Protesi bilaterale del ginocchio: perché è un vantaggio per il paziente
Un solo intervento, una sola anestesia e risultati posturali migliori. Il dottore Claudio Zorzi, direttore dell’Ortopedia spiega una procedura indicata quando entrambe le ginocchia sono deformate dall’artrosi
Entrambe le ginocchia “come nuove” in un solo intervento. Si tratta della protesi bilaterale del ginocchio in one step. “Una procedura chirurgica innovativa di cui abbiamo la più alta casistica in Italia, circa un centinaio di interventi all’anno”, afferma il dottor Claudio Zorzi, direttore dell’Ortopedia e della Traumatologia del “Sacro Cuore Don Calabria”.
“L’artrosi, cioè il logoramento fisiologico, ma molto doloroso, delle articolazioni – spiega il dottor Zorzi – può colpire tutte e due le ginocchia, deformandole. Paradossalmente quando le ginocchia soffrono entrambe di valgismo (le classiche ginocchia a x) o varismo (le ginocchia si allontano verso l’esterno) viene mantenuta una certa simmetria del rachide e del bacino. Quando questa simmetria viene modificata con l’intervento di protesi a un solo ginocchio, in attesa che si agisca sull’altro (di solito passano dagli 8 ai 12 mesi di tempo) si verificano squilibri di carico a livello della schiena e del bacino. A volte molto dolorosi e difficilmente recuperabili in persone anziane”.
La protesi bilaterale del ginocchio, invece, prosegue l’ortopedico, consente “un allineamento immediato degli arti inferiori e in fase di riabilitazione costringe il paziente a imprimere lo stesso carico su entrambe le ginocchia, con un risultato posturale migliore”.
I vantaggi per ritornare a camminare correttamente senza conseguenze dolorose avvalendosi di un solo intervento, e quindi di una sola anestesia, sono molti. Ma quali sono i rischi di questo intervento?“La valutazione del rischio è di carattere generale più che ortopedico – risponde il dottor Zorzi -. E’ l’anestesista che in ultima battuta dà l’avallo a procedere. Ogni paziente deve essere valutato attentamente e in particolare i pazienti cardiopatici, con insufficienza respiratoria o cardiocircolatoria che potrebbero avere delle complicanze dovute anche a una maggiore perdita di sangue. Sono comunque interventi che devono essere eseguiti da chirurghi protesici esperti, molto veloci nell’esecuzione e in strutture adeguate. Per ogni protesi bilaterale noi allestiamo un letto di rianimazione sub intensiva, che non occupiamo se non si presentano della complicanze”.
La fase successiva all’intervento è quella della riabilitazione. “Presso la nostra struttura anche il paziente con protesi bilaterale il giorno dopo l’intervento viene fatto sedere in poltrona – sottolinea il chirurgo – e al terzo giorno inizia l’attività riabilitativa nella palestra del reparto con esercizi di flesso-estensione assistita. Dal sesto/settimo giorno (è soggettivo, in base al post operatorio, per ogni paziente) prendono il via dalle 2 o 3 settimane di riabilitazione, durante le quali, sempre all’interno del nostro ospedale, il paziente prende confidenza con le protesi e riprende una certa autonomia“.
La riabilitazione poi prosegue in strutture esterne o a domicilio sotto la guida di fisiatri e fisioterapisti. “E’ un momento del processo riabilitativo molto importante – continua – in quanto ha come obiettivo il recupero della propriocezione, la cui perdita momentanea è dovuta ai tagli che il chirurgo ortopedico attua sull’osso per inserire la protesi. La propriocezione non è altro che la capacità che noi abbiamo di percepire il nostro corpo nello spazio e che ci permette di muoverci in automatismo verso una direzione. Nei primi tempi con le protesi si ha come la sensazione di dover ‘pensare’ prima di fare un movimento. Ma tutto ritorna alla normalità verso la fine del terzo mese”. La guarigione completa avviene entro 8-10 mesi dall’intervento.
“La chirurgia protesica in generale contribuisce in modo determinante alla longevità e alla qualità della vita delle persone anziane – afferma il dottor Zorzi -. Ai miei pazienti che si manifestano reticenti ad affrontare l’intervento, dico sempre: ‘Un tempo chi doveva togliersi o perdeva i denti doveva fare con quelli che restavano. Mangiava male, digeriva male e moriva prima. Grazie alle protesi odontoiatriche oggi questo succede in rari casi. Lo stesso vale per le protesi ortopediche’. Tenere vivo l’apparato locomotore, mantiene in forma il cuore, favorisce la circolazione, anche quella del cervello, e la vita di relazione. Si vive più a lungo e meglio”.
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La nuova palazzina raggiunge il terzo piano
Si avvicina ormai al tetto la costruzione che, una volta ultimata, diventerà l’unico ingresso dell’ospedale da cui si dirameranno tutti i percorsi all’interno della struttura. Inoltre a breve inizieranno i lavori di impiantistica nei piani interrati
Ha raggiunto ormai il terzo e penultimo piano la nuova palazzina che, una volta ultimata, sarà l’unico accesso all’ospedale “Sacro Cuore-Don Calabria”. I lavori procedono dunque secondo i tempi stabiliti e, salvo imprevisti, fra circa due mesi la costruzione sarà arrivata al tetto. Nel frattempo è tutto pronto per iniziare la parte impiantistica nei piani interrati, dove ci saranno l’autorimessa, la centrale termica e quella elettrica (vedi foto del cantiere).
La palazzina ospiterà al piano terra la grande hall dell’ospedale, da dove si dirameranno tutti i percorsi all’interno della struttura sanitaria anche grazie al nuovo tunnel di collegamento con il tunnel già esistente tra Don Calabria e Sacro Cuore. Ai piani superiori della palazzina saranno collocati alcuni Servizi come il Centro prelievi e gli ambulatori per visite ed esami pre-operatori. Il terzo piano sarà riservato agli uffici amministrativi e tecnici oggi situati in parte nella palazzina d’ingresso del “Sacro Cuore” e per il resto dislocati in vari punti dell’ospedale. Al quarto piano saranno collocati infine la Presidenza, la Direzione Generale, quella Amministrativa e Sanitaria (vedi simulazione video della palazzina e della hall).
La nuova costruzione, la cui prima pietra è stata posata dal Presidente del Veneto Luca Zaia lo scorso 4 ottobre, rappresenta solo la tappa iniziale di un progetto di ampio respiro destinato a rivoluzionare l’immagine dell’ospedale. Infatti una volta terminata la fase 1, si procederà con l’ampliamento del Pronto Soccorso e la realizzazione del nuovo reparto di Oncologia, che sarà posto proprio sopra il PS. A livello viabilistico c’è in progetto la realizzazione di un parcheggio interrato multipiano che permetterà, attraverso gli ascensori, di accedere direttamente alla nuova hall dell’ospedale. In programma ci sono infine la realizzazione di un Centro ricerche per le Malattie Tropicali e di un Centro congressi da 500 posti, per una durata totale dei lavori prevista in circa 5 anni.
"Come va il tuo respiro?": una ricerca del "Sacro Cuore" coinvolgerà 1.200 veronesi

Prosegue l’indagine della Pneumologia sul respiro dei veronesi: dopo lo studio di otto anni fa, lo stesso campione rappresentativo della popolazione sarà richiamato per controllarne l’evoluzione della salute respiratoria
Questa mattina a Palazzo Barbieri, sede del Comune di Verona, si è tenuta la presentazione (vedi Photo Gallery) dell’iniziativa “Come va il tuo respiro?”, lo studio epidemiologico longitudinale sulla salute respiratoria dei veronesi. L’indagine vede coinvolto l’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, il Comune scaligero, l’Aulss 9 con la collaborazione di Massimo Guerriero, biostatistico e docente di Statisica applicata all’Università di Verona. L’indagine ha il patrocinio della Regione Veneto e dell’Ordine dei Medici ed Odontoiatri di Verona e si avvale del contributo di Chiesi Italia, della Fondazione Cattolica Assicurazioni e di Agsm.
Saranno oltre 1200 i cittadini chiamati a sottoporsi gratuitamente a un esame sulla funzionalità respiratoria (spirometria), gli stessi che nel 2010-2011 avevano partecipato allo studio epidemiologico “Scopri il tuo respiro”, promosso dalla Pneumologia del “Sacro Cuore Don Calabria”, diretta dal dottor Carlo Pomari.
L’indagine di otto anni fa – pubblicata sulla prestigiosa rivista internazionale Respiratory Medicine – essendo stata effettuata su un campione rappresentativo della popolazione veronese ha permesso di rilevare che quasi un veronese su dieci soffre di malattie respiratorie croniche, risultato in linea con le altre città europee. Il “richiamo” dello stesso campione di cittadini consentirà di studiare l’evoluzione della loro salute respiratoria, fornendo dati preziosi sugli stili di vita.
Ai cittadini coinvolti nello studio sarà inviata una lettera di invito da parte degli organizzatori, accompagnata da uno scritto personale del sindaco Sboarina, che sottolineerà la rilevanza dell’iniziativa. Anche i medici di medicina generale dei veronesi interessati riceveranno una informativa con la quale si chiederà di favorire la partecipazione dei loro assistiti all’indagine.
Per facilitare l’adesione, ai cittadini coinvolti verranno messe a disposizione quattro sedi, con la possibilità di scegliere in quale recarsi per sottoporsi ai test: il Centro diagnostico terapeutico Ospedale Sacro Cuore di via San Marco 121 (presso il Centro Polifunzionale Don Calabria) e tre sedi dell’AULSS 9: via Poloni 1, via Del Capitel 13 e Ospedale di Marzana. I cittadini dovranno telefonare al numero indicato nella lettera di invito per prendere un appuntamento.
Alla conferenza stampa hanno partecipato Luca Coletto, assessore regionale alla Sanità, Federico Sboarina, sindaco di Verona, Marco Padovani, assessore alle Strade e Giardini, decentramento e Servizi tecnici circoscrizionali; Mario Piccinini, amministratore delegato dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria; Denise Signorelli, direttore sanitario dell’Aulss 9; Carlo Pomari, responsabile della Pneumologia del Sacro Cuore Don Calabria; Claudio Micheletto, direttore della Pneumologia dell’Ospedale Mater Salutis; Guido Polese, direttore della Pneumologia dell’Ospedale Orlandi di Bussolengo; Adriano Tomba, segretario generale della Fondazione Cattolica Assicurazioni; Michele Croce, presidente dell’AGSM; Antonio Di Fiore di Chiesi Italia
Le infezioni si combattono... con le mani pulite

Il 5 maggio è la Giornata mondiale del lavaggio delle mani, un gesto semplice quanto importante: se venisse praticato in maniera corretta si potrebbe evitare il 40% delle infezioni negli ambienti di cura. L’iniziativa del “Sacro Cuore Don Calabria”
Si stima che il 40% delle infezioni correlate alle pratiche assistenziali negli ambienti ospedalieri e di cura potrebbe essere evitato. Come? Con un semplice gesto: il lavaggio della mani. Una pratica la cui importanza viene ricordata ogni anno il 5 maggio con la Giornata mondiale per il lavaggio delle mani promossa dall’OMS e dal ministero della Salute e a cui aderisce anche l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria.
Il Comitato Infezioni ospedaliere dell’ospedale di Negrar promuove una campagna di sensibilizzazione che coinvolge tutto il personale sanitario e di conseguenza anche i pazienti che sono i primi destinatari delle buone pratiche messe in atto dagli operatori. Accanto ad una capillare promozione del lavaggio delle mani – resa possibile tra l’altro dalla diffusione dei dispensatori di gel idroalcoolico in tutta la struttura, e in particolare in ogni stanza di degenza – il 5 maggio medici e infermieri indosseranno durante l’orario di lavoro una spilla con la scritta: “Mani pulite sane sicure: non risparmiare il tempo per l’igiene (foto di copertina). Perché ciascun sanitario oltre al proprio ruolo di cura della salute altrui con tutte le responsabilità che ne conseguono, ha anche un compito educativo di promozione della salute e delle buone pratiche nei confronti del paziente, dei familiari degli assistiti e dei propri colleghi.
Le mani sono un “ricettacolo” di germi, solo in parte innocui, mentre altri, in particolare per chi lavora o è ricoverato in ospedale, possono essere patogeni se acquisiti da soggetti fragili o debilitati. Non stiamo parlando in sé di germi contagiosi, ma soprattutto di quei batteri a volte capaci di resistere a diverse classi di antibiotici, che possono entrare a far parte della flora cutanea, intestinale o respiratoria di un paziente e minacciarne la salute.
A contrastare ciò concorre primariamente un fattore: il lavaggio delle mani. Al contrario, una igiene non corretta e frequente delle mani fa sì che queste “distribuiscano” l’eventuale patogeno sulle varie superfici che ci circondano (telefoni, maniglie, tavoli, tastiere del computer, asciugamani, testiere dei letti eccetera) o altri oggetti e da qui possono essere trasmessi al naso, alla bocca o agli occhi del paziente.
I germi patogeni che si annidano sulla nostra pelle dunque possono essere responsabili di molte malattie, dalle più frequenti e meno gravi, come l’influenza e il raffreddore, a quelle più severe come le infezioni correlate all’assistenza (ICA). L’igiene delle mani è considerato un elemento fondamentale per prevenire tali infezioni.
Una verità che ci ha lasciato in eredità il triste caso del dottor Ignàc Semmelweiss, chirurgo e ostetrico ungherese che lavorava all’inizio dell’Ottocento a Vienna. Giovane medico dotato di acuta intelligenza, il dottor Semmelweiss rimase colpito dalla differenza (circa il 10%) di mortalità delle donne dopo il parto presso una divisione di ostetricia rispetto ad un’altra dove operava. Il fatto era risaputo, tanto che alcune donne rifiutavano di partorire presso il reparto con la peggiore fama. Semmelweiss studiò a lungo la cosa non riuscendo inizialmente a trovare una causa che spiegasse quanto stava accadendo. Fino al giorno in cui la morte di un collega e amico, che si era tagliato con il bisturi durante una autopsia, fece scattare nella mente di Semmelweiss la soluzione dell’arcano: nella divisione con più alta mortalità operavano medici che erano dediti anche alle autopsie, mentre in quella in cui la mortalità era più bassa lavoravano ostetriche dedicate esclusivamente alle partorienti. Deciso a risolvere il problema, Semmelweiss pretese che tutti i medici si lavassero le mani dopo le autopsie. Questo comportò in breve tempo una sensibile diminuzione mortalità puerperale. Prima ancora della scoperta dei batteri, Semmelweiss ne aveva intuito l’esistenza e applicando un gesto tanto ovvio quanto dimenticato, aveva trovato una misura di controllo efficace e duratura.
La storia tuttavia non ebbe un lieto fine: Semmelweiss non solo fu ignorato, ma anche venne ostacolato, perse il lavoro e non fu nominato professore come avrebbe meritato. Concluse la sua vita privo della stima dei colleghi e consumato dalle depressione in manicomio dove morì per le percosse di altri malati. Ma la sua intuizione salva e protegge ancora oggi la nostra e l’altrui salute.
Malaria, in Italia nessun allarme ma in molti Paesi l'epidemia continua
Pochi migranti arrivano nel nostro Paese con questa malattia, mentre i casi più frequenti riguardano persone che tornano da viaggi temporanei nelle zone a rischio. Ne parliamo con l’infettivologo Federico Gobbi in occasione del World Malaria Day 2018
Nel mondo la malaria continua a colpire milioni di persone provocando molte vittime, mentre in Italia la situazione è pressoché stazionaria su numeri molto bassi (circa 700 casi all’anno secondo l’Istituto Superiore di Sanità). La quasi totalità dei casi di malaria diagnosticati in Italia è di origine importata e al momento non vi sono segnali di allarme epidemico. Sul territorio permangono zanzare del genere Anopheles capaci di trasmettere alcuni plasmodi, ma le conoscenze attuali indicano che esse non sono più in grado di trasmettere il Plasmodium falciparum di origine africana, responsabile delle forme più gravi di malaria. Raramente sono stati documentati casi di malaria, cosiddetta autoctona perchè trasmessa da una zanzara indigena, dovuti a Plasmodium vivax. Non è invece possibile la trasmissione da persona a persona, a meno che non ci sia una qualche forma di scambio ematico.
In realtà è un quadro fatto di luci e ombre quello che emerge in occasione del World Malaria Day, che si celebra il 25 aprile in tutto il mondo. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità i casi di malaria sono in calo costante, seppure su numeri ancora assai elevati. Nel 2016 si calcola che gli ammalati siano stati 216 milioni,distribuiti in 91 Paesi, con un calo del 18% nel tasso di incidenza rispetto al 2010. Tuttavia i decessi sono ancora moltissimi: 445mila, di cui il 70% costituito da bambini con meno di cinque anni. La situazione è particolarmente critica nell’Africa sub-Sahariana.
In Italia uno dei punti di riferimento nella prevenzione, diagnosi e cura della malaria è il Centro per le Malattie Tropicali del Sacro Cuore, diretto dal professor Zeno Bisoffi, che è in attesa dell’ufficializzazione del riconoscimento come IRCSS (Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico). Nel corso del 2017 qui sono stati visti 27 casi di malaria, che vanno ad aggiungersi agli oltre 1500 casi trattati negli anni scorsi. “Gli ammalati che vediamo sono di tre tipi – dice il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Centro (vedi foto) – anzitutto ci sono i cosiddetti VFRs (“Visiting Friends and Relatives”), cioè migranti che abitano in Italia da molto tempo e tornano per un periodo nella loro patria d’origine, dove contraggono la malaria perché non effettuano la profilassi. Poi ci sono gli espatriati che vivono e lavorano all’estero sempre in luoghi dove la malaria è endemica ed infine i turisti di ritorno da Paesi a rischio. Sono pochissimi, invece, i casi che riguardano migranti appena arrivati in Italia”.
L’anno scorso si è registrato l’allarme malaria nell’opinione pubblica in seguito alla tragica vicenda della piccola Sofia, la bambina trentina deceduta all’ospedale di Brescia nel settembre 2017 dopo aver sviluppato la malaria cerebrale senza essere mai stata all’estero. In questo caso proprio la perizia effettuata dalle biologhe del Centro per le Malattie Tropicali di Negrar e dell’ISS ha evidenziato che la malaria della bambina era dello stesso ceppo della malaria di una delle due piccole pazienti burkinabè ricoverate in una stanza vicina e da poco rientrate dall’Africa, dimostrando che si è trattato di un contagio avvenuto per via ematica.
Se in Italia la situazione appare dunque sotto controllo, resta molto grande la sfida a livello globale. “La lotta alla malaria ha fatto notevoli progressi combinando tre strategie – prosegue il dottor Gobbi – anzitutto c’è la prevenzione con la distribuzione capillare di zanzariere impregnate che proteggono dalle zanzare Anopheles durante la notte. Poi c’è la diagnosi più accurata grazie all’implementazione di test diagnostici rapidi. Infine i progressi nella cura, con l’utilizzo su larga scala dei farmaci che utilizzano il principio attivo dell’artemisinina, particolarmente efficace nel combattere il plasmodio della malaria. Anche se da questo punto di vista c’è un campanello d’allarme, in quanto nel Sud-Est asiatico sono stati segnalati dei focolai di resistenza a questi farmaci, focolai che se arrivassero in Africa creerebbero grossi problemi“. E il vaccino? “Ce n’è uno in fase di sperimentazione ma non è risolutivo, in quanto permette solo di ridurre il tasso di morbilità e mortalità nel breve termine e comunque non ci sono sufficienti studi sugli effetti nel lungo periodo”.
Il miglioramento nella lotta alla malaria si riflette infine sulle raccomandazioni per i viaggiatori internazionali. Sono infatti sempre meno i Paesi per i quali è consigliato di fare la profilassi antimalarica, specie se la permanenza nelle zone a rischio è di pochi giorni o qualche settimana. “Ormai consigliamo la profilassi quasi solo per chi va nei Paesi dell’Africa sub-Sahariana. Piuttosto è importante che il viaggiatore venga a farsi vedere e a fare il test per la malaria se sviluppa febbre sopra 38° dopo essere tornato da un viaggio in zone dove la malattia è endemica, anche in quei Paesi con basso rischio di trasmissione”, conclude Federico Gobbi.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Il pavimento pelvico: un muscolo da non trascurare
Stipsi, incontinenza urinaria e rettale, dolore cronico dovuto anche ad endometriosi: a Negrar un Centro di eccellenza per il trattamento di queste disfunzioni che possono compromettere pesantemente la qualità di vita delle donne
E’ una disabilità nascosta. Non è visibile e non se ne parla, perché fa parte ancora di quei tabù per i quali ci si vergogna e si soffre in silenzio. Sono le disfunzioni del pavimento pelvico, quel piano muscolare che ha il ruolo di sostegno e di contenzione degli organi-urogenitali e dell’ampolla rettale, consentendo la minzione, la defecazione e la funzionalità sessuale. Quando quel muscolo è ipotonico, o, al contrario, ipertonico, sorgono problemi che compromettono la qualità di vita e, a volte, non consentono di svolgere le normali attività quotidiane.
Di queste disfunzioni soffrono uomini e donne di tutte le età, come dimostrano i moltissimi pazienti che si rivolgono al Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione del “Sacro Cuore Don Calabria“, diretto dal dottor Renato Avesani, una delle eccellenze nazionali nel campo della riabilitazione anche del pavimento pelvico. In occasione della Giornata nazionale della salute della donna – di cui il 22 aprile si celebra la terza edizione – parliamo del pavimento pelvico al femminile.
Incontinenza urinaria
“Il nostro Servizio prende in carico all’anno circa 150 pazienti provenienti da tutta Italia. I casi più comuni riguardano donne che con il passare dell’età (in particolare dopo la menopausa) soffrono di incontinenza urinaria da urgenza o da sforzo o da entrambe le cause, associata o meno a prolasso d’organo: vescica, retto e utero– spiega la dottoressa Elena Rossato, fisiatra (nella foto in Photo Gallery a destra) -. Questo è dovuto al rilassamento muscolare del piano pelvico. Un problema che interessa, sebbene in modo minore, anche le donne giovani a causa della gravidanza, per lo sforzo e le lacerazioni da parto, oppure per i parti indotti. Anche l’obesità, soprattutto il grasso addominale, favorisce l’ipotono muscolare“.
“Le incontinenze migliorano sempre dopo i trattamenti – sottolinea la dottoressa Monica Pazzaglia, fisioterapista (nella foto in Photo Gallery a sinistra)- con importante riduzione della frequenza delle perdite e della loro intensità. Perché il trattamento sia definitivo e i sintomi regrediscano completamente è fondamentale che le pazienti proseguano a domicilio gli esercizi insegnati (dopo almeno 10 sedute ambulatoriali) e adottino uno stile di vita sano (controllo del peso, astensione dal fumo e da eccessivo consumo di caffè, alimentazione corretta e regolare attività fisica). In alcuni casi anche se viene svolta una riabilitazione corretta, l’incontinenza continua e la paziente viene rinviata all’uroginecologo per eventuali indicazioni chirurgiche”.
Stipsi e incontinenza rettale
“Il piano muscolare del pavimento pelvico ha una parte anche posteriore – prosegue la dottoressa Rossato – che permette la corretta funzionalità ano-rettale. In questo caso possiamo avere pazienti con stipsi o incontinenza rettale, causate anche da esiti di intervento per neoplasie rettali. Le forme di stipsi di nostra pertinenza sono quelle legate ad una variazione del tono muscolare ed in più rari casi a dolore. Le pazienti con stitichezza cronica, per esempio – prosegue – possono anche sviluppare un rettocele, cioè lo sfondamento della parete fasciale del retto nella vagina, condizione che impedisce alla donna una completa evacuazione. Il problema ha una soluzione chirurgica, che non è però del tutto efficace se non dopo un trattamento riabilitativo che riporti il muscolo al giusto tono”.
“E’ diffusa l’idea che la riabilitazione del pavimento pelvico si riduca a esercizi di ginnastica – fa notare la dottoressa Pazzaglia -. In realtà il nostro lavoro prevede soprattutto manipolazioni manuali e terapia fisica con ultrasuoni e TENS (Stimolazione Elettrica Nervosa Transcutanea). Quello di Negrar è uno dei pochi Centri in Italia ad essere dotato di ultrasuoni a bassa frequenza, che hanno una forte azione rilassante sul muscolo. E’ una macchina, inoltre, che ha un potere sonoforetico, cioè favorisce l’assorbimento topico di farmaci miorilassanti”.
Dolore pelvico cronico ed endometriosi
La riabilitazione interviene anche nella terapia del dolore pelvico cronico, che può essere di diversa natura, dovuto per esempio a vaginismo, vulvodinie e all’endometriosi.
Essendo il “Sacro Cuore Don Calabria”, con la Ginecologia diretta dal dottor Marcello Ceccaroni, un centro di riferimento nazionale per questa patologia, abbiamo molte pazienti che si rivolgono alla Riabilitazione per il trattamento del dolore causato dalla malattie o per una riabilitazione post intervento. “La presa in carico delle pazienti con endometriosi è complessa – sottolinea la fisiatra – Soprattutto nel caso di donne che hanno convissuto per anni, a causa di una diagnosi tardiva, con una malattia altamente infiltrante a livello per esempio della vescica e dell’intestino. Le situazioni più compromesse dopo l’intervento presentano difficoltà di minzione e defecazione. Inoltre uno dei particolari sintomi della malattia è il dolore cronico, che interferisce pesantemente con la qualità di vita”.
“In questi casi non si tratta di addestrare la paziente ad esercizi di rinforzo muscolare – riprende la fisioterapista – ma il trattamento è prettamente manuale. Purtroppo laddove la malattia ha raggiunto un elevato stadio di gravità e dove sono stati necessari più interventi chirurgici i risultati sono meno soddisfacenti e si rendono necessari ripetuti cicli di trattamento associati ad adeguato supporto farmacologico“.
La prevenzione
Le disfunzioni del pavimento pelvico, se non causate da patologie, si possono prevenire con alcune norme comportamentali da applicare fin dall’infanzia. “Per esempio – spiega Pazzaglia – non trascurando la stipsi, soprattutto se prolungata. Imparando la giusta modalità di defecazione, per evitare di spingere troppo sul piano muscolare del pavimento, e gestendo in modo corretto la sessualità (i rapporti anali sono un fattore di rischio). Anche l’attività sportiva influisce molto sulla salute del nostro pavimento pelvico: ripetuti esercizi addominali, i cosiddetti crunch, compromettono il tono del muscolo. La pancia piatta si può ottenere con altri esercizi, non meno tosti e forse più efficaci!”.
elena.zuppini@sacrocuore..it
nella foto da sinistra: la dottoressa Monica Pazzaglia e la dottoressa Elena Rossato
Medicina dello Sport ospita l'assemblea regionale dei "medici degli atleti"
Nella sede del Centro di Medicina e Traumatologia dello sport di Negrar si è tenuta l’assemblea regionale della Federazione Medico Sportiva Italiana con la partecipazione del presidente nazionale Casasco e dei presidenti provinciali delle AMSD
Si è tenuta a Verona, al Centro Polifunzionale Don Calabria, sede del Centro di Medicina e Traumatologia dello Sport dell’ospedale di Negrar, l’assemblea regionale della Federazione Medico Sportiva Italiana (FMSI).
Venerdì 20 aprile, l’incontro del Comitato veneto presieduto da Mario Cionfoli ha visto l’eccezionale partecipazione del Consiglio direttivo federale con il presidente nazionale Maurizio Casasco ed è stato aperto ai presidenti delle AMSD-Associazioni Medico Sportive Dilettantistiche (gli organi provinciali della Federazione). Il Veneto è la prima regione in cui all’assemblea partecipa anche il Comitato Federale ed è stata scelto Il Centro di Medicina e Traumatologia dello Sport del “Sacro Cuore” come riconoscimento dell’eccellenza nel campo della tutela sanitaria dello sport agonistico e non. (vedi: Lo sport fa bene anche per le patologie croniche e cardiache)
“La FMSI fa parte del CONI – spiega il dottor Roberto Filippini direttore del Centro di Medicina dello Sport del ‘Sacro Cuore Don Calabria’ e presidente della AMSD di Verona – e ha come soci ordinari i medici specializzati in Medicina dello Sport, i cosiddetti “medici degli atleti“, gli unici che hanno la competenza per intervenire in fase di valutazione, prevenzione, diagnosi e cura di coloro che praticano spot a livello agonistico. Si occupa anche della formazione continua dei medici sportivi, di prevenzione e lotta al doping e di ricerca scientifica applicata. Di fatto la FMSI è la società scientifica di riferimento in Italia della Medicina dello Sport“.
Se la certificazione di idoneità per l’attività agonistica può essere rilasciata esclusivamente dai medici di Medicina dello Sport, quella per l’attività non agonistica è affidata anche ai medici di medicina di generale e ai pediatri di libera scelta per i loro assistiti e ai medici soci aggregati della Federazione. “Per diventare socio aggregato – sottolinea il dottor Filippini – è necessario frequentare un corso di 30 ore tenuto da medici della FMSI. Il prossimo a livello regionale si terrà al nostro Centro di Medicina e Traumatologia dello Sport il 18 e 19 maggio e il 25 e 26 maggio. La qualifica di socio aggregato consente di svolgere anche tutte le attività del medico da campo”.
Durante l’assemblea sono state illustrate le iniziative messe in campo dal Comitato veneto per la tutela sanitaria dell’attività sportiva. Inoltre è stato presentato il corso per i soci aggregati e il convegno nazionale su disabilità e sport che si terrà il prossimo settembre sempre a Verona.
In copertina: in piedi il dottor Roberto Filippini con alla sua destra il presidente nazionale della FMSI, Maurizio Casasco e quello regionale Mario Cionfoli
1988-2018: trent'anni fa il Papa visitava il "Sacro Cuore"
Domenica 17 aprile 1988 Giovanni Paolo II, dopo aver beatificato don Giovanni Calabria e mons. Giuseppe Nascimbeni, si recava alla Cittadella della Carità per incontrare medici, operatori e ammalati. Due video raccontano quella giornata memorabile
“Con viva commozione sono entrato in questa «Cittadella della Carità», sorta per iniziativa di esemplari sacerdoti del presbiterio veronese, quali don Angelo Sempreboni, parroco di Negrar, e il beato don Giovanni Calabria, con la generosa collaborazione delle Piccole Suore della Sacra Famiglia del beato Nascimbeni”.
Era il pomeriggio di domenica 17 aprile 1988, esattamente 30 anni fa, quando queste parole pronunciate da papa Giovanni Paolo II echeggiavano dal grande palco allestito davanti al “Sacro Cuore”,non distante dalla zona dove oggi sorge il ciclotrone. L’emozione era enorme per tutti: medici, operatori, ammalati, familiari, parrocchiani di Negrar, religiosi e religiose… (vedi cronaca e foto della visita).
In tanti ricordano ancora oggi con commozione quella giornata. Il Papa era arrivato a Negrar dopo che al mattino aveva presieduto alla celebrazione per la beatificazione di don Calabria e di mons. Nascimbeni. Quella del Sacro Cuore era la penultima tappa del suo viaggio apostolico a Verona (l’ultima tappa sarebbe stata il santuario di Madonna della Corona). Il Papa fece un lungo giro tra la folla, strinse la mano di tanti ammalati, poi in Sala Perez incontrò i religiosi di don Calabria e le suore di don Nascimbeni.
Nei video pubblicati qui sotto ripercorriamo quella giornata memorabile, nel suo trentesimo anniversario, con la cronaca della visita alla Cittadella della Carità (primo video) e il discorso completo del Papa (secondo video).
Malattia di Chagas: solo 1% dei malati accede a diagnosi e cure
Il 14 aprile si celebra la Giornata mondiale della malattia da cui sono affette 8 milioni di persone originarie del sud-America: il Centro per le malattie tropicali di Negrar ha diagnosticato la maggioranza dei casi conosciuti in Italia tra gli immigrati
Sabato 14 aprile si celebra la Giornata Internazionale della malattia di Chagas, la parassitosi che colpisce nel mondo ancora 8 milioni di persone originarie del sud America, dove è presente la cimice ematofoga, vettore capace di trasmettere l’infezione. Si tratta di patologia cronica, che nel 20% dei casi può evolvere, se non curata in tempo, in una forma mortale: sono infatti ancora 7mila gli uomini e le donne che ogni anno muoiono per la malattia di Chagas.
Anche l’ospedale “Sacro Cuore Don Calabria”, con il suo Centro per le Malattie Tropicali (CMT), diretto dal professor Zeno Bisoffi, è coinvolto in occasione della Giornata mondiale nelle iniziative di sensibilizzazione rivolte alle comunità sudamericane in Italia e ai medici per il riconoscimento dei casi sommersi.
La Global Chagas Coalition, l’organizzazione internazionale di cui fa parte anche il CMT di Negrar, stima che in tutto il mondo solo 1% delle persone affette abbia accesso alle cure sia perché non sanno di aver contratto la malattia sia perché sono pochi i Centri che forniscono il trattamento e si occupano di ricerca attiva. La situazione in Italia è analoga: gli ospedali di riferimento per il Chagas sono solo lo “Spallanzani” di Roma, il “Careggi” di Firenze, gli Ospedali Riuniti di Bergamo e il “Sacro Cuore Don Calabria”, che ha effettuato la diagnosi della maggioranza dei casi conosciuti di malattia nel nostro Paese, circa 600 dal 1998.
Medici ed infermieri bergamaschi e quelli di Negrar domenica 15 aprile saranno impegnati a Bergamo – presso il Centro OIKOS che offre assistenza sanitaria a stranieri privi di tessera sanitaria – per una giornata di screening gratuito rivolto alla numerosa comunità boliviana residente nella zona. La Bolivia, infatti, registra la più alta prevalenza al mondo della malattia di Chagas, soprattutto l’area del Paese, chiamato Grande Chaco, che si estende anche al Paraguay e all’Argentina. Un altopiano rurale dove prolifera la cimice ematofaga. L’iniziativa è organizzata dall’Ailmac Onlus (Associazione Italiana per la Lotta alla Malattia di Chagas) di cui è vicepresidente il dottor Andrea Angheben, responsabile delle reparto del CMT.
L’emersione dei casi sconosciuti di Chagas è fondamentale affinché la malattia venga curata in tempo e non rechi danni irreversibili al tessuto del cuore e all’intestino nei quali può concentrasi il protozoo ematico trasmesso dalla cimice infetta. Il trattamento, che dura due mesi, avviene tramite la somministrazione di benznidazolo e nifurtmox, due farmaci piuttosto efficaci, ma che in Italia – nonostante la presenza di 400mila immigrati latino-americani – non sono registrati e devono essere importati dall’Argentina.
Per quanto riguarda il rischio di infezione, nel nostro Paese è vicino allo zero in quanto non sono presenti le cimici coinvolte nel contagio e le altre vie di trasmissione vengono controllate attraverso l’obbligo di esecuzione di un test diagnostico a tutti i donatori di sangue e d’organo. Resta aperto il capitolo di trasmissione materno-fetale. La possibilità di contagio in questi casi è molto alta, circa il 5%, ma viene totalmente annullata se la donna sudamericana viene sottoposta al test diagnostico e, se necessario, curata prima di eventuali gravidanze. Diventa quindi fondamentale la sensibilizzazione e la formazione dei medici di famiglia, dei ginecologi e delle ostetriche perché invitino le donne in età fertile che provengono dalle aree a rischio (tutta l’America Latina continentale) a sottoporsi al test prima di avere bambini.
Due medici dall'Ucraina per studiare il "sistema Negrar"
Il dottor Oleksandr Ivanchuk e il dottor Yurii Sursaiev, provenienti dal City Hospital di Vynnitsia, sono stati in Valpolicella nell’ambito di una collaborazione promossa dal “Sacro Cuore” insieme alla Nunziatura Apostolica di Kiev
Dall’Ucraina a Negrar per studiare il sistema organizzativo e le procedure messe in atto al “Sacro Cuore-Don Calabria” nella presa in carico del paziente e nel percorso diagnostico-terapeutico, in particolare nell’ambito del pronto soccorso e della terapia intensiva. A intraprendere questo viaggio formativo sono stati due medici del City Hospital of Emergency Care di Vynnitsia, città situata a 260km dalla capitale Kiev, che sono rimasti in Valpolicella dal 26 febbraio all’8 marzo. Si tratta del dottor Oleksandr Ivanchuk, endocrinologo, e del dottor Yurii Sursaiev, direttore del reparto di terapia intensiva.
L’iniziativa fa parte di un progetto di collaborazione promosso dal “Sacro Cuore” insieme alla nunziatura apostolica di Kiev, guidata dal veronese mons. Claudio Gugerotti. “Già lo scorso autunno sono venuti alcuni medici dal City Hospital per conoscere il “Sacro Cuore” e in maggio verranno in visita il direttore sanitario e il sindaco di Vynnitsia, che è responsabile per le strutture sanitarie locali”, spiega il dottor Claudio Bianconi, direttore della Neurologia e uno dei promotori del progetto.
Il rapporto tra il nosocomio calabriano e l’Ucraina si arricchisce dunque di un nuovo capitolo dopo che lo scorso anno un’equipe medica del “Sacro Cuore” ha svolto un ruolo di consulenza per conto di Papa Francesco sui progetti sanitari da finanziare nelle zone teatro di guerra al confine con la Russia. “La sanità di questo Paese è in una fase di grande cambiamento e ammodernamento – aggiunge il dottor Carlo Lorenzi del Pronto Soccorso, che ha seguito i medici ucraini durante la loro permanenza a Negrar – perciò questa collaborazione è importante anche nella prospettiva di aiutare i colleghi a riorganizzare il loro sistema sanitario secondo i più moderni criteri di efficienza“.
Durante la visita, il dottor Ivanciuk è rimasto prevalentemente in Pronto Soccorso, studiando in particolare la gestione dei pazienti, i presìdi medici utilizzati e le linee guida seguite nei casi di emergenza più frequenti, quali gli stroke e gli infarti miocardici. “Al City Hospital di Vynnitsia è in corso una riorganizzazione del dipartimento dedicato alle emergenze – racconta Ivanciuk – per noi è importante avere un riferimento come quello di Negrar. Infatti finora in Ucraina non esiste il pronto soccorso come lo intendete voi, cioè con medici specializzati che intervengono sulle emergenze. È piuttosto una porta di accesso all’ospedale, dove passano tutti, anche per i ricoveri e le visite programmate”.
Il dottor Sursaiev è stato prevalentemente presso il blocco operatorio e il reparto di Terapia Intensiva. “In questi giorni ho notato che ci sono importanti differenze tecniche rispetto al nostro modo di procedere – puntualizza il medico ucraino – In particolare qui a Negrar ci sono standard molto elevati e soprattutto delle rigide procedure di controllo. Il controllo medico sui pazienti è continuo, con l’uso di dispositivi medici di monitoraggio molto avanzati e linee guida dettagliate che garantiscono l’appropriatezza delle cure“. Differenze che secondo i due medici del City Hospital potranno essere molto ridotte se passerà la riforma sanitaria che attualmente è in discussione nel Parlamento di Kiev, prevedendo una riorganizzazione del sistema e un aumento degli investimenti.
Prima di ripartire per Vynnitsia, Ivanciuk e Sursaiev ci tengono a ringraziare il personale del “Sacro Cuore”. “In questi giorni ci siamo sentiti davvero accolti con il sorriso. Anche se la nostra presenza poteva essere impegnativa perché stavamo ad osservare in un luogo dove tutti lavoravano, ci hanno trattato benissimo e ci hanno spiegato tutti gli aspetti di ciò che veniva fatto. Per questo vogliamo ringraziare di cuore”.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
* Nella foto di copertina da sx: dott. Sursaiev, dott. Lorenzi, dott. Bianconi e dott. Ivanciuk
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