Quando il cuore è a corto di ossigeno

Specialisti anche dall’estero sabato 14 gennaio si confronteranno al “Sacro Cuore” sulla cardiopatia ischemica e sulle metodiche di indagine per la diagnosi precoce della malattia che può evolvere nell’infarto miocardico
Quel fiato corto e quel dolore al petto che compaiono durante uno sforzo fisico o in un momento di stress emotivo, mentre rimangono silenti durante le normali attività quotidiane.
Possono essere sintomi di una cardiopatia ischemica, cioè di una condizione che si verifica quando vi è un insufficiente apporto di sangue e quindi ossigeno al cuore. Condizione che, se non diagnosticata precocemente, può portare all’infarto miocardico o alla morte improvvisa.
Il 33% delle morti dovute a malattie cardiovascolari (che restano la prima causa di decesso in Italia) sono causate dalla cardiopatia ischemica.
Proprio sulle metodiche di indagine che permettono una diagnosi precoce della patologia è incentrato il convegno che si terrà sabato 14 gennaio nella sala Perez dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, organizzato dalla Cardiologia, diretta dal professor Enrico Barbieri (vedi foto). Durante la mattinata, che avrà inizio alle 8.30, interverranno specialisti del “Sacro Cuore”, ma anche esperti provenienti dal King’s College di Londra, dall’Università di Verona, Padova e Brescia, dal San Raffaele di Milano e dall’Università Cattolica di Roma (in allegato il programma)
“Parleremo di riserva coronarica – spiega il professor Barbieri – che è la capacità dei vasi che portano il sangue al cuore, le coronarie appunto, di adeguare il flusso sanguigno alle necessità metaboliche del muscolo cardiaco. Se le coronarie sono affette da una patologia aterosclerotica, cioè da un accumulo di grasso lungo le pareti, il flusso di sangue si riduce. Una condizione che viene percepita dal paziente con il classico dolore al petto, spesso in concomitanza con uno sforzo fisico o con una particolare emozione quando infatti il cuore ha una maggiore richiesta di ossigeno”.
La valutazione della riserva coronarica per identificare i pazienti affetti da cardiopatia ischemica prima che si manifesti un episodio acuto come l’infarto, resta una delle principali sfide per i cardiologi. La diagnosi precoce, infatti, ha come obiettivo quello di evitare che la patologia possa progredire e che a seguito della rottura della placca aterosclerotica il paziente possa andare incontro ad un’angina instabile o all’occlusione totale del vaso, quindi all’infarto acuto del miocardio.
La diagnostica cardiologica non invasiva della cardiopatia ischemica si è progressivamente arricchita negli anni. Al tradizionale elettrocardiogramma da sforzo, che rimane la metodica basilare si è associata l’ecocardiografia con stress fisico, farmacologico o elettrico che migliora l’accuratezza diagnostica con la simultanea valutazione del movimento delle pareti ventricolari.
Durante il convegno verrà dedicata una sessione anche alla scintigrafia miocardica e alla PET , che si avvalgono di radiofarmaci per valutare il flusso del sangue nel cuore individuando sia zone ischemiche che necrotiche. La TAC coronarica consente invece di associare allo studio anatomico dati funzionali. Una metodica alternativa è la risonanza magnetica che oltre alla possibilità di individuare l’estensione, con elevato potere di risoluzione, di cicatrici postinfartuali permette, anche mediante somministrazione di farmaci che creano la stessa condizione dello stress fisico di smascherare zone delle coronarie poco irrorate dal sangue.
“Infine – conclude il primario – la valutazione della riserva coronarica può essere eseguita durante la coronarografia nel laboratorio di emodinamica. E’ un esame a cui si ricorre in presenza di stenosi coronariche di grado intermedio (50 – 70 % di occlusione del vaso) per avere indicazioni per un migliore trattamento: dilatazione con palloncino, inserimento di stent oppure terapia farmacologica”.
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Dopo mezzo secolo il dottor Giorgio Carbognin, responsabile medico di Casa Nogarè, appende idealmente il camice al chiodo. Con lui va in pensione anche un pezzo di storia dell’ospedale di Negrar
E’ un saluto sereno, velato da un po’ di malinconia, anche se mitigata dalla prospettiva di avere più tempo per camminare e sciare sulle sua amate montagne della Val Badia.
Il dottor Giorgio Carbognin dopo cinquant’anni lascia l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e appende il camice al chiodo. Idealmente, perché quando si è medici, si è medici per sempre.
Ci riceve nel suo studio, al primo piano di Casa Nogarè, dove dal 2002 è responsabile medico della struttura, su cui gravitano una Casa di riposo, una Residenza Sanitaria Assistenziale e una Speciale Unità di Accoglienza Permanente, dedicata alle persone in stato vegetativo.
Dal suo racconto prende forma la storia dell’ospedale di Negrar, che ha dell’incredibile se la si guarda con gli occhi di oggi. “Ha avuto uno sviluppo prodigioso”, dice il dottor Carbognin senza esitazioni. “Nessuno può capirlo se non ha vissuto questi cinquant’anni. Quando ho iniziato al “Sacro Cuore” e al geriatrico “Don Calabria” lavoravano in tutto nove medici – sottolinea -. I primari Luigi Vantini (Geriatria), Bortolo Zanuso (Chirurgia generale), Augusto Cavalleri (Medicina interna), Claudio Nez (Ginecologia), e Dario Salgari (Radiologia). Ad affiancarli eravamo noi giovani: Gastone Orio, anestesista e poi direttore sanitario, Nereo Pavoni, nominato in seguito primario della Pediatria, ed io. Non era come adesso, si faceva un po’ di tutto: sono stato anche assistente in sala operatoria ed entravo in sala parto quando ce n’era bisogno. Affrontavo con entusiasmo anche venti guardie al mese”.
Il giovane medico Giorgio Carbognin è arrivato in Valpolicella nel 1966 chiamato da don Luigi Pedrollo, il primo successore di san Giovanni Calabria (foto 1).
“Quando don Luigi venne a cercarmi – racconta – lavoravo all’ospedale di Merano. Mi disse di presentarmi da fratel Oliviero Prospero, che era il responsabile della struttura di Negrar. Avevano bisogno di qualcuno che si occupasse del reparto di Ginecologia. Accettai e mi iscrissi subito alla scuola di specializzazione di Ginecologia, ma mi accorsi presto che non era proprio la mia strada. Così quando il dottor Cavalleri manifestò la necessità di un medico in Medicina che lo affiancasse, divenni il suo aiuto. Di conseguenza dalla specializzazione in Ginecologa passai a Parma a quella di Medicina interna e successivamente portai a termine anche quella in Cardiologia”.
Dopo alcuni anni da aiuto, al dottor Carbognin fu proposto da fratel Pietro Nogarè il primariato del Geriatrico. “Era il 1972: avevo 33 anni ed ero il più giovane primario d’Italia”.
Allora il Geriatrico comprendeva l’intera struttura del “Don Calabria”: sei piani interamente dedicati ai pazienti anziani.
“All’inizio ero l’unico medico – prosegue – poi sono arrivati il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Salvi. Insieme abbiamo pensato e poi proposto all’amministrazione di trasformare l’ospedale in una struttura per lungodegenti con indirizzo riabilitativo. La prima di questo tipo in Italia. Un progetto che teneva conto della condizione degli anziani a lungo allettati per una frattura o un intervento chirurgico oppure una severa broncopolmonite. Allora non esistevano strutture che grazie alla riabilitazione li riportasse all’autonomia. Con la trasformazione del Geriatrico intendevamo proprio colmare questa lacuna”.
Nasce così il primo nucleo dell’attuale Dipartimento di Riabilitazione, oggi centro di riferimento a livello nazionale soprattutto per le mielolesioni e gli esiti da trauma cranico.
Con il passare degli anni al “Don Calabria” trovarono spazio anche l’Oncologia e altre specialità, tra cui il Centro per le Malattie Tropicali. “Io assunsi la direzione del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitativa che mantenni fino al 2002 quando, raggiunta l’età pensionabile, la direzione mi chiese di occuparmi di casa Nogarè”.
Il 31 dicembre il dottor Carbognin passa il testimone al dottor Giovanni Vantini, figlio di Luigi, “uno dei miei tanti maestri”.
“Lavorare in questo ospedale per cinquant’anni è stata un’esperienza meravigliosa – afferma – Ringrazio sempre Dio di avermi dato questa opportunità. Per me è stata una gioia, non mi è mai costato fatica, anzi. Anche grazie all’ottimo rapporto che ho avuto con le varie direzioni che si sono succedute, con i colleghi e con il personale. Questo ospedale è per me una seconda casa e una famiglia”.
Nel cuore tante “persone meravigliose”. “Sono stato il medico di don Pedrollo, oserei dire un santo, che ho accompagnato fino all’ultimo istante della sua vita – dice orgoglioso -. Come lo sono stato di tanti fratelli calabriani. Prima di diventare primario ero il medico anche dei ragazzi di Casa Nazareth a San Zeno in Monte. Ho avuto la fiducia professionale e l’amicizia di uomini e pastori eccezionali, come i vescovi Giuseppe Carraro e Giuseppe Amari.(foto 2)
Non credo che avrei potuto desiderare di più. A tutti coloro con cui ho diviso questo lungo tratto di strada va la mia più grande riconoscenza”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Il primario più giovane d'Italia lascia dopo 50 anni il "Sacro Cuore"

Dopo mezzo secolo il dottor Giorgio Carbognin, responsabile medico di Casa Nogarè, appende idealmente il camice al chiodo. Con lui va in pensione anche un pezzo di storia dell’ospedale di Negrar
E’ un saluto sereno, velato da un po’ di malinconia, anche se mitigata dalla prospettiva di avere più tempo per camminare e sciare sulle sua amate montagne della Val Badia.
Il dottor Giorgio Carbognin dopo cinquant’anni lascia l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e appende il camice al chiodo. Idealmente, perché quando si è medici, si è medici per sempre.
Ci riceve nel suo studio, al primo piano di Casa Nogarè, dove dal 2002 è responsabile medico della struttura, su cui gravitano una Casa di riposo, una Residenza Sanitaria Assistenziale e una Speciale Unità di Accoglienza Permanente, dedicata alle persone in stato vegetativo.
Dal suo racconto prende forma la storia dell’ospedale di Negrar, che ha dell’incredibile se la si guarda con gli occhi di oggi. “Ha avuto uno sviluppo prodigioso”, dice il dottor Carbognin senza esitazioni. “Nessuno può capirlo se non ha vissuto questi cinquant’anni. Quando ho iniziato al “Sacro Cuore” e al geriatrico “Don Calabria” lavoravano in tutto nove medici – sottolinea -. I primari Luigi Vantini (Geriatria), Bortolo Zanuso (Chirurgia generale), Augusto Cavalleri (Medicina interna), Claudio Nenz (Ginecologia), e Dario Salgari (Radiologia). Ad affiancarli eravamo noi giovani: Gastone Orio, anestesista e poi direttore sanitario, Nereo Pavoni, nominato in seguito primario della Pediatria, ed io. Non era come adesso, si faceva un po’ di tutto: sono stato anche assistente in sala operatoria ed entravo in sala parto quando ce n’era bisogno. Affrontavo con entusiasmo anche venti guardie al mese”.
Il giovane medico Giorgio Carbognin è arrivato in Valpolicella nel 1966 chiamato da don Luigi Pedrollo, il primo successore di san Giovanni Calabria (foto 1).
“Quando don Luigi venne a cercarmi – racconta – lavoravo all’ospedale di Merano. Mi disse di presentarmi da fratel Oliviero Prospero, che era il responsabile della struttura di Negrar. Avevano bisogno di qualcuno che si occupasse del reparto di Ginecologia. Accettai e mi iscrissi subito alla scuola di specializzazione di Ginecologia, ma mi accorsi presto che non era proprio la mia strada. Così quando il dottor Cavalleri manifestò la necessità di un medico in Medicina che lo affiancasse, divenni il suo aiuto. Di conseguenza dalla specializzazione in Ginecologa passai a Parma a quella di Medicina interna e successivamente portai a termine anche quella in Cardiologia”.
Dopo alcuni anni da aiuto, al dottor Carbognin fu proposto da fratel Pietro Nogarè il primariato del Geriatrico. “Era il 1972: avevo 33 anni ed ero il più giovane primario d’Italia”.
Allora il Geriatrico comprendeva l’intera struttura del “Don Calabria”: sei piani interamente dedicati ai pazienti anziani.
“All’inizio ero l’unico medico – prosegue – poi sono arrivati il dottor Gianfranco Rigoli e il dottor Giorgio Salvi. Insieme abbiamo pensato e poi proposto all’amministrazione di trasformare l’ospedale in una struttura per lungodegenti con indirizzo riabilitativo. La prima di questo tipo in Italia. Un progetto che teneva conto della condizione degli anziani a lungo allettati per una frattura o un intervento chirurgico oppure una severa broncopolmonite. Allora non esistevano strutture che grazie alla riabilitazione li riportasse all’autonomia. Con la trasformazione del Geriatrico intendevamo proprio colmare questa lacuna”.
Nasce così il primo nucleo dell’attuale Dipartimento di Riabilitazione, oggi centro di riferimento a livello nazionale soprattutto per le mielolesioni e gli esiti da trauma cranico.
Con il passare degli anni al “Don Calabria” trovarono spazio anche l’Oncologia e altre specialità, tra cui il Centro per le Malattie Tropicali. “Io assunsi la direzione del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitativa che mantenni fino al 2002 quando, raggiunta l’età pensionabile, la direzione mi chiese di occuparmi di casa Nogarè”.
Il 31 dicembre il dottor Carbognin passa il testimone al dottor Giovanni Vantini, figlio di Luigi, “uno dei miei tanti maestri”.
“Lavorare in questo ospedale per cinquant’anni è stata un’esperienza meravigliosa – afferma – Ringrazio sempre Dio di avermi dato questa opportunità. Per me è stata una gioia, non mi è mai costato fatica, anzi. Anche grazie all’ottimo rapporto che ho avuto con le varie direzioni che si sono succedute, con i colleghi e con il personale. Questo ospedale è per me una seconda casa e una famiglia”.
Nel cuore tante “persone meravigliose”. “Sono stato il medico di don Pedrollo, oserei dire un santo, che ho accompagnato fino all’ultimo istante della sua vita – dice orgoglioso -. Come lo sono stato di tanti fratelli calabriani. Prima di diventare primario ero il medico anche dei ragazzi di Casa Nazareth a San Zeno in Monte. Ho avuto la fiducia professionale e l’amicizia di uomini e pastori eccezionali, come i vescovi Giuseppe Carraro e Giuseppe Amari.(foto 2)
Non credo che avrei potuto desiderare di più. A tutti coloro con cui ho diviso questo lungo tratto di strada va la mia più grande riconoscenza”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Per un Natale di semplicità e umanità

Un Natale da riscoprire nei piccoli gesti di accoglienza e amore della vita quotidiana. È questo il cuore del messaggio che il Casante dell’Opera Don Calabria ha rivolto a tutto il personale della Cittadella della Carità in questi giorni di festa
In occasione del Santo Natale, il Casante dell’Opera Don Calabria, padre Miguel Tofful, ha rivolto un messaggio a tutto il personale della Cittadella della Carità. Eccone un breve ma significativo passaggio:
“… Oggi siamo dunque chiamati a riconoscere il Natale nella semplicità della vita, nei rapporti umani quotidiani, nei piccoli atteggiamenti che tante volte ignoriamo perché non li riteniamo importanti e significativi, perché non fanno notizia e non hanno un ritorno economico.
Oggi la Parola ci annuncia che questo grande mistero può accadere nella mia vita e nella tua vita nella misura in cui ci lasciamo sorprendere dalle cose semplici come i bambini. Non chiudiamo lo sguardo e il nostro cuore; non irrigidiamoci nella nostra verità. Siamo invitati in questo Natale a trovare Gesù Bambino fragile nelle nostre fragilità; a scoprire questo Bambino nelle persone che abbiamo intorno, a vedere questo Bambino negli ambienti dove lavoriamo e con le persone che incontriamo, principalmente con i malati e i poveri” (vedi messaggio completo in allegato).
Unendoci alle parole del Casante, rinnoviamo a tutti gli auguri di un buon Natale e di un felice Anno Nuovo. Insieme agli auguri pubblichiamo nella gallery alcune foto del canto della stella nei reparti, una bella iniziativa che ha visto protagonisti molti volontari dell’ospedale nei giorni scorsi (vedi foto).
Infine ricordiamo che le celebrazioni delle festività natalizie alla Cittadella della Carità avverranno secondo il seguente calendario:
Sabato 24 dicembre – nella cappella del Sacro Cuore ci sarà alle 17.30 la S. Messa prefestiva. Alle 22.00 la Messa della notte di Natale. Nelle altre cappelle le Messe avranno l’orario feriale.
Domenica 25 dicembre (Santo Natale) – S. Messe con orario festivo in tutte le cappelle.
Sempre S. Messe con orario festivo nei giorni di lunedì 26 dicembre (Santo Stefano), domenica 1 gennaio (Capodanno) e venerdì 6 gennaio (Epifania).
ufficio.stampa@sacrocuore.it
Nasce la Onlus del "Sacro Cuore" dedicata al paziente oncologico

“Paziente Oncologico Ospedale Sacro Cuore Don Calabria” ha lo scopo di sostenere tutte le iniziative di carattere socio-assistenziale e scientifico a favore della persona malata di tumore e dei suoi familiari
Dopo la nascita del Cancer Care Center e l’attivazione del “Numero Verde per la cura del tumore” (800 143 143), l‘Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar ribadisce la propria vocazione oncologica costituendo un’associazione dedicata ai malati di cancro e ai loro familiari.
“Paziente Oncologico Ospedale Sacro Cuore Don Calabria Negrar Onlus”, questo è il nome dell’associazione, ha lo scopo di sostenere iniziative e attività che hanno l’obiettivo di supportare le persone affette da patologia oncologica durante il percorso di cura, provvedendo alle loro necessità socio-assistenziali.
Ma l’associazione si impegna anche nella promozione della ricerca, senza la quale non può esserci buona assistenza, nell’organizzazione di corsi per l’aggiornamento dei medici e del personale sanitario che opera in campo oncologico, nel coinvolgimento di istituzioni, enti pubblici e privati cittadini in progetti di prevenzione, cura e ricerca contro il cancro.
Presieduta dal presidente dell’ospedale di Negrar, fratel Gedovar Nazzari, la nuova ONLUS accoglie come soci tutti coloro – anche enti pubblici e privati – che hanno a cuore le finalità dell’associazione e vogliono impegnarsi concretamente per realizzarle.
Chi volesse contribuire ai progetti può farlo con un versamento a:
PAZIENTE ONCOLOGICO OSPEDALE SACRO CUORE D. CALABRIA NEGRAR-ONLUS IBAN: IT54V0569611700000003270X13 presso BANCA POPOLARE DI SONDRIO causale: donazione
Retina artificiale: tutto pronto per lo studio preclinico sull'uomo

La dottoressa Grazia Pertile parla di un progetto ormai in fase avanzata che, se darà i risultati sperati, potrebbe cambiare la vita delle persone affette da patologie degenerative della retina. Un progetto che vede il Sacro Cuore in prima fila
La retina artificiale tutta “made in Italy” è pronta per la sperimentazione sull’uomo. Per l’impianto della piccolissima cella fotovoltaica, che ha già dato risultati lusinghieri su ratti e maialini ciechi, mancano solo le autorizzazioni previste per legge. Se gli interventi daranno gli esiti sperati, la retina artificiale potrebbe cambiare radicalmente la vita delle persone affette da patologie degenerative che possono portare alla totale cecità. Come la retinite pigmentosa, malattia genetica che ha un’incidenza di un caso ogni 3.500 persone, una parte delle quali perdono totalmente la vista prima dei 20 anni.
Il progetto, che ha ottenuto due importanti finanziamenti Telethonper la ricerca sulle malattie genetiche, vede l’impegno di un team multidisciplinare formato, per quanto riguarda la microchirurgia vitreo-retinica, dall’équipe della dottoressa Grazia Pertile, direttore dell’Unità di Oculistica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, dal gruppo del professor Guglielmo Lanzani, fisico del Politecnico e direttore del Centro di nanoscienze e tecnologia dell’Istituto italiano di tecnologia (IIT) di Milano, e da quello del professor Fabio Benfenati, direttore del Dipartimento di Neuroscienze e neurotecnologie dell’IIT di Genova. Partecipa allo studio anche la professoressa Silvia Bisti del Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologia dell’Università dell’Aquila (nel filmato in videogallery la dottoressa Pertile parla del progetto alla trasmissione Unomattina di Raiuno).
“Il polimero una volta impiantato sotto la retina – spiega la dottoressa Pertile, uno dei massimi esperti internazionali di microchirurgia retinica – agisce come una vera e propria cella foltovoltaica, capace di catturare il segnale luminoso, trasformarlo in elettrico per poi inviarlo al cervello dove verrà codificato in immagine“. A differenza di altri già in commercio, questo impianto fotovoltaico non ha bisogno di essere alimentato dall’esterno.
Come riportano gli articoli pubblicati prima su Nature Photonics e poi su Advanced Healthcare Materials, la prima fase dello studio è stata realizzata su tre tipi di ratti: vedenti, ciechi e ciechi con l’impianto. “Si è osservato – prosegue la dottoressa Pertile – un significativo recupero della vista da parte dei ratti non vedenti su cui è stato inserito il polimero. Recupero che abbiamo misurato attraverso test di comportamento e la valutazione dell’intensità del segnale evocato a livello della corteccia cerebrale da un adeguato stimolo visivo”. La seconda parte della ricerca ha riguardato la biocompatibilità del polimero. “L’impianto sui maiali ha confermato ciò che avevamo già verificato sui ratti – sottolinea il chirurgo -. Il polimero è formato da materiale organico altamente biocompatibile e non va incontro a rigetto”.
Ora la fase cruciale sull’uomo. “E’ fondamentale – spiega – perché solo l’occhio umano, notevolmente più complesso di quello dei ratti, può fornirci le informazioni sulla reale efficacia della “retina artificiale”. Solo con questa sperimentazione possiamo conoscere il livello quantitativo e qualitativo di un eventuale recupero della vista da parte di una persona cieca In base alle indicazioni che otterremo potremo apportare le correzioni tecnologiche necessarie”.
I pazienti non vedenti idonei alla sperimentazione dovranno avere determinate caratteristiche oculistiche e psicofisiche. “Purtroppo non possono essere prese in considerazione le persone cieche dalla nascita, perché essendo l’occhio un recettore dell’impulso che viene dal cervello, se l’occhio non ha mai visto, la parte cerebrale interessata alla vista non ha avuto il modo di svilupparsi”, conclude la dottoressa Pertile.
La gravidanza nell'epoca dei viaggi e delle migrazioni

Si farà il punto su Zika e sulle altre infezioni pericolose per una donna incinta e per il suo bambino, da quelle classiche a quelle meno conosciute, nel convegno organizzato a Verona il 15 e 16 dicembre da Ulss 20 e Centro per le Malattie Tropicali
Da una parte le infezioni classiche da tenere sotto controllo durante la gravidanza perchè potenzialmente dannose per il feto: rosolia, toxoplasmosi, Cytomegalovirus. Dall’altra tutta una serie di patologie meno conosciute, ma ugualmente da tenere in considerazione se la donna incinta arriva da un Paese lontano o ha viaggiato in luoghi dove queste patologie sono endemiche.
Di tutto questo si parlerà durante il convegno “La gravidanza nella salute globale” in programma alla Gran Guardia di Verona il 15 e 16 dicembre, organizzato dall’Ulss 20 in collaborazione con il Centro per le Malattie Tropicali dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Zeno Bisoffi. Si tratta di un aggiornamento dedicato agli esperti del settore nell’ambito del Programma regionale per i viaggiatori internazionali, di cui è responsabile la dottoressa Giuseppina Napolitano (vedi programma completo).
“La diffusione del virus Zika ha riportato al centro dell’attenzione il tema della gravidanza e della prevenzione in un contesto dove moltissime persone ogni anno si spostano da un continente all’altro”, dice il dottor Federico Gobbi, infettivologo del Centro per le Malattie Tropicali (vedi foto). “Ma la vera sfida, al di là di Zika, è sviluppare un approccio globale alla salute della donna in gravidanza, basato sulla collaborazione tra i vari specialisti coinvolti: ginecologi, pediatri, ma anche infettivologi ed esperti di medicina dei viaggiatori, soprattutto quando si parla di donne migranti”.
Come accennato, i fronti su cui intervenire sono due. Anzitutto le malattie infettive classiche che possono creare problemi in gravidanza, dal morbillo alla rosolia, dalla parotite alla varicella. Di queste si parlerà nella prima parte del convegno, con particolare rilievo al tema dei vaccini che rappresentano la principale fonte di prevenzione. Un tema particolarmente caldo, visto il dibattito innescato dal calo nella copertura vaccinale verificatosi negli ultimi anni in Veneto. Altri focus saranno dedicati a epatite B, pertosse, influenza, toxoplasmosi e Cytomegalovirus.
Il secondo fronte riguarda le malattie d’importazione che hanno un impatto sulla gravidanza. Si tratta in primis di malattie acute che possono essere contratte dai viaggiatori che si recano in zone a rischio. Il riferimento è al virus Zika e agli altri virus di solito trasmessi dalla puntura di zanzare infette, come dengue, chikungunya, febbre gialla, oltre, naturalmente, al plasmodio della malaria. Ma al di là delle malattie acute ci sono patologie croniche, come le parassitosi, che i migranti possono aver contratto nel loro Paese di origine senza nemmeno saperlo. È il caso della malattia di Chagas, endemica in America Latina, oppure della schistosomiasi o della strongiloidosi. Malattie quasi dimenticate in Italia e in Occidente, ma che se non diagnosticate possono interferire in modo pesante con la gravidanza e con la salute del bambino. A queste patologie d’importazione sarà dedicata tutta la seconda parte del convegno, con uno spazio di approfondimento riservato ai rischi correlati alla tubercolosi e all’Hiv.
“Quando un medico prende in carico una donna incinta e si rende conto che potrebbe essere stata a contatto con qualcuna di queste patologie, sarebbe importante che la inviasse ad un centro specializzato per uno screening ed eventualmente per una profilassi – sottolinea Gobbi – Infatti in molti casi i problemi sono risolvibili, se individuati correttamente. Per questo sarebbe opportuno un approccio più sistematico, facendo rete tra i vari specialisti in un’ottica di salute globale, differenziando gli screening a seconda della zona di provenienza delle pazienti”.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
A Negrar il convegno veneto della Società italiana di Psiconcologia
E’ questo il tema del convegno veneto della Società Italiana di Psiconcologia che si terrà all’ospedale di Negrar il 16 e 17 dicembre, nell’ambito del quale avrà luogo il primo incontro di formazione dedicato a SIPO Giovani e a AIOM Giovani
Si terrà all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria il convegno veneto della Società Italiana di Psiconcologia (SIPO). L’evento sarà diviso in due giornate. Venerdì 16 dicembre i partecipanti rifletteranno sul tema “La cultura dell’accoglienza del paziente oncologico”, mentre il giorno successivo, sabato 17 dicembre, avrà luogo il primo incontro tra SIPO Giovani e AIOM Giovani (Associazione Italiana Oncologia Medica), un momento di formazione finalizzato alla trasmissione di nozioni di base relative alla metodologia di ricerca in Psicologia clinica. (in allegato il programma)
Saranno più di 40 i relatori e i moderatori che nel corso della prima giornata declineranno nei vari aspetti il tema dell’accoglienza, un elemento fondamentale nella presa in carico di ogni paziente in un contesto di umanizzazione delle cure, ma in particolare di coloro che sono affetti da una patologia oncologica.
“Il cancro è ancora una malattia che più delle altre, nonostante i progressi della medicina, suscita grande paura, incertezza e angoscia – spiega il dottor Giuseppe Deledda, responsabile scientifico del convegno e direttore del Servizio di Psicologia clinica dell’ospedale di Negrar -. Per questo il paziente fin da quando inizia il suo percorso non chiede solo di essere curato bene, ma anche sostegno per gestire gli aspetti umani e affettivi. Chiede un luogo dove potersi fidare e affidare la propria vita, protezione per sé, ma anche per i suoi cari, dalle emozioni e dai pensieri di morte che evoca il tumore“.
Si tratta quindi di un convegno pensato non solo per gli psicologi, “perché l’accoglienza è un modus operandi proprio di ogni operatore con cui il paziente viene in contatto all’interno dell’ospedale. E’ un atteggiamento empatico – sottolinea il dottor Deledda, -. Un entrare in relazione fraterna con l’altro, mantenendo intatto l’aspetto professionale.
Tuttavia l’accoglienza non deve essere lasciata solo alla buona volontà o alla spontaneità degli operatori, ma deve essere strutturata, partendo dal basso. Deve nascere da un’attenta lettura dei bisogni, che necessita di essere nel tempo riconsiderata in ragione di nuove esigenze da parte del paziente.
Il paziente che riceve la diagnosi di tumore ha infatti esigenze diverse rispetto a colui che inizia le cure oppure alla persona che si trova di fronte a una recidiva della malattia o in fine vita”
L’accoglienza si diversifica anche – come illustrerà una sessione del convegno – in relazione all’età o al sesso di un paziente o di fronte a una mamma, in quanto la relazione madre-figlio è un aspetto da considerare e da tutelare nella presa in carico del paziente oncologico.
Durante la giornata di venerdì sarà analizzato anche quanto sia importate il ruolo delle associazioni di volontariato e il coinvolgimento dei familiari.
“L’accoglienza è un processo che in generale parte prima di tutto da noi stessi – sottolinea lo psicologo -. L’operatore in campo oncologico deve saper accettare il proprio disagio di fronte alla malattia per essere in grado di accogliere il disagio del malato. Inoltre se l’accoglienza non si realizza all’interno della stessa équipe, l’efficacia del lavoro professionale può risentirne”.
Durante il trattamento il paziente viene preso in carico da diverse figure professionali con la conseguenza che egli può maturare l’impressione di una mancanza di continuità. Lo psicologo diventa allora una sorta di “contenitore” unificante della vicenda umana della malattia. “Siamo una presenza costante nel tempo, anche per anni”, spiega il dottore Deledda, che nell’ambito del Servizio di Psicologia clinica collabora con i colleghi Sara Poli e Matteo Giansante.
“Noi incontriamo in genere i pazienti per la prima volta in Oncologia, dopo la diagnosi o durante le terapie – afferma – e consigliamo loro un colloquio psicologico. Capita talvolta che all’inizio ci sia un rifiuto, ma non di rado sono gli stessi pazienti a chiederci un incontro quando li avviciniamo successivamente in reparto, a volte sollecitati da altri pazienti che nei colloqui hanno trovato una risorsa. Da alcuni anni osserviamo che sono sempre meno i pazienti che non intendono intraprendere un percorso psicologico. Forse perché la nostra figura, anche grazie ai media, è diventata più familiare e rassicurante, non più associata esclusivamente alla malattia mentale come un tempo“.
Nel corso del primo incontro di formazione SIPO Giovani (di cui il dottor Matteo Giansante è coordinatore nazionale) e AIOM Giovani saranno anche presentati i requisiti fondamentali per la realizzazione di un protocollo sanitario e di ricerca, nonché l’iter amministrativo per l’accettazione dello stesso da parte di enti proponenti e del Comitato etico di appartenenza.
Informazioni e iscrizioni: Servizio di Psicologia clinica dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, tel. 045.6013048 e psicologia@sacrocuore.itoppure info@gammacongressi.it
elena.zuppini@sacrocuore.it
Tutte le risposte sulle mielolesioni in un Blue Book

Anche l’eccellenza riabilitativa per le gravi mielolesioni dell’ospedale Sacro Cuore nella terza edizione del manuale-guida dedicato a tutti coloro che hanno subito gravi danni alla colonna vertebrale
La Bibbia del mieloleso. A definire così il Blue Book è Giancarlo Volpato e lui di lesioni midollari purtroppo se ne intende. Era infatti il 1993 quando entrò come protagonista nel mondo delle persone con disabilità di cui il 3 dicembre si celebra la Giornata internazionale.
Nel corso di una partita di rugby, a soli 20 anni, Giancarlo subì la frattura della quarta e quinta vertebra cervicale che lo rese tetraplegico, cioè completamente paralizzato dal collo in giù.
Ora è l’anima de “La Colonna”, l’Associazione Lesioni Spinali ONLUS, con sede a Mirano in provincia di Venezia, che ha pubblicato nel 1998 la prima edizione del Blue Book, appunto, un manuale con “201 risposte alla mielolesione”, come recita il sottotitolo. Nel 2005 è arrivata la seconda edizione, mentre il 2016 è l’anno della terza, realizzata anche sulla spinta dell’aumento delle visite giornaliere al sito www.lesionispinali.org per consultare la versione digitale del libro.
Il Blue Book è un corposo volume di 400 pagine, che ha tuttavia la peculiarità di essere facilmente fruibile ogni volta che si presenta la necessità, essendo stata riproposta la tradizionale formula a “domande e risposte”, divise in 19 capitoli.
Una guida che “dovrebbe essere sempre tenuta a disposizione e consultata, non solo da chi è toccato direttamente o indirettamente da una lesione midollare, ma anche da coloro che sono colpiti da traumi o da malattie neurologiche che possono provocare gli stessi effetti collaterali”, scrive Volpato nella Presentazione. A rendere ancora più comprensibili i testi sono i disegni anatomici di Ilaria Bondi.
Ad avere un ruolo di primo piano in questa ultima revisione è anche l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, riconosciuto a livello nazionale come centro di eccellenza per il trattamento e la riabilitazione delle mielolesioni e dei gravi esiti di trauma cranico.
Infatti uno dei due storici autori (l’altro è la dottoressa Judit Timar) è il dottor Mauro Menarini, oggi consulente fisiatra dell’Unità Spinale dell’ospedale scaligero, diretta dal dottor Giuseppe Armani.
Menarini si occupa da oltre 25 anni di riabilitazione delle mielolesioni ed ha sviluppato una particolare esperienza nel settore neurologico e nel trattamento della spasticità, maturata anche all’estero.
Dell’ospedale fondato da San Giovanni Calabria hanno collaborato anche gli infermieri Simone Bajardo e Roberto Gagliardi nella stesura della parte sulla medicazione delle piaghe da decubito ed il fisioterapista Giovanni Brunelli nell’illustrare l’utilizzo dell’esoscheletro, versatile innovazione tecnologica in riabilitazione adottato dall’ospedale di Negrar nel 2015.
Ma soprattutto la nuova edizione è arricchita dai disegni realizzati dai pazienti ricoverati negli anni presso l’Unità Spinale del “Sacro Cuore”. Sono le opere frutto della creatività di coloro che frequentano l’Atelier di Arteterapia, guidato da Charlotte Trachsel, all’interno del Servizio di Medicina Fisica e Riabilitazione, diretto dal dottor Renato Avesani, responsabile anche dell’intero Dipartimento di Riabilitazione.
I disegni coloratissimi sono “arte”, ma soprattutto “terapia” perché, scrive Trachsel, “l’atto creativo permette alla persona di mettersi in contatto con gli aspetti più intimi e nascosti di sé, si lavora per ritrovare un equilibrio con la convinzione che lo si può ricercare in ogni situazione durante l’intero arco dell’esistenza”.
A curare la distribuzione del Blue Book è la stessa associazione “La Colonna” i cui soci si prodigano nella raccolta di fondi per l’acquisto di dispositivi medici da utilizzare nella diagnosi e cura delle lesioni midollari. Ma soprattutto da destinare alla ricerca.
Negli ultimi tempi le risorse sono state impiegate nel progetto del professor Guido Fumagalli dell’Università di Verona sulle cellule staminali neuronali contenute nelle meningi. Alla ricerca è riservata una “lettura magistrale” dello stesso Fumagalli nell’ultima parte del libro.
Tumori neuroendocrini: medici di base e specialisti per la cura del paziente

Il ruolo fondamentale del medico di medicina generale per la presa in carico del paziente affetto da Net: se ne parla sabato 3 dicembre in un convegno all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria
L’ospedale Sacro Cuore Don Calabria lancia un progetto pilota di collaborazione con i medici di medicina generale per la presa in carico dei pazienti affetti da tumori neuroendocrini (NET-Neuroendocrine Tumours), una patologia neoplastica rara che conta 2-5 nuovi casi all’anno ogni 100mila persone.
Il primo incontro si terrà sabato 3 dicembre nella sala convegni Fr. Perez ed è promosso dall’Ambulatorio multispecialistico NET, coordinato dall’oncologa Stefania Gori e dal chirurgo Letizia Boninsegna.
I NET del pancreas, del tratto gastrointestinale e del polmone sono un gruppo eterogeneo di patologie sia per localizzazione sia per aggressività (benigni o maligni) che hanno origine dalle cellule del sistema neuroendocrino. A differenza di altre forme tumorali che colpiscono lo stesso organo, per esempio il pancreas, hanno ampie opportunità terapeutiche e prognosi favorevoli.
“Se adeguatamente seguiti in tutte le fasi della malattia, sono pazienti che hanno una lunga aspettativa di vita e possono godere di una buona qualità di vita. Personalmente sto seguendo persone che ho operato nel 1997 e oggi stanno bene – spiega la dottoressa Boninsegna -. Proprio per questo lungo percorso di malattia è molto importante la collaborazione dei medici di medicina generale, che devono essere e sentirsi direttamente coinvolti nella gestione del paziente. In particolare durante il follow up, sapendo riconoscere in tempo un’eventuale recrudescenza della patologia. Il nostro intento quindi è creare un filo diretto con i medici di base del Veronese, cosa che già avviene con quelli dei nostri pazienti”.
I tumori neuroendocrini raramente necessitano di chemioterapia poiché la loro caratteristica è la presenza di recettori sulla membrana cellulare “Essi sono come le serrature delle porte, indicano quale chiave usare per entrare nella cellula – spiega ancora il chirurgo – L’80-90% dei NET dispongono dei recettori della somatostatina. Farmaco che viene somministrato al paziente ogni mese nello studio del suo medico di famiglia, che ha così l’opportunità periodica, più dello specialista, di valutare lo stato di salute del paziente”.
La giornata di sabato 3 dicembre (vedi programma allegato) avrà una prima parte in cui verranno presentati dagli specialisti dell’Ambulatorio NET le modalità diagnostiche e i trattamenti dei tumori neuroendrocrini, mentre nella seconda parte sarà lasciata la parola ai medici di medicina generale che esporranno la loro esperienza nella gestione dei pazienti.
All’incontro interverranno anche la professoressa Paola Tomassetti, dell’Università di Bologna, una delle massime esperte nazionali di questa forma tumorale, e il vicepresidente nazionale dell’Associazione pazienti NetItaly, Giorgio Piffer, che porterà la voce dei malati.
L’Ambulatorio NET segue un centinaio di pazienti con circa cinque nuovi casi all’anno ed è inserito all’interno del Dipartimento Oncologico, diretto dalla dottoressa Gori. Ne fanno parte specialisti anatomopatologi, chirurghi generali e toracici, endocrinologi, diabetologi, gastroenterologi, medici nucleari, oncologi, radiologi e radiologi interventistici, e psicologi.
“Il “Sacro Cuore Don Calabria ha una caratteristica unica per la presa in carico dei pazienti colpiti da questa forma tumorale – conclude la dottoressa Boninsegna – in quanto dispone in loco di tutte le specialità e di tutta la tecnologia necessarie per la diagnosi, la terapia e il follow up richiesti da questa patologia”.
Per informazioni e iscrizioni al convegno: 045.6013208 o www.sacrocuore.it alla voce “Formazione” nel menù.

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