Reumatologia, 13° Seminario della Valpolicella: si parla di osteoporosi, malattia anche maschile

Sabato 28 settembre all’IRCCS di Negrar si terrà il 13° Seminario di Reumatologia della Valpolicella, promosso dal dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia del “Sacro Cuore Don Calabria”. Tra i tanti argomenti si parlerà anche della gestione del paziente con osteoporosi, patologia considerata solo femminile. Vediamo perché non è così

Dr. Antonio Marchetta

Un appuntamento che è saltato in agenda solamente durante la pandemia da Covid-19 e nonostante questo è giunto alla 13esima edizione. Si tratta del Seminario di Reumatologia in Valpolicella, organizzato dal dottor Antonio Marchetta, responsabile del Servizio di Reumatologia dell’IRCCS di Negrar in programma sabato 28 ottobre nella sala convegni del “Sacro Cuore Don Calabria”. (clicca qui per il programma).

L’evento scientifico è rivolto a tutti coloro – medici e paramedici – che sono coinvolti nella presa in carico del paziente reumatico. In particolare i medici di medicina generale, i primi a cui i pazienti si rivolgono quando avvertono sintomi che potrebbero essere ricondotti alle malattie reumatologiche.

Tra i relatori la dottoressa Giovanna Scroccaro, dirigente del Servizio farmaceutico della Regione Veneto, presidente della Commissione tecnica regionale per i farmaci e di quella per i dispositivi medici e presidente del Comitato prezzi e rimborso (Cpr) dell’Agenzia Italiana del Farmaco. A lei spetterà il compito di illustrare la politica della Regione per quanto riguarda i farmaci innovativi (biotecnologici, biosimilari e piccole molecole) anche alla luce delle novità terapeutiche che saranno introdotte sul mercato. Questi principi attivi hanno impresso una svolta soprattutto nella cura delle artriti croniche e spondiloartriti, tanto che oggi si può parlare in molti casi di remissione clinica, ma l’alto costo obbliga a un utilizzo economicamente sostenibile in modo tale che ogni paziente possa usufruire del farmaco più indicato per la sua situazione clinica e in tempo più precoce possibile.

Tra i tanti temi che verranno trattati durante il convegno vi è anche quello della gestione del paziente con osteoporosi (interverrà il professor Davide Gatti dell’Università di Verona), malattia cronica caratterizzata da una progressiva riduzione della massa ossea e da una concomitante alterazione della micro-architettura dell’osso, tale da aumentare il rischio di frattura. Con conseguenze invalidanti (di solito si tratta di anziani) e costi sanitari e sociali altissimi.

Molto diffusa tra popolazione generale (si stima che in Italia ne soffrano 5 milioni di persone) è da sempre considerata una patologia esclusivamente femminile. L’80% dei malati sono infatti donne in menopausa, un momento della vita femminile cui brusco calo di estrogeni agisce, diminuendone l’attività, sugli osteoblasti (le cellule deputate alla crescita della massa ossea) lasciando ampio campo ai osteoclasti, che hanno il compito di demolire l’osso ‘vecchio”, per permettere la sua rigenerazione. Tuttavia pochi sanno che 1/3 delle fratture dovute alla fragilità ossea interessino gli uomini e la mortalità dopo la frattura femorale è superiore nell’uomo rispetto alla donna.

“Che l’osteoporosi sia anche una patologia che può colpire anche gli uomini, è un messaggio difficile da far passare, non solo ai pazienti”, afferma il dottor Marchetta. “E’ vero che il calo fisiologico del testosterone con l’avanzare dell’età non è repertino come nel caso degli estrogeni nella donna con la menopausa. E’ anche vero che l’uomo ha maggiore massa ossea e la mantiene più a lungo, ma c’è tutta una serie di fattori di rischio che favoriscono l’insorgenza dell’osteoporosi nel sesso maschile, per la gran parte gli stessi che interessano la donna. E’ che è fondamentale tenerne conto, perché l’osteoporosi è una patologia subdola: spesso ci si accorge di averla solo dopo una frattura, in generale alle vertebre, al femore e al polso”, sottolinea il reumatologo.

Quali sono i fattori di rischio?

Innanzitutto la predisposizione familiare: se si ha la madre o il padre che hanno subito fratture ossee per osteoporosi, la probabilità di ammalarsi di osteoporosi è rilevante. Inoltre hanno un peso gli stili di vita, soprattutto il fumo e l’alcol che inibiscono l’attività degli osteoblasti, e la sedentarietà. Un fattore di rischio molto importante è l’utilizzo di cortisone (non solo per bocca, in muscolo o endovena, ma anche sotto forma di spray nasale) per curare le tante malattie croniche infiammatorie e autoimmuni, come quelle reumatiche.

Oltre al cortisone, ci sono altri farmaci ‘dannosi’ per l’osso?

Tra quelli maggiormente impiegati ci sono la levotiroxina, indicata per l’ipotiroidismo, gli anti-convulsionanti, gli inibitori di pompa protonica (pantoprazolo e lansoprazolo) usati erroneamente in modo continuativo per problemi gastrici.

Tra i fattori di rischio sono comprese anche le patologie?

Certamente. Come abbiamo già detto le malattie reumatiche infiammatorie o autoimmuni o quelle intestinali (IBD, celiachia, malassorbimento), le patologie endocrinologiche tiroidee, il diabete mellito, l’asma, le demenze, l’anoressia… Per l’uomo riveste importanza l’ipogonadismo che causa una ridotta produzione di testosterone. Non da ultime le forme di tumore del seno e della prostata positive ai ricettori ormonali, perché vengono impiegati farmaci che hanno come obiettivo la riduzione della produzione di ormoni sia maschili che femminili.

A partire da quale età è consigliato sottoporsi a densitometria ossea?

La densitometria ossea o MOC (Mineralometria Ossea Computerizzata) è un esame radiologico che misura la densità e la massa ossea. Per la donna è indicato effettuarla dopo 2-3 anni dalla scomparsa del ciclo mestruale, per gli uomini, un po’ più tardi, intorno ai 60 anni. Ma la densitometria è solo un esame strumentale e come tale deve essere letto alla luce di eventuali fattori di rischio. Una MOC positiva, cioè all’interno del range di valori che indicano osteoporosi, non corrisponde necessariamente alla necessità di trattamento farmacologico. Come un esame negativo non esclude una terapia. Per esempio la nota 79 dell’AIFA indica espressamente che i pazienti oncologici sottoposti a terapia ormonale devono essere trattati con l’anticorpo monoclonale Denosumab anche se la MOC è negativa. Questo perché le terapie ormonali implicano un calo di massa ossea dal 2 al 4% ogni anno.

Anche per l’osteoporosi quindi disponiamo di farmaci biotecnologici

Il Denosumab è un farmaco biotecnologico e viene usato in seconda linea, quando i bifosfonati, principi attivi chimici di lunga data, non sono efficaci o quando ci sono controindicazioni all’impiego. E’ in arrivo a fine anno il biosimilare (o, con un termine non corretto, generico) del Denosumab, altrettanto efficace ma con un costo più basso dell’originale che ci permetterà di trattare molti più pazienti. E’ invece già in commercio un farmaco che definirei fantastico, il Romosozumab. Esso somma in sé l’azione anti riassorbimento dell’osso dei biofosfonati e del Denosumab e quello del Teriparatide, che essendo un anabolizzante aumenta la massa ossea. E’ bene sottolineare che non tutti i farmaci sono adatti per tutti i pazienti, ognuno ha la propria indicazione.

Sui bifosfonati aleggia da sempre un grande timore: danneggiano l’osso della mandibola

E’ vero solo in parte. I bifosfonati favoriscono l’infezione dell’osso (osteomielite) solo là dove è già presente in bocca un’infezione, come le paradontite, o in generale una cattiva igiene della bocca. Per questo prima dell’inizio della terapia con questi farmaci è obbligatoria una visita odontoiatrica, un’attenta igiene orale e se è necessario l’esecuzione di un’ortopantomografia per studiare meglio la qualità dell’osso.

Quindi le regole per prevenire l’osteoporosi sono le stesse sia per la donna sia per l’uomo?

Esattamente. Stili di vita sani, supplemento di vitamina D e calcio, attività fisica aerobica all’aperto e una dieta varia. E’ raccomandabile una densitometria ossea periodica. Perché purtroppo l’osteoporosi non si annuncia: nella gran parte dei casi ci si accorge di averla solo dopo una frattura.


Il dottor Giuliano Barugola, nuovo presidente dei chirurghi degli ospedali privati

Il dottor Giuliano Barugola, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Chirurgia delle Malattie Infiammatorie Retto-Intestinali, è il nuovo presidente nazionale della SICOP, la Società scientifica che rappresenta i chirurghi delle strutture sanitarie private, private accreditate profit e no profit. Quarantasei anni, il dottor Barugola lavora al “Sacro Cuore Don Calabria” dal 2009 nell’Unità Operativa di Chirurgia Generale, specializzandosi nella chirurgia delle Malattie infiammatorie croniche dell’intestino

Il dottor Giuliano Barugola, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Chirurgia delle Malattie Infiammatorie Retto-Intestinali, è il nuovo presidente nazionale della SICOP, la Società scientifica che rappresenta i chirurghi delle strutture sanitarie private, private accreditate profit e no profit.

Quarantasei anni, il dottor Barugola lavora al “Sacro Cuore Don Calabria” dal 2009 nell’Unità Operativa di Chirurgia Generale, specializzandosi nella chirurgia delle Malattie infiammatorie croniche dell’intestino (morbo di Crohn e Colite Ulcerosa). Membro del direttivo SICOP dal 2021, inizia la sua presidenza triennale nell’anno del 25° dalla fondazione della Società scientifica e in un momento storico molto complesso per il comparto salute.

“In un orizzonte di evidente difficoltà del Servizio Sanitario Nazionale, le attività sanitarie private restano un valore aggiunto nell’alveo di una programmazione pubblica delle politiche per la salute – afferma il dottor Barugola – Sarà nostro compito, come SICOP, fornire ai pazienti e alle Istituzioni una rilettura positiva e pragmatica della spesa sanitaria privata, affinché non venga considerata solo la cartina di tornasole di un servizio sanitario che non funziona, ma un’alternativa consapevole di una società che è molto cambiata, che vuole risposte rapide e scegliere il medico al quale affidarsi in strutture adeguate ed efficienti. Occorre – sottolinea concludendo il nuovo presidente SICOP – trovare la capacità di ridisegnare un servizio sanitario che sappia ascoltare i nuovi bisogni della popolazione, snellito di tutte le inefficienze e che ritorni all’ideale universale della salute ‘sopra-tutto‘”.

La SICOP ha una rappresentanza all’interno del Collegio Italiano dei Chirurghi (CIC) e partecipa ai tavoli di lavoro del Ministero della Salute.


Malattia di Alzheimer: vi racconto le giornate con mia suocera Edda e come abbiamo trovato la serenità

In occasione della Giornata mondiale della malattia di Alzheimer, che ricorre il 21 settembre, raccontiamo l’esperienza di Nicoletta, caregiver della suocera Edda. Un percorso coordinato con i medici del Centro per il Decadimento cognitivo e le Demenze dell’IRCCS, che ha portato la signora di 95 anni a vivere serenamente nostante la malattia con li anche la famiglia

La letteratura scientifica è ormai concorde che la Demenza di Alzheimer impatta non solo sul malato, ma anche sulla famiglia. Essa viene infatti definita come malattia dell’intero sistema familiare.

Le ripercussioni maggiori le subisce in particolare la persona che si occupa direttamente del malato, chiamato, nel linguaggio anglosassone. “caregiver”, ovvero colui che presta la propria cura. Di solito i primi caregiver sono i familiari stessi, in particolare il coniuge e/o dai figli in età adulta.  Assistere un proprio caro con demenza è spesso un compito molto gravoso in quanto richiede energie fisiche, cognitive ed emotive, spesso per una durata di molti anni. Da alcuni studi sui familiari di persone con demenza (Brodaty 2003, Thompson 2007, Hornillos et al. 2011) gli effetti della malattia sul caregiver sono di tipo psicologico (disturbi d’ansia, depressione, senso di colpa costante), fisico (riduzione del sonno, fatica), relazionale (ritiro sociale, isolamento) e lavorativo (richiesta di permessi, riduzione di orario).

In occasione della giornata mondiale dell’Alzheimer, che si tiene il 21 settembre, l’esperienza di un caregiver che ha cercato di mettersi in discussione, di farsi aiutare dai professionisti e di informarsi sulla patologia, al fine di rendere l’ambiente familiare un ambiente di cura.

La storia di Edda e della nuora Nicoletta, come tutte le storie, è una storia a sé, ma può essere un esempio di come affrontare le difficoltà quotidiane grazie alla collaborazione con operatori sanitari e alla messa in atto di strategie familiari che hanno permesso di far vivere Edda, una deliziosa signora di 95 anni, una serena quotidianità, nonostante la malattia di Alzheimer.

I primi sintomi della patologia anche per Edda si sono presentati in modo insidioso. “Mio marito ed io – racconta Nicoletta – ci siamo accorti che qualcosa non andava già nel 2012, quando Edda si dimenticava di assumere i medicinali per il diabete, aveva difficoltà nel contare i soldi, nel frigorifero trovavamo sempre più frequentemente del cibo deteriorato. E soprattutto trascurava la cura della sua persona. Inoltre era spesso aggressiva verbalmente, e anche fisicamente, nei confronti del marito che cercava di farla ragionare”.

Come spesso accade, la prima reazione è stata quella di minimizzare quanto stava accadendo. “Soprattutto mio marito ha fatto fatica ad accettare che la sua mamma non fosse più quella persona dinamica e indipendente che era sempre stata.  All’inizio ci si convince che siano delle tipiche dimenticanze dovute all’età, ma poi, di fronte a fatti evidenti, non si può più chiudere gli occhi”, sottolinea Nicoletta. La diagnosi di Alzheimer arriva nel 2014 e con essa, oltre a un progressivo decadimento cognitivo, anche i disturbi comportamentali tipici  –  come irrequietezza, diffidenza, e difficoltà a dormire durante la notte- tipici della patologia.  Per tale ragione i familiari si rivolgono presso il Centro dei disturbi cognitivi e demenze dell’IRCCS di Negrar, e individuano assieme al medico una modalità di gestione farmacologica e di strategie comportamentali centrata sull’unicità del paziente.

Da allora è iniziato un percorso di “alleanza” tra medico e caregiver, dove la somministrazione dei farmaci è stata “modulata” in base al riacutizzarsi o meno dei disturbi comportamentali e la famiglia ha organizzato la sua quotidianità tenendo conto delle esigenze di Edda. “Assistere in prima persona un malato di Alzheimer richiede tanto tempo a disposizione e dedizione, cosa a dir poco difficile se si è impegnati a tempo pieno nel lavoro e nella cura dei figli. Non a caso molte persone sono costrette ad abbandonare la propria occupazione – spiega Nicoletta – Io ho sempre collaborato con mio marito nella gestione della nostra azienda, cosa che mi ha concesso di organizzarmi il lavoro anche a domicilio e di frequentare un corso di operatrice socio-sanitaria, acquisendo così molte conoscenze per l’assistenza ai malati”.

Nicoletta, supportata dai professionisti del Centro di Negrar, ha messo così in atto alcune strategie incentrate sul mantenimento delle abilità residue in un malato di Alzheimer e sulla tutela della sua dignità e della sua individualità: “Ho puntato su ciò che a Edda è sempre piaciuto – racconta – Come viaggiare in auto, così oltre a portarla con noi in vacanza, ci accompagna nelle nostre trasferte lavorative nelle varie fiere. Le piace scrivere, così trascrive con il mio supporto dei proverbi che abbiamo ritagliato dai vari calendari. Guarda film divertenti e gradisce ascoltare le canzoni di un tempo che ricorda. La invito spesso a fare piccoli lavoretti, come piegare la tovaglia e vedo che lo fa volentieri, oppure a camminare per brevi tratti in giardino o usare la pedaliera. Non è stato un cammino facile e non nascondo che abbiamo dovuto superato diverse difficoltà dovute anche allo stato complessivo di salute di mia suocera – conclude Nicoletta – ma oggi posso dire che Edda vive serenamente e noi con lei”

 IL CENTRO PER I DISTURBI COGNITIVI E LE DEMENZE DELL’IRCCS DI NEGRAR

Il Centro per i Disturbi cognitivi e le Demenze (CDCD) dell’IRCSS di Negrar, diretto dalla dottoressa Zaira Esposito con la collaborazione della dottoressa Federica Vit, si occupa di guidare il malato e la sua famiglia nel percorso diagnostico-terapeutico, proponendo la terapia più adatta per ciascun tipo di paziente e promuovendo la trasmissione di informazioni sulla gestione della malattia. Si impegna inoltre a sostenere le persone malate e i loro caregiver attraverso una serie di servizi svolti dalle psicologhe Cristina Baroni e Cecilia Delaini, come i colloqui di sostegno al caregiver e i gruppi di stimolazione cognitiva per le persone con decadimento cognitivo.

Qui sotto la brochure delle inziative del CDCD

OFFICINA DELLA MEMORIAGRUPPI MENTE E CORPO

Giornata mondiale per la sicurezza del paziente: una guida agli esami radiologici

Il 17 settembre si celebra in tutto il mondo la Giornata per la sicurezza del paziente, istituita nel 2019 dall’Organizzazione Mondiale delle Sanità, con l’obiettivo di accendere i riflettori sull’importanza di un coinvolgimento comune affinché, attraverso il miglioramento dei processi di cura, venga meno il rischio di eventi avversi ai danni dei malati. Quest’anno l’attenzione è stata posta sulla sicurezza in ambito diagnostico.  “Sicurezza in radiologia. Un gioco di squadra” è titolo della brochure (per scaricarla clicca qui) , realizzata da un gruppo di risk manager che operano nelle strutture sanitarie regionali. A coordinarli un team multidisciplinare dell’IRCCS di Negrar

Il 17 settembre si celebra in tutto il mondo la Giornata per la sicurezza del paziente, istituita nel 2019 dall’Organizzazione Mondiale delle Sanità, con l’obiettivo di accendere i riflettori sull’importanza di un coinvolgimento comune affinché, attraverso il miglioramento dei processi di cura, venga meno il rischio di eventi avversi ai danni dei malati.

Un impegno che coinvolge non solo i professionisti della salute, ma anche gli stessi pazienti e le loro famiglie, fino a interessare coloro che amministrano i sistemi sanitari.

Ogni anno l’OMS individua un tema sanitario diverso dove focalizzare l’attenzione sulla sicurezza. Nel 2024 è stato scelto quello sull’importanza di una diagnosi corretta e tempestiva, che tenga conto anche dei possibili rischi che può comportare per il paziente.

Non a caso l’Azienda Zero della Regione Veneto ha posto l’accento sulla sicurezza in ambito radiologico. “Sicurezza in radiologia. Un gioco di squadra” è titolo della brochure (per scaricarla clicca qui) , realizzata da un gruppo di risk manager che operano nelle strutture sanitarie regionali. A coordinarli un team multidisciplinare dell’IRCCS di Negrar – composta dalla Radiologia, dall’Ufficio Qualità e dalla Fisica Sanitaria – guidato dal dottor Davide Brunelli, risk manager del “Sacro Cuore Don Calabria”.

“Si tratta di uno strumento informativo che è stato distribuito nelle strutture sanitarie della Regione – sottolinea il dottor Brunelli – e mira a rendere sempre più consapevoli i cittadini rispetto ai rischi legati alla diagnostica radiologica in un’ottica di alleanza tra medico e paziente finalizzata alla sicurezza dei percorsi di cura”.

La brochure sottolinea quanto sia importante che gli esami radiologici, poiché si servono di raggi x potenzialmente dannosi, siano giustificati da una decisione medica che valuti di volta in volta rischi e benefici. Ma è altrettanto importante che anche il paziente collabori con il medico nella formulazione di questa valutazione.  Per esempio dichiarando lo stato di gravidanza certo o sospetto; comunicando eventuali allergie in particolare se l’esame viene effettuato con il metodo di contrasto; e seguendo tutte le indicazioni del personale sanitario affinché l’accertamento sia efficace.

 


Lenti a contatto: ecco come usarle correttamente per non incorrere in danni alla vista

Chi prova le lenti a contatto difficilmente torna indietro, grazie alla qualità visiva che esse garantiscono, decisamente superiore a quella degli occhiali. Ma attenzione, a differenza degli occhiali, le lenti a contatto sono un disposiitivo molto delicato che se non gestito con cura può essere veicolo di gravi infezioni alla cornea.  “Per questo la prescrizione delle lenti deve essere di esclusiva competenza medica, come il controllo periodico dello stato di salute dell’occhio.  All’oculista spetta inoltre il compito di dare tutte le indicazioni di come gestire le lenti e come comportarsi in caso di sintomatologia sospetta”, afferma il dottor Giuliano Stramare, responsabile dell’Oftalmologia pediatrica dell’IRCCS di Negrar.

C’è chi le porta per una mera questione estetica, chi, invece, perché non sopporta ‘fisicamente’ gli occhiali o perché pratica sport per cui gli occhiali sono un impedimento. Sta di fatto che chi prova le lenti a contatto difficilmente torna indietro, grazie alla qualità visiva che esse garantiscono, decisamente superiore a quella degli occhiali, in quanto, non essendoci la distanza tra l’occhio e la lente, si riducono le cosiddette aberrazioni (distorsione delle immagini reali ndr).

Ma le lenti a contatto, a differenza degli occhiali, sono un dispositivo molto delicato che richiede una perfetta manutenzione al fine di non incorrere nel degrado del materiale – con conseguenze sulla qualità della visione – e, soprattutto, in infezioni corneali potenzialmente gravi, che possono comportare danni permanenti all’occhio e alla vista.

Dr. Giuliano Stramare

“Per questo la prescrizione delle lenti deve essere di esclusiva competenza medica, come il controllo periodico dello stato di salute dell’occhio.  All’oculista spetta inoltre il compito di dare tutte le indicazioni di come gestire le lenti e come comportarsi in caso di sintomatologia sospetta”, afferma il dottor Giuliano Stramare, responsabile dell’Oftalmologia pediatrica dell’IRCCS di Negrar.

“I problemi relativi alla cattiva manutenzione delle cosiddette lenti morbide sono decisamente diminuiti grazie all’introduzione già da parecchi anni delle lenti a ricambio giornaliero”, riprende il dottor Stramare. “Esse vengono indossate sterili, direttamente dalla loro confezione ed eliminate dopo il loro utilizzo, quindi non richiedono manutenzione. Ma non tutti i pazienti fanno ricorso a queste lenti, che non tutti gli ottici consigliano, proponendo invece le quindicinali o perfino le mensili”.

Forse per una questione economica…

Il costo non varia tantissimo, se si tiene conto che viene meno quello per i prodotti di conservazione, a fronte di una sicurezza che le lenti quindicinali o mensili non possono dare. Quest’ultime devono essere tenute in considerazione solo quando sul mercato non esistono lenti giornaliere indicate per quel determinato difetto visivo.  In genere sono difetti eclatanti e per fortuna rari, a causa dei quali i pazienti sono molto attenti alla gestione delle lenti e sottoposti a uno stretto controllo medico. Il rischio è rappresentato dall’adulto o dall’adolescente che non si sottopongono a visita periodica, utilizzano le lenti oltre il limite giornaliero raccomandato (8-10 ore) e si accorgono dell’infezione quando è già in atto.

Le consiglia anche per i minori?

La prescrizione ai bambini deve essere effettuata solo in casi particolari e naturalmente la gestione del dispositivo viene affidata ai genitori almeno fino a 16 anni, dopo di che il ragazzo o la ragazza se ne può occupare in autonomia

Quali sono i sintomi dell’infezione?

Occhio rosso, calo della vista e dolore. Una triade di sintomi che spesso vengono sottovalutati. Anzi, ci sono pazienti che non avendo gli occhiali,  insistono ad indossare la lente nonostante il dolore o l’occhio infiammato.

A cosa si va incontro se l’infezione viene trascurata?

Una diagnosi tardiva dell’infezione può portare a un danno permanente della cornea da richiedere perfino il trapianto.

Abbiamo parlato di lenti morbide, e le rigide?

Per alcuni aspetti sono lenti ottime e non presentano le complicanze tipiche di quelle morbide. Popolarmente vengono chiamate semi-rigide, ma il nome corretto è lenti rigide gas permeabili. Un termine tecnico che le differenzia dalle prime lenti rigide (parliamo della fine degli anni Settanta) realizzate con un materiale simile al vetro, impermeabile all’ossigeno proveniente dall’esterno di cui si “nutre” la cornea essendo priva di vasi sanguigni. L’occhio a causa di queste lenti andava incontro a ipossia, con conseguenze importanti. Alla fine degli anni Novanta sono stati introdotti materiali gas permeabili, che hanno reso le lenti ottime per la correzione di alcuni difetti, come la miopia grave. Sono un po’ più complesse da portare, perché all’inizio richiedono maggiore adattamento e manualità nella gestione, ma possono durare anche un anno, senza particolari rischi di infezioni, perché il materiale non si presta a contaminazione.

Quando è sconsigliato indossare le lenti?

In ogni situazione in cui c’è un rischio aumentato di infezione. Quindi sono fortemente sconsigliate in tutti gli sport acquatici e quando non si ha la possibilità di gestirle. Per esempio se è necessario togliere la lente, è fondamentale avere gli occhiali a disposizione, le mani pulite e l’apposito contenitore per conservarla, se è rigida, altrimenti se è morbida si deve buttare. Chi fa uno sport acquatico a livello agonistico, deve indossarle poco prima dell’attività e toglierle subito dopo. Inoltre deve sottoporsi spesso a controllo medico ed essere istruito a togliersi la lente nel caso di occhio rosso e se il sintomo persiste di recarsi al Pronto Soccorso. Tra le cose che non si devono fare in assoluto quando si toglie una lente, ma che purtroppo è un’abitudine più diffusa di quanto si pensi, è sciacquarla sotto l’acqua del rubinetto e addirittura metterla in bocca!

Una volta indossate ci sono particolari accorgimenti da rispettare?

E’ necessario mantenerle lubrificata con le lacrime artificiali. Le persone che hanno scarsa secrezione lacrimale trovano difficoltà nell’utilizzo delle lenti. La dislacrimia si presenta soprattutto nelle donne in menopausa o affette da malattie reumatologiche come la sindrome di Sjogren.  Se in questi casi nemmeno le lacrime artificiali risolvono il problema è meglio tornare agli occhiali.


Corso per la qualifica di operatore socio-sanitario: nuova data per la selezione

C’è tempo fino al prossimo 18 ottobre per iscriversi alla selezione per il corso di qualifica di operatore socio-sanitario (Oss) organizzato dall’IRCCS di Negrar in collaborazione con il Centro Polifunzionale Don Calabria, nell’ambito della programmazione regionale (DRG n.811/2022). La prova scritta è prevista per martedì 22 ottobre alle 10 presso l’auditorium del Centro di via San Marco 121 a Verona. Tutte le informazioni  sono disponibili sul sito www.sacrocuore.it alla voce “lavora con noi”.

C’è tempo fino al prossimo 18 ottobre per iscriversi alla selezione del corso per la qualifica di operatore socio-sanitario (Oss) organizzato dall’IRCCS di Negrar in collaborazione con il Centro Polifunzionale Don Calabria, nell’ambito della programmazione regionale (DRG n.811/2022). La prova scritta è prevista per martedì 22 ottobre alle 10 presso l’auditorium del Centro di via San Marco 121 a Verona.

Il corso comprende 480 ore di lezioni teoriche e 520 di tirocinio presso l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e le strutture residenziali della Cittadella della Carità (case di risposo e Rsa). Al termine il candidato dovrà sottoporsi all’esame di qualifica che consiste in un test scritto e una prova teorico- pratica. La Regione prevede agevolazioni economiche per i disoccupati e gli inoccupati.  Tutte le informazioni sul corso sono disponibili sul sito www.sacrocuore.it alla voce “lavora con noi”.

“Le competenze dell’OSS trovano applicazione in diversi ambiti: dall’ospedale alle strutture residenziali per anziani e disabili, dall’assistenza domiciliare alle scuole, dove gli operatori socio-sanitari sono dedicati agli studenti con disabilità gravi”, spiega la dottoressa Regina Benedetti, responsabile del Servizio infermieristico dell’IRCCS di Negrar. “In particolare nelle strutture ospedaliere e residenziali – sottolinea – negli anni, in parallelo con l’evolversi della figura dell’infermiere, il ruolo dell’Oss ha acquisito sempre più importanza nel processo di assistenza. Di fatto è l’operatore più vicino al paziente, in quanto lo supporta in tutte le azioni quotidiane come l’igiene, l’alimentazione, la deambulazione… E per questo è in grado di fornire informazioni preziose che condivide con l’équipe medico-infermieristica per un’assistenza il più possibile efficace e personalizzata”.

Se il Sistema sanitario nazionale sta vivendo una stagione difficile anche a causa della carenza di medici e infermieri, il problema non è meno importante sul fronte Oss e si complicherà ulteriormente nei prossimi anni, quando, secondo le previsioni della Regione, in Veneto usciranno per pensionamento dalle strutture ospedaliere e residenziali per anziani e disabili oltre 1.500 operatori socio-sanitari.

“Un Oss oggi trova subito occupazione a tempo indeterminato – prosegue la dottoressa Benedetti -. Con la prospettiva, inoltre, di un percorso lavorativo molto vario e stimolante, proprio in virtù delle diverse collocazioni che un operatore socio-sanitario può avere. Il corso che proponiamo fornisce tutte le conoscenze teoriche necessarie e soprattutto una formazione sul campo presso le nostre strutture che ha valenza di insegnamento pratico, ma è nello stesso tempo un’opportunità per il candidato di sperimentare la complessità del rapporto con le persone fragili. Complessità che richiede competenza ma anche predisposizione umana”.


I benefici della TIPS, impiegata nella cirrosi epatica, per la malattia "delle acque dolci tropicali"

E’ stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet Infectious Diseases il report sul primo paziente affetto da schistosomiasi epatosplenica, cioè con gravi complicanze alla milza e al fegato, seguito presso IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e trattato, in collaborazione con l’Università di Verona, con una procedura di radiologia interventistica (TIPS- Shunt Portosistemico Intraepatico Transgiugulare) e successiva asportazione della milza. La pubblicazione comprende anche la revisione della letteratura dei casi di schistosomiasi epatosplenica trattati con TIPS, contribuendo così ad ampliare la conoscenza su questa patologia tropicale e la sua gestione clinica mediante questa tecnica innovativa, che potrebbe essere eseguita anche nei casi precoci.

E’ stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Lancet Infectious Diseases il report (“Transjugular intrahepatic portosystemic shunt followed by splenectomy for complicated hepatosplenic schistosomiasis: a case report and review of the literature) sul primo paziente affetto da schistosomiasi epatosplenica, cioè con gravi complicanze alla milza e al fegato, seguito presso IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e trattato, in collaborazione con l’Università di Verona, con una procedura di radiologia interventistica (TIPS- Shunt Portosistemico Intraepatico Transgiugulare) e successiva asportazione della milza. La pubblicazione comprende anche la revisione della letteratura dei casi di schistosomiasi epatosplenica trattati con TIPS, contribuendo così ad ampliare la conoscenza su questa patologia tropicale e la sua gestione clinica mediante questa tecnica innovativa, che potrebbe essere eseguita anche nei casi precoci.

CHE COS’E’ LA SCHISTOSOMIASI

La schistosomiasi è una delle 21 malattie tropicali neglette identificate dell’OMS e si stima che nel mondo ne siano affette 230 persone, anche se potrebbero essere ben 440 milioni i soggetti con una patologia provocata dall’infezione corrente o da un danno permanente agli organi dovuto a un’infezione pregressa. Dopo la malaria è la malattia tropicale negletta più diffusa al mondo ed è endemica in tutta la fascia tropicale, soprattutto in Africa sub-Sahariana, in America Latina e nell’Asia Orientale. Anche in Europa, in particolare in Corsica (Francia) e Almeria (Spagna), si sono verificati recentemente focolai di trasmissione autoctona originati da casi di importazione.

La schistosomiasi è causata da varie specie del parassita Schistosoma, un elminta – comunemente detto verme – e può avere manifestazioni intestinali, epatiche e uro-genitali anche molto gravi, tra cui lo sviluppo di tumore della vescica.

La trasmissione avviene tramite il contatto con acque dolci in aree endemiche in cui avvengono abitualmente minzione o defecazione umana (e quindi anche di individui con l’infezione attiva) nell’ambiente. Con le feci e nelle urine, infatti, vengono eliminate anche le uova del parassita, che schiudono in acqua. L’uomo si infetta quando in laghi o fiumi co-abitano delle chiocciole che permettono lo sviluppo delle larve microscopiche del parassita fino allo stadio infettante, dette “cercarie”, che possono penetrare la cute umana integra. Per questo è importante, quando si compie un viaggio nelle zone endemiche, evitare di bagnarsi in fiumi o laghi. Nell’uomo le cercarie si sviluppano in parassiti adulti che, vivono nei plessi venosi mesenterici (attorno all’intestino) e pelvici (attorno alla vescica).

Nella maggior parte dei soggetti l’infestazione è asintomatica ma dopo mesi od anche anni possono comparire i sintomi  diversi a seconda degli organi interni interessati all’accumolo delle uova. Quindi  dai dolori addominali alla diarrea (anche con presenza di sangue nelle feci), fino all’occlusione intestinale, se ad essere colpito è l’intestino
La presenza delle uova negli organi uro-genital, invece, può portare a cistiti, ma anche ad altre alterazioni come cervicite e salpingite nella donna e prostatite nell’uomo, che nelle forme più severe possono portare fino all’infertilità.

La diagnosi viene effettuata con la ricerca delle uova del parassita nelle urine e nelle feci

Per la schistosomiasi non esiste vaccino, ma solo un farmaco il pranziquantel (non ancora registrato in Italia per uso umano), che deve essere assunto per 1-3 giorni, il prima possibile dopo la diagnosi per evitare gravi complicanze.

LA SCHISTOSOMIASI EPATOSPLENICA

La schistosomiasi epatosplenica è una condizione clinica complessa causata dalle complicanze della schistosomiasi intestinale. Essa deriva dalla reazione fibrotica che si viene a creare attorno alle uova del parassita, trasportate dalla circolazione della vena porta che dall’intestino va al fegato. Tale fibrosi provoca un’ipertensione della stessa vena portale. Proprio l’aumento della pressione portale, con conseguente formazione di varici (rigonfiamento) venose è la causa della complicanza più grave, cioè il sanguinamento delle varici venose dell’esofago, similmente a quanto avviene nella cirrosi epatica. La funzionalità del fegato però è generalmente preservata; si può verificare anche un calo del numero di globuli bianchi e di piastrine.

Prof. Federico Gobbi

“Per la gestione del paziente con schistosomiasi epatosplenica non è ancora disponibile un protocollo standard condiviso a livello internazionale che possa guidare la decisione clinica del medico”, sottolinea il professor Federico Gobbi, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali dell’IRCCS di Negrar e uno degli autori dello studio. “Dal nostro lavoro di revisione della letteratura è emerso che nessuno degli interventi che sono effettuati solitamente per la schistosomiasi epatosplenica complicata (shunt portosistemici selettivi oppure la devascolarizzazione esofagogastrica con splenectomia) si dimostra più efficace dell’altro, mentre il trattamento con farmaci β-bloccanti è solo di supporto”.

La TIPS

L’intervento di Shunt Porto-sistemico Intraepatico Transgiugulare (acronimo inglese TISP), utilizzato da molto tempo nella cirrosi epatica, è segnalato in letteratura solo in pochi pazienti con schistosomiasi epatosplenica. Si tratta di una procedura mini-invasiva di radiologia interventistica che ha l’obiettivo di ridurre l’ipertensione della vena porta mettendo in comunicazione il sistema portale e il sistema venoso generale attraverso l’inserimento di uno stent introdotto attraverso una vena periferica. L’intervento viene eseguito sotto guida radiologica con il paziente in sedazione profonda. In sostanza, è come se si costruisse un “tunnel” nel tessuto epatico, creando in questo modo un canale che aggira il punto di ostruzione e permettere al sangue di defluire per una via alternativa.

Dr.ssa Francesca Tamarozzi

“I pochi casi descritti in letteratura di trattamento della schistosomiasi epatosplenica con TIPS rilevano un miglioramento per quanto riguarda l’ipertensione portale e la regressione delle varici esofagee con conseguente riduzione del rischio di sanguinamento, come è accaduto per la paziente di 33 anni originaria dell’Angola, il cui caso è oggetto dello studio pubblicato. Tuttavia – precisa l’infettivologa Francesca Tamarozzi, prima firmataria dello studio – questa paziente è stata sottoposta anche all’asportazione della milza a causa della persistente splenomegalia grave (milza aumentata di volume ndr) e della carenza di piastrine. I benefici riscontrati con la TIPS comunque incentivano la valutazione della possibile applicazione di questo trattamento anche in pazienti con schistosomiasi epatosplenica precoce, prima della comparsa delle varici e quindi del sanguinamento. Infatti in letteratura è stata segnalata l’associazione tra sanguinamento da varici e aumento del rischio di scompenso epatico, che è a sua volta associato a un aumento della mortalità”


Il defibrillatore "salvavita" che si indossa come un giubbetto

Un corpetto in grado di salvare le persone a rischio di arresto cardiaco. Si tratta del defibrillatore indossabile, una versione innovativa del dispositivo impiantabile che ha il compito di erogare uno shock elettrico quando registra un’aritmia cardiaca potenzialmente fatale o un vero e proprio arresto del cuore. La Cardiologia dell’IRCCS di Negrar lo utilizza temporaneamente per quei pazienti che, seppur critici, potrebbero recuperare attraverso terapia farmacologica una funzione cardiaca tale da non dover necessitare dell’impianto definitivo di un defibrillatore.

“Sono in genere persone affette da recentissimo infarto miocardico oppure da cardiopatia dilatativa o da scompenso cardiaco con severa perdita della funzione contrattile del cuore”, spiega il direttore Giulio Molon. “Una categoria particolare sono i pazienti reduci da infarto acuto con grave danno cardiaco per i quali, secondo le linee guida internazionali, non è indicato l’impianto del defibrillatore nei primi 40 giorni dopo la diagnosi – prosegue – Trascorso questo periodo il paziente viene rivalutato e se la contrattilità cardiaca non ha avuto un decisivo recupero viene avviato ad impianto di defibrillatore. Senza la disponibilità del defibrillatore indossabile questi pazienti sarebbero costretti ad una prolungata degenza ospedaliera sotto stretto monitoraggio, invece possono condurre una vita del tutto normale”.

Il defibrillatore indossabile è costituito da un corpetto di stoffa all’interno del quale sono inserite tre piastre, due posteriori e una anteriore, quest’ultima posizionata sotto l’emitorace sinistro. Il tutto è collegato al defibrillatore vero e proprio che registra l’attività cardiaca ed è in grado di erogare la scossa elettrica in caso di necessità attraverso, appunto, le piastre. Grande quanto una borsetta, da portare a tracolla o in cintura, è fondamentale che il dispositivo venga indossato per tutto l’arco della giornata, ad eccezione del momento del bagno o della doccia. Le due batterie, intercambiabili, si ricaricano come un comune cellulare.

“Quando il defibrillatore intercetta l’aritmia – continua il dottor Molon – emette un allarme sonoro e una vibrazione. Se il paziente è cosciente, egli stesso interrompe autonomamente la terapia, schiacciando i due pulsanti situati sul defibrillatore. Se invece ha perso conoscenza, il defibrillatore eroga la scossa elettrica per risolvere l’aritmia. Con questo sistema il rischio che l’apparecchio possa emettere una scarica senza che sia necessario è veramente bassissimo”. Un’ulteriore sicurezza è data dal collegamento in telemetria. “Il defibrillatore è inoltre controllabile da remoto, esattamente come un defibrillatore impiantabile, e questo è utile perché possiamo sapere se ci sono problemi tecnici o erogazione di scariche, ma anche se il paziente lo utilizza per un tempo inferiore a quello che dovrebbe; ovviamente in entrambi questi casi interveniamo, contattando il paziente telefonicamente oppure invitandolo ad un controllo in ospedale per chiarire questi problemi”

Ogni anno sono molti i pazienti che si rivolgono alla Cardiologia dell’IRCCS di Negrar per anomalie elettriche o rischio di aritmie potenzialmente pericolose. Nel 2023 sono stati effettuati 70 impianti di defibrillatori e 239 di pace maker.


Un progetto per due centri di riabilitazione in Ucraina con il supporto del "Sacro Cuore"

Tre operatori del “Sacro Cuore” sono stati in Ucraina, nella regione di Ivano Frankivs’k, per un progetto di cooperazione sanitaria finanziato dal Ministero degli Esteri italiano. Obiettivo del progetto è accompagnare l’apertura di due centri di riabilitazione nel Paese martoriato dalla guerra. Ecco il racconto di ciò che hanno trovato…

Realizzare due nuovi centri riabilitativi nella regione di Ivano Frankivs’k, in Ucraina, promuovendo la formazione del personale locale e fornendo una consulenza per l’acquisto degli ausili necessari. E’ questo l’ambizioso obiettivo del progetto “Health care for safety and rehabilitation” finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, che vede come capofila l’associazione Missione Calcutta di Bergamo in collaborazione con Focsiv e come partner tecnico l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria di Negrar.

Nell’ambito di questa iniziativa lo scorso 2 luglio si sono recati in Ucraina la dottoressa Elena Rossato e Massimo Mengalli, rispettivamente direttore e coordinatore della Riabilitazione a Negrar, e il dottor Claudio Bianconi, responsabile per i progetti internazionali del Sacro Cuore. I tre hanno visitato le strutture dove sorgeranno i nuovi reparti di riabilitazione, ossia la clinica diocesana “St. Luke” di Ivano Frankivs’k e l’ospedale pubblico di Yasynia, nella vicina regione della Transcarpazia, dove si trovano molti sfollati fuggiti dalle zone del fronte in cui imperversa la guerra con la Russia.

Il viaggio è servito per incontrare il personale locale e i partner di progetto, per vedere gli spazi e valutare quali siano le apparecchiature da acquistare per i nuovi reparti. Si è parlato di revisione dei percorsi formativi in riabilitazione per il personale tecnico e medico anche in un incontro con il rettore dell’università di Ivano- Frankiv’s e con la titolare della locale cattedra di Medicina Fisica e Riabilitazione.

La trasferta a Ivano Frankivs’k rientra fra le azioni svolte dal Sacro Cuore nel farsi carico della supervisione del processo di apertura dei due reparti di riabilitazione e della formazione online e in presenza di medici e fisioterapisti. Già nel mese di giugno era arrivato a Negrar un primo gruppo di quattro medici dalla St. Luke Clinic per svolgere un periodo di conoscenza e formazione. Poi a luglio sono arrivati 4 fisioterapisti ucraini che hanno svolto un tirocinio presso il reparto di Medicina Fisica e Riabilitazione del “Sacro Cuore”, cui si aggiungeranno altri 4 fisioterapisti e 2 medici a settembre. Ulteriori due fisioterapisti e due medici arriveranno invece a novembre.

L’apertura dei due nuovi reparti di riabilitazione è prevista per il prossimo ottobre alla clinica St. Luke e a febbraio del prossimo anno all’ospedale di Yasynia. Una volta avviati i reparti ci sarà un’altra visita da parte del personale di Negrar per completare il lavoro di supervisione e tutoraggio.

 

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato la dottoressa Rossato, il dottor Bianconi e il coordinatore Mengalli e abbiamo posto loro alcune domande sull’esperienza vissuta in Ucraina all’inizio di luglio…

Che realtà avete trovato negli ospedali visitati?

Dallo scoppio della guerra, nel 2022, l’attività della riabilitazione si è quasi del tutto orientata sul trattamento e il recupero dei soldati feriti al fronte. Di conseguenza è molto difficile accedere alla riabilitazione per i tanti pazienti affetti da altre patologie, ad esempio neurologiche. Senza dimenticare che già prima c’erano delle difficoltà oggettive in questo campo.

Quali difficoltà?

Da quanto abbiamo potuto vedere e conoscere, la riabilitazione in passato era una disciplina poco considerata in ambito medico qui in Ucraina. Solo da pochi anni esistono percorsi specifici per la formazione di fisioterapisti e fisiatri. In precedenza ad occuparsi della riabilitazione era il medico specialista per la patologia del paziente, ad esempio l’ortopedico per chi aveva patologie ortopediche o il neurologo per chi aveva patologie neurologiche ma non esistevano delle vere prese in carico della disabilità.

Quali sono le sfide di questo progetto?

La prima sfida è quella di promuovere un cambiamento culturale nel modo di guardare alla riabilitazione. Non si tratta solo di somministrare esercizi a un paziente malato, ma di pianificare percorsi di reinserimento e di ritorno ad una qualità di vita che sia la migliore possibile. E in questo processo il paziente deve essere parte attiva del recupero, così come i suoi familiari. Sono aspetti che in Italia diamo per assodati, ma che nel contesto ucraino vanno consolidati. Tra l’altro questo approccio si riflette anche nell’organizzazione negli ambienti e nella scelta degli ausili.

E per quanto riguarda i feriti di guerra?

Questa è sicuramente l’emergenza del momento che assorbe moltissime energie al personale sanitario. Si possono osservare traumi di ogni natura compresi gravi traumi psicologici a cui bisogna far fronte se si vuole ottenere una riabilitazione efficace. Tra le principali problematiche fisiche vi sono le amputazioni che possono interessare più arti e per le quali va pensato anche un percorso di protesizzazione efficace per tornare ad avere una buona qualità di vita.

Nella vita quotidiana si percepisce che il Paese è in guerra?

La zona di Ivano Frankivs’k è lontana dal fronte, tuttavia si percepisce chiaramente che il Paese è in guerra. Mentre eravamo là per ben due volte è suonato l’allarme aereo, anche se poi per fortuna non sono cadute bombe. Appena si esce dalla città ci sono molti check point dove soprattutto la popolazione ucraina viene continuamente controllata. La corrente elettrica va e viene e spesso alla sera il buio è totale. La gente va avanti lo stesso e cerca di vivere normalmente anche se non ci sono prospettive concrete di ripartenza.

Cosa vi ha colpito di più?

Le lunghe file di foto dei caduti al fronte. A Ivano Frankivs’k c’è un’intera via con questi grandi manifesti, ma in ogni paese e villaggio si trovano piazze e luoghi dedicati alla memoria dei giovani soldati morti.


Virus Mpox: "Situazione da monitorare, ma nessun allarme"

La dottoressa Concetta Castilletti, biologa e ricercatrice del “Sacro Cuore”, spiega in un’intervista al giornale L’Arena cos’è il virus monkeypox, il cosiddetto vaiolo delle scimmie per il quale l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato lo stato di emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale. “C’è una nuova variante e bisogna monitorare con attenzione – dice Castilletti – ma la situazione è ampiamente sotto controllo e non c’è alcun allarme”.

Nei giorni scorsi l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che l’aumento dei casi di monkeypox, il cosiddetto vaiolo delle scimmie, costituisce un’emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale. Il problema riguarda in primis alcuni Paesi africani dove il virus è endemico, ma l’emergere di una nuova variante particolarmente contagiosa e in apparenza più grave ha spinto l’OMS ad alzare il livello di attenzione. Tuttavia gli esperti sottolineano che la situazione è ampiamente sotto controllo ed anzi la dichiarazione dell’emergenza permetterà di avere tutti gli strumenti per limitare ulteriormente la diffusione del Mpox.

Qui sotto riportiamo un’intervista alla dott.ssa Concetta Castilletti, biologa e ricercatrice, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Virologia e patogeni emergenti dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, che spiega cos’è il virus Mpox, come si manifesta, come si trasmette e quali armi abbiamo a disposizione per combatterlo.

L’intervista è stata pubblicata sul quotidiano “L’Arena” il 19 agosto 2024.

 

È stata la doccia fredda della viglia di Ferragosto: una nuova emergenza sanitaria globale, dichiarata dall’Organizzazione mondiale della Sanità non più tardi di mercoledì 14. Oggetto delle preoccupazioni della sanità di tutto il mondo è l’epidemia di Mpox, il vaiolo delle scimmie. Il virus, inizialmente trasmesso da animale a uomo, che ora si sposta e prolifera però quasi esclusivamente da uomo a uomo, gira già da parecchi anni e non è nuovo a focolai, anche importanti. In precedenza, lo aveva fatto nel luglio 2022 quando l’epidemia aveva colpito quasi 100mila persone, principalmente uomini gay e bisessuali, in 116 paesi tra cui anche l’Italia e il veronese, e ha ucciso circa 200 persone.

Ora, però, la nuova variante – la clade 1, di cui è stato recentemente accertato il primo caso in Europa, in Svezia – si presenta come maggiormente virulenta, in grado di diffondersi da uomo ad uomo attraverso contatti stretti, tanto che in Africa un’alta percentuale di ammalati è composta proprio da bimbi e neonati. Tuttavia, al di fuori delle aree africane maggiormente colpite, non c’è alcun motivo di allarmarsi. E, paradossalmente, il fatto che l’Oms abbia designato quest’epidemia di mpox come un’emergenza globale, è una buona notizia. Innanzitutto per l’Africa e per i territori colpiti, che riusciranno così a ricevere maggiori e migliori strumenti per combattere il proliferare dei contagi; dai vaccini agli antivirali specifici realizzati in questi anni. Inoltre per la popolazione mondiale e dunque per tutti noi: un virus lasciato a briglie sciolte, senza le opportune misure di contenimento, è sempre un rischio che è bene contrastare. A ribadirlo, e a rassicurare i veronesi sul rischio attualmente bassissimo sul territorio, è Concetta Castilletti, biologa e ricercatrice, responsabile Unità Operativa Semplice di Virologia e patogeni emergenti dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. La sua Uos dipende dal Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali diretto dal professor Federico Gobbi. E Castilletti si sta occupando proprio dello studio del vaiolo delle scimmie anche per mettere a punto dei farmaci specifici.

È davvero un segnale positivo e che non deve necessariamente allarmarci che l’Oms abbia dichiarato lo stato di emergenza non solo nel continente africano ma nel resto del mondo perché ciò consente a loro di far arrivare adeguati strumenti sanitari e i vaccini per contrastare l’epidemia e a noi di essere pronti a riconoscere e affrontare adeguatamente e con tempistiche ridotte eventuali casi”, spiega Castilletti. “Nei territori colpiti effettivamente la popolazione sta correndo dei rischi anche perché questa nuova variante pare si stia diffondendo con estrema velocità. Da noi, ad oggi, il rischio è estremamente basso e non sono ancora arrivate disposizioni a livello regionale ma siamo pronti e questo è un bene: i laboratori sono pronti ad analizzare campioni che dovessero arrivare, i medici sia del pronto soccorso che dei reparti specifici sono pronti a fare diagnosi”, sottolinea Castilletti che nel 2022 era a capo del laboratorio centro di riferimento regionale insieme al laboratorio di Padova per l’epidemia di vaiolo delle scimmie. Due anni fa, i casi diagnosticati nel Veronese  erano stati circa una ventina, non tutti di importazione ma anche con trasmissione in loco. Con questo nuovo ceppo, il contatto con la persona ammalata deve comunque essere stretto ma bastano poche particelle virali per ammalarsi “ed è dunque ancora più importante fare sorveglianza. Fondamentale è anche la ricerca: abbiamo in corso indagini genetiche per conoscere di più sul virus e su ciò che provoca nei suoi ospiti, che di fatto ora sembra essere praticamente quasi esclusivamente l’uomo”, riassume la biologa ricercatrice.

Le armi a disposizione di scienza e medicina contro questo nuovo ceppo di mpox, comunque, ci sono e non sono spuntate. “I vaccini, quelli che io e il resto del personale sanitario a rischio abbiamo già fatto, sono efficaci nel proteggere dalle forme più gravi, che comunque rimangono una percentuale molto bassa. Inoltre, ci sono antivirali specifici”, conclude Castilletti.

Il virus che causa mpox, il vaiolo delle scimmie, nella nuova variante clade 1si manifesta spesso con una sintomatologia simile  al vaiolo ma molto meno grave. C’è una prima fase in cui la persona affetta manifesta sintomi respiratori lievi e febbre dopodiché compaiono pustole tendenzialmente dolorose che possono rimanere localizzate in alcune aree del corpo, come le zone genitali e intorno all’ano, oppure diffondersi capillarmente a tutto il corpo. Basta pochissimo virus per trasmettere l’infezione e dunque per non essere ritenuto più contagioso, nel soggetto devono essersi rimarginate tutte le lesioni cutanee. In alcuni casi, si possono sviluppare forme gravi di malattia, come sepsi e broncopolmonite; a più alto rischio sono i bambini, le donne in gravidanza e le persone con Hiv. È allo studio attualmente anche il tasso di mortalità di questa variante, che sembra nettamente maggiore rispetto al 2022. Due anni fa, infatti, la letalità era vicina allo zero, inferiore a 1 su 100. Ora invece sembra assestarsi a numeri più elevati che vanno dal 4 al 10 per cento. Si tratta di dati rilevati in un Paese come l’Africa dove il tasso di letalità anche per patologie comuni è circa 6 volte superiore rispetto a territori più evoluti sotto il profilo sanitario. C’è un vaccino a disposizione a cui però non è attualmente necessario e nemmeno consigliato sottoporsi in Italia se non per soggetti a rischio di contrarre l’infezione, mentre la campagna vaccinale va eseguita nelle aree interessate dai focolai di vaiolo: attualmente, in Africa, stanno circolando contemporaneamente tutte e due le varianti del virus. “Abbiamo un vaccino che funziona discretamente bene mettendo al riparo dalle forme più gravi. Rispetto al vecchio vaccino antivaiolo, che aveva però parecchi effetti collaterali, è realizzato con un virus diverso e molto attenuato che non è in grado di moltiplicarsi”, sottolinea Castilletti.

(Articolo di Ilaria Noro)