possibilità di complicanze, e gli altri, diffondendo il contagio. Per alleviare i sintomi sono indicati gli antipiretici e gli antinfiammatori e solo in caso di complicanze a livello respiratorio e su prescrizione medica è consigliabile assumere antibiotici. L’influenza è causata da virus e non da batteri, pertanto gli antibiotici sono inutili se non dannosi.
Per chi è indicata la vaccinazione
La vaccinazione è fortemente raccomandata e fornita gratuitamente dal medico di medicina generale e dal centro vaccinale della Asl:
•alle persone di età pari o superiore a 65 anni e a coloro che sono in stretto contatto con anziani;
• a tutte le persone che hanno patologie croniche,
• alle donne al secondo e terzo trimestre di gravidanza;
• al personale sanitario.
Quando vaccinarsi
Il periodo più indicato per vaccinarsi va da metà ottobre a fine dicembre. L’immunità indotta dal vaccino inizia circa due settimane dopo la somministrazione e declina nell’arco di 6-8 mesi e, quindi, potrebbe esserci il rischio di essere solo parzialmente protetti nel periodo più rischioso (ottobre-febbraio). Per questi motivi, e anche perché i virus influenzali possono variare da stagione a stagione, è necessario vaccinarsi ad ogni inizio di stagione influenzale.
Le fake news sulla vaccinazione
•vaccinarsi non espone a una influenza “da vaccino” (i virus sono frammentati…) né tantomeno si rischia di essere colpiti da un’influenza più grave;
• vaccinarsi non protegge in modo assoluto, ma aiuta a controllare la malattia sia per il singolo individuo che per la comunità. Quindi chi pensa “ho fatto la vaccinazione e ho preso comunque l’influenza”, probabilmente non è stato colpito dalla vera influenza A, ma da un’influenza di tipo C o da una parainfluenza;
• la vaccinazione non è controindicata in soggetti allergici alle proteine dell’uovo a meno che questi non abbiano avuto uno shock anafilattico
• l’allattamento non è una controindicazione né tantomeno la gravidanza (anzi è vi è qui raccomandazione) purché nel II e III trimestre
• alla vaccinazione possono essere sottoposte anche le persone immunodepresse che ne hanno beneficio.
Ha collaborato il dottor Andrea Angheben infettivologo dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria per le malattie infettive e tropicali.
La prevenzione coniugata al maschile: visite urologiche gratuite
Anche l’Urologia dell’IRCCS di Negrar aderisce alla campagna di prevenzione urologica promossa dalla Società Italiana di Urologia per sensibilizzare la popolazione maschile sull’importanza dei controlli periodici all’apparato uro-genitale
La prevenzione a quanto pare non è una cosa da maschi. Infatti solo il 10-20% degli uomini si sottopone a una visita periodica di controllo e 9 uomini su dieci si rivolgono al loro medico curante o allo specialista solo in caso di gravi patologie. Sono i dati che si possono leggere sul sito www.controllati.it, che promouove l’omonima campagna di prevenzione urologica promossa dalla Società Italiana di Urologia (SIU). Alla campagna aderisce anche l’Urologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal dottor Stefano Cavalleri. Per tutto il mese di novembre sarà possibile sottoporsi, fino ad esaurimento di disponibilità, a una visita urologica gratuita: basta telefonare al numero verde 800942042 e prenotare un controllo presso il centro più vicino.
Al “Sacro Cuore Don Calabria” l’équipe di Urologia attende chiunque sia interessato presso gli ambulatori dell’ospedale.
“Gli uomini dovrebbero imparare dalle donne in fatto di prevenzione – afferma il dottor Cavalleri – invece quando si tratta della salute del loro apparato uro-genitale sembrano soffrire di una sorta di tabù e solo quando i sintomi diventano preoccupanti si rivolgono a un medico. Al contrario è molto importante sottoporsi a visite preventive in ogni età della vita e mai sottovalutare segnali anomali, come per esempio il sangue nelle urine o la necessità di urinare frequentemente. Possono essere disturbi banali che si risolvono rapidamente e in modo efficace. Ma anche sintomi di una malattia oncologica. In questi casi più la diagnosi è precoce, più aumenta la percentuale di guarigione”.
Le patologie benigne che colpisco più frequentemente l’apparato uro-genitale dell’uomo sono la calcolosi urinaria, l’iperplasia della prostata, le prostatiti, l’infertilità e le disfunzioni erettili. Nell’ambito oncologico il tumore più diffuso è quello della prostata, seguito dalla neoplasia del testicolo, della vescica e del rene.
Ma quali sono le regole “d’oro” da seguire per una corretta prevenzione in ambito urologico? Secondo la Società Italiana di Urologia:
1) bevi con regolarità un’adeguata quantità di acqua
2) segui una corretta alimentazione
3) controlla la normale conformazione e lo sviluppo dell’apparato genitale del tuo bambino
4) effettua una visita urologica nelle varie età della vita: pubertà, età adulta e terza età
5) presta attenzione a quante volte urini e se senti bruciore
6) ricorda che nella vita di coppia l’infertilità dipende nel 50% dei casi dal maschio
7) presta attenzione ad eventuali perdite involontarie di urina
8) consulta sempre l’urologo se vedi sangue nelle urine
9) effettua superati i 50 anni almeno una volta all’anno un prelievo di sangue per controllare il Psa e il testosterone
10) mantieni una sana vita sessuale a tutte le età
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Le nuove possibilità di cura del tumore polmonare avanzato
All’IRCCS di Negrar esperti da tutta Italia si confronteranno il 30 ottobre sulle novità terapeutiche relative al tumore polmonare avanzato come i farmaci a bersaglio molecolare e quelli immunoterapici
Il carcinoma del polmone con 41.500 nuovi casii rappresenta in Italia la terza neoplasia più frequentemente diagnosticata sia nel sesso maschile che in quello femminile. I dati riguardanti le aree coperte dai Registri Tumori indicano il carcinoma polmonare come prima causa di morte oncologica nella popolazione (19%). Infatti la sopravvivenza a 5 anni in Italia è pari al 16%. In considerazione della frequente diagnosi in stadio avanzato e della limitata efficacia dei trattamenti (solo nel 30% dei casi è possibile l’intervento chirurgico a scopo curativo), il cancro al polmone rimane quindi ancora oggi una neoplasia a prognosi sfavorevole.
Tuttavia nell’ultimo decennio sono stati registrati progressi molto importanti per quanto riguarda il carcinoma polmonare non a piccole cellule o non microcitoma (NSCLC- Non Small Cell Lung Cancer) che rappresenta l’85% delle forme tumorali al polmone.
Proprio alle novità diagnostiche e terapeutiche del NSCLC è dedicato il II Congresso nazionale sul tema, in programma all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, martedì 30 ottobre, organizzato dalla dottoressa Stefania Gori, direttore del Dipartimento Oncologico di Negrar e presidente nazionale dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM). Tra i relatori il professor Mauro Truini, presidente SIAPEC-IAP (Società Italiana di Anatomia Patologica e Citologia Diagnostica), il professor Antonello Marchetti, direttore del Centro di Medicina Molecolare Predittiva dell’Università degli Studi di Chieti-Pescara e il professor Romano Danesi, consigliere nazionale della SIF (Società Italiana di Farmacologia).
Interverranno anche gli specialisti del Gruppo Oncologico del tumore al polmone di Negrar, composto da anatomopatologi, chirurghi toracici, radiologi, geriatri, medici nucleari, oncologi, pneumologi e medici radioterapisti. La complessità della patologia neoplastica polmonare richiede una presa in carico multidisciplinare del paziente al fine di garantirgli una terapia il più possibile personalizzata anche alla luce dell’introduzione dei farmaci a bersaglio molecolare e più recentemente dell’immunoterapia, armi terapeutiche che si sono aggiunte alla chirurgia, alla chemioterapia e alla radioterapia oncologica. (programma in allegato).
La recente ricerca sul carcinoma polmonare non a piccole cellule ha permesso di aumentare le conoscenze relative alle caratteristiche molecolari di questo tumore.
L’anatomopatologo oggi è in grado non solo di confermare la diagnosi e di stabilire la stadiazione del tumore su cui si basa la prognosi, ma anche di conoscere la caratterizzazione molecolare necessaria per determinare i casi per cui sono efficaci i farmaci a bersaglio molecolare. La cosiddetta “target therapy” infatti ha sensibilmente migliorato la prognosi in presenza di mutazione del gene EGFR oppure di traslocazioni di ALK o di ROS 1, fattori responsabili della crescita e della diffusione incontrollata delle cellule tumorali. Questi farmaci possono essere usati da soli o associati alla chemioterapia, e hanno effetti collaterali minori rispetto a quest’ultima. Tuttavia le mutazioni per cui questi farmaci migliorano sensibilmente la prognosi nel NSCLC avanzato sono presenti in una minima percentuale di carcinomi polmonari.
Negli ultimi anni è stato dimostrato che il meccanismo principale mediante il quale i tumori riescono ad eludere il sistema immunitario è l’impiego di “checkpoint” immunologici, che vengono utilizzati dal tumore stesso al fine di vanificare i tentativi delle nostre difese immunitarie di controllare la sua crescita. La scoperta di questi checkpoint, e del loro meccanismo di azione, è stato un vero e proprio punto di svolta per la definizione delle più innovative strategie di immunoterapia contro il cancro. I farmaci immuterapici non stimolano l’immunità antitumorale (come i vaccini), bensì “tolgono il freno” a una risposta già esistente e completamente paralizzata dai meccanismi inibitori del sistema immunitario messi in campo dal tumore.
Nella terapia dei NSCLC sono stati recentemente introdotti degli anticorpi monoclonali diretti contro le proteine del “checkpoint” immunitario PD-L1. La rilevanza clinica della terapia con immunoterapici rispetto ai farmaci a bersaglio molecolare è data dal fatto che può essere utilizzata in una proporzione maggiore di pazienti. Tuttavia l’introduzione di farmaci immunoterapici comporta non solo la necessità di identificare i pazienti nei quali potrebbero essere più efficaci, ma a anche di ampliare la conoscenza sulle tossicità specifiche e sulla loro gestione.
In tale scenario è importante, per un aggiornamento scientifico continuo, un confronto tra esperti che tenga conto anche delle Linee guida internazionali e nazionali (AIOM).
Il congresso di Negrar è stato pensato appunto per offrire ai partecipanti un agile e utile apprendimento delle novità scientifiche emerse relativamente al trattamento del carcinoma del polmone non microcitoma avanzato. Oltre a un confronto nella gestione clinica del paziente.