Il Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali confermato Centro collaboratore dell'OMS
Il Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali e Microbiologia è stato confermato Centro collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la strongiloidosi e le altre malattie tropicali neglette (Neglected Tropical Disease – NDT). L’ufficializzazione è arrivata nei giorni scorsi con una lettera del direttore OMS Europa, Hans Henri P. Kluge, dopo le opportune verifiche a cui tutti i Centri sono sottoposti ogni quattro anni.
Il Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali e Microbiologia è stato confermato Centro collaboratore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per la strongiloidosi e le altre malattie tropicali neglette (Neglected Tropical Disease – NDT).
Si tratta di un’ulteriore conferma dopo quella del 2018, a quattro anni dalla disegnazione avvenuta nel 2014. L’ufficializzazione è arrivata nei giorni scorsi con una lettera del direttore OMS Europa, Hans Henri P. Kluge, dopo le opportune verifiche a cui tutti i Centri sono sottoposti ogni quattro anni.
Sono circa 700 i centri OMS nel mondo dislocati in 80 Paesi e impegnati in vari settori. L’Italia ne vanta 28 (secondo posto in Europa per numero di istituzioni) di cui nove per le malattie infettive e tropicali. “A ciascuno viene affidato un compito all’interno di una sorta di rete mondiale di sostegno al programma dell’Organizzazione”, spiega la dottoressa Dora Buonfrate, alla co-direzione del Centro assieme alla dottoressa Francesca Tamarozzi, nominata, quest’ultima, in sostituzione al prof. Zeno Bisoffi.
“Nel nostro piano di attività avanziamo delle proposte e rispondiamo a delle richieste specifiche fatte dal Dipartimento delle malattie tropicali neglette dell’OMS che si occupa dei programmi di controllo di queste patologie nei Paesi in cui sono endemiche. Queste attività spesso riguardano lo sviluppo di test diagnostici da impiegare ‘sul campo’ o studi sui farmaci”, sottolinea la dottoressa Buonfrate.
Grazie alla più alta casistica in Italia (negli ultimi dieci sono alcune centinaia i casi diagnosticati al “Sacro Cuore Don Calabria), quello di Negrar è l’unico Centro al mondo designato per lo studio della strongiloidosi, una patologia diffusa soprattutto nelle aree tropicali, ma presente anche nel nostro Paese, sebbene poco nota. Il Centro gestisce, sempre per conto dell’OMS, la Strongyloides Sharing Platform, una piattaforma informatica all’interno del sito web dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che riunisce i ricercatori di tutto il mondo interessati alla malattia parassitaria per lo scambio di informazioni e di dati e per azioni comuni di sensibilizzazione verso questa patologia.
“Anche grazie alla nostra proposta, l’OMS ha inserito nel 2019 la strongiloidosi tra le malattie tropicali neglette cioè trascurate dai piani di salute pubblica e anche dalla ricerca privata delle case farmaceutiche per la scarsa attrazione commerciale. E’ un traguardo importante che ha permesso di includere una malattia che colpisce oltre 600 milioni di persone al mondo nei programmi di controllo dei singoli Paesi”, afferma l’infettivologa.
Le NTD, secondo la definizione dell’OMS, sono patologie che “sebbene diverse dal punto di vista nosologico (possono infatti essere di origine virale, batterica, parassitaria…ndr), formano un gruppo unico in quanto tutte sono fortemente associate alla povertà, proliferano in ambienti con scarse risorse, specialmente in aree tropicali, tendono a coesistere e la maggior parte di esse sono malattie antiche che affliggono l’umanità da secoli”. Si stima che colpiscano oltre un miliardo di persone nel mondo e che siano causa di gravissime disabilità e di più di mezzo milione di morti all’anno. Sebbene abbiano origine nei Paesi in via di sviluppo, le malattie tropicali neglette rappresentano un rischio per le popolazioni dell’intero pianeta, in quanto l’esponenziale mobilità degli ultimi anni comporta lo spostamento insieme alle persone anche di merci e vettori (soprattutto zanzare), quest’ultimi favoriti dall’innalzamento delle temperature.
L’OMS elenca 20 NTD:
- ulcera del Buruli
- malattia di Chagas (tripanosomiasi americana)
- dengue
- dracunculosi (malattia del verme della Guinea)
- echinococcosi cistica ed alveolare
- trematodiasi alimentari
- tripanosomiasi africana umana (malattia del sonno)
- lesmaniosi
- lebbra (malattia di Hansen)
- filariosi linfatica
- micetoma, cromoblastomicosi e altre micosiprofonde
- oncocercosi (cecità fluviale)
- rabbia
- scabbia e altre ectoparassitosi
- schistosomiasi (Bilharzia)
- elmintiasi trasmesse dal suolo (include diverse infezioni sostenute da elminti, tra le quali la strongiloidosi)
- teniasi e cisticercosi
- tracoma
- framboesia (treponematosi endemiche)
- avvelenamento da morso di serpente
La roadmap dell’OMS 2021-2030 prevede tra i vari obiettivi la riduzione del 90% il numero di persone che necessitano di interventi contro le NTD, di diminuire del 75% gli anni di vita persi per disabilità (DALYs) causate dalle stesse NTD e che ne vengano eradicate almeno due nel mondo (dracunculiasi e framboesia)
Nominati i nuovi responsabili delle Delegazioni dell'Opera Don Calabria
Nei giorni scorsi il Casante don Massimiliano Parrella, insieme al Consiglio Generale, ha nominato i nuovi Delegati dei Poveri Servi della Divina Provvidenza che avranno la responsabilità di guidare la Congregazione nei vari territori dove essa è presente. Inoltre sono stati nominati i consiglieri che affiancheranno ogni Delegato.
La Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, tra le cui attività è compreso anche l’IRCCS “Sacro Cuore Don Calabria”, è presente in tredici Paesi e in tutti e cinque i continenti. Per governare una realtà così estesa e complessa, la Congregazione è strutturata con sei Delegazioni e una Missione, ognuna delle quali è guidata da un responsabile nominato dal Casante e affiancato da un “Consiglio di Delegazione”.
Il rinnovo degli incarichi nei vari territori avviene normalmente dopo il Capitolo Generale della Congregazione e anche quest’anno è stato così. Infatti dopo il XII Capitolo, svoltosi nel mese di maggio, è iniziata una fase di consultazione dei vari religiosi dell’Opera che hanno espresso il loro parere sui possibili nuovi Delegati e sui loro “consiglieri”.
Una volta terminata la consultazione, e sentito il parere del Consiglio Generale, il Casante don Massimiliano Parrella nei giorni scorsi ha quindi nominato i nuovi Delegati e in un secondo momento anche i Consigli delle Delegazioni. Ecco una panoramica delle varie nomine:
DELEGAZIONE EUROPEA SAN GIOVANNI CALABRIA (ITALIA, PORTOGALLO, ROMANIA)
Delegato: don Valdecir Tressoldi
Consiglieri: don Gustavo Lissa, don Miguel Tofful, fratel Olinto Bet, fratel Andrea Bennati
DELEGAZIONE NOSSA SENHORA APARECIDA (BRASILE)
Delegato: don Jaime Bernardi
Consiglieri: don Gustavo Bonassi, don Everton Rodriguez dos Santos, fratel Jacob Tonon, fratel Silvio da Silva
DELEGAZIONE MARIA INMACULADA (ARGENTINA, URUGUAY PARAGUAY, REPUBBLICA DOMINICANA)
Delegato: don Jorge Conti
Consiglieri: don Guillermo Puente, don Marcial Grageda, fratel Adolfo Benitez, fratel Josè Luis Ojeda
DELEGAZIONE ISH KRIPA (INDIA)
Delegato: don Manoj A. Ethirvelil
Consiglieri: don Antony Sebastian Veliyapalliyil, don Tijish Thomas Vadakkel, fratel Ravi Babu Bulla, fratel Biju A. Ethirvelil
DELEGAZIONE MARY MOTHER OF THE POOR (FILIPPINE, PAPUA NUOVA GUINEA)
Delegato: don Marvin Tadena
Consiglieri: don Mark Jonnel Magos, Melchizedek Palinawan De Lara, don Ronaldo Eborde, fratel Edison Visaya
DELEGAZIONE MAMA MUXIMA (ANGOLA)
Delegato: don Alberto Sissimo
Consiglieri: don Filipe Ulica, don Carlos Tavares, fratel Josè Rui, fratel Carlo Toninello
MISSIONE SAINT JOSEPH (KENYA)
Responsabile di Missione: don Aneesh Payyalayil
Consiglieri di Missione: don Felix Salvat, don Daniel Masin
Compito principale dei Delegati, come indicato nell’art. 170 delle Costituzioni dei Poveri Servi, “è quello di coordinare e di favorire la vita e la missione delle comunità religiose a lui affidate, richiamando la fedeltà allo spirito e al carisma proprio della Congregazione, promuovendo la comunione fraterna e il vero servizio ai poveri nella carità di Cristo”. Compito dei consigli è affiancare i Delegati nell’accompagnare la vita dei religiosi e la missione delle comunità.
Per maggiori informazioni è possibile cliccare sui seguenti link che rimandano al sito dell’Opera Don Calabria:
Vaiolo delle scimmie: cosa c'è da sapere sul virus e sul vaccino
Sono arrivate in Italia le prime dosi di vaccino contro il cosiddetto “vaiolo delle scimmie”: ecco per chi è indicata la somministrazione. Facciamo il punto su un virus i cui casi osservati al di fuori dell’Africa prima di questa epidemia sono sempre stati ricondotti ad una esposizione ad animali infetti avvenuta in uno dei Paesi africani dove il virus è endemico fra alcune specie infette
Lo scorso 5 agosto sono arrivate in Italia le prime dosi del vaccino contro il cosiddetto vaiolo delle scimmie (Monkeypox) a seguito della prima quota di donazione da parte della Commissione Europea. Le dosi sono state distribuite per ora alle regioni che hanno registrato il maggior numero dei casi (Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto). Complessivamente i soggetti colpiti in tutto il Paese sono 545 (dati aggiornati al 5 agosto 2022)
Come recita la circolare del Ministero della Sanità, “al momento, la modalità di contagio e la velocità di diffusione, così come l’efficacia delle misure non farmacologiche fanno escludere la necessità di una campagna vaccinale di massa”. Pertanto “tenuto conto dell’attuale scenario epidemiologico e della limitata disponibilità di dosi” sono state individuate delle categorie a rischio a cui sottoporre alla vaccinazione. E sono:
- Personale di laboratorio con possibile esposizione diretta a orthopoxvirus (il virus del vaiolo)
- Persone gay, transgender, bisessuali e altri uomini che hanno rapporti sessuali con uomini con comportamenti ad alto rischio
Vademecum del vaiolo delle scimmie: risposte alle più comuni domande.
Cos’è il vaiolo delle scimmie?
Il virus che causa il vaiolo delle scimmie, il cosiddetto Monkeypox, è un orthopoxvirus appartenente alla famiglia dei poxvirus, ed è molto simile al virus del vaiolo, che dalla fine degli anni ‘70 non esiste più in natura perché questa malattia è stata completamente eradicata.
Conosciamo il virus Monkeypox dal 1957, quando fu osservata la prima scimmia infetta, ma la prima infezione riconosciuta nell’uomo risale al 1970. Nonostante il nome, il virus non è tipico delle scimmie, ma ha il suo habitat naturale fra gli animali silvestri, specie roditori, che abitano ambienti boschivi africani. Il virus può infettare l’uomo, se questo viene in stretto contatto con animali infetti, ma ha scarsa propensione a trasmettersi da uomo a uomo.
In alcuni Paesi africani (Nigeria, Repubblica Democratica del Congo) sono riportati centinaia di casi umani all’anno, tutti riconducibili a contatti con animali infetti.
Prima di questa epidemia che ha coinvolto anche l’Europa, i casi osservati al di fuori dell’Africa sono sempre stati ricondotti ad una esposizione ad animali infetti avvenuta in uno dei Paesi africani dove il virus è endemico fra gli animali selvatici.
Cosa ha determinato la diffusione interumana caratteristica dell’epidemia in corso?
La catena di infezioni che stiamo osservando in Europa e nel resto del mondo (25mila casi al 3 agosto 2022) si distacca totalmente dall’epidemiologia dell’infezione finora osservata. Infatti siamo di fronte per la prima volta ad una trasmissione interumana sostenuta. È possibile che il caso 0, tutt’ora sconosciuto, abbia acquisito l’infezione secondo i canoni classici, cioè tramite il contatto con un animale infetto in Africa, ma poi ha verosimilmente contagiato un altro essere umano, innescando la catena dei contagi fuori dai Paesi dove il vaiolo delle scimmie è endemico.
Finora sono state identificate almeno 2-3 circostanze alle quali si possono ricondurre la maggior parte dei casi osservati, in particolare due rave party alle Canarie e in Belgio, ed una spa in Madrid. Sono tutti eventi che hanno visto una folta partecipazione internazionale di persone giovani; ad esempio, l’evento delle Canarie ha richiamato circa 80.000 partecipanti.
Il vaiolo delle scimmie è stato dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale: è allarme?
No. L’OMS ha voluto puntare l’attenzione, sollecitando la sorveglianza nei Paesi dove non è già presente, su un virus che finora si era manifestato fuori dalle aree endemiche solo con casi sporadici e di importazione
Come si trasmette il Monkeypox?
Il Monkeypox non si trasmette facilmente da uomo a uomo, occorrono contatti stretti, come l’esposizione a lesioni, a fluidi infetti, a oggetti e biancheria contaminata, a aerosol respiratorio nelle fasi prodromiche. Fra i contatti stretti a più alto rischio vi sono, naturalmente, i rapporti sessuali con persone infette.
Quali sono i sintomi?
Il sintomo più caratteristico è costituito da lesioni cutanee. Queste nell’arco di tempo di due-quattro settimane evolvono in pustole, sviluppano la crosta che infine cade. In genere le lesioni sono accompagnate da febbre, malessere generale, dolori muscolari e linfonodi ingrossati.
Finora la maggior parte dei casi ha avuto sintomi lievi con un decorso benigno. Tuttavia, il vaiolo delle scimmie può causare una malattia più grave nelle persone fragili o con compromissione immunitaria.
Poiché la presentazione clinica del “vaiolo delle scimmie” è simile quella di altre infezioni è fondamentale distinguerla dall’eruzione cutanea con cui si manifestano, per esempio, l’herpes simplex, la varicella zoster e l’impetigine batterica.
Come avviene la diagnosi di laboratorio?
E’ necessario un test di biologia molecolare (PCR real time) che ha lo scopo di individuare il genoma del virus sul campione organico prelevato (in genere la secrezione delle pustole). Il passo successivo è il sequenziamento degli acidi nucleici del genoma, per determinare se si tratta di “vaiolo delle scimmie” o di un’altra specie di Orthopoxvirus. Il sequenziamento permette di stabilirne anche il ceppo: quello originario dell’Africa Occidentale e quello Congo. I casi europei appartengono tutti al primo ceppo che dà forme non gravi per l’uomo.
Quali sono le regole da osservare per chi risulta contagiato?
Occorre innanzitutto avvisare il medico curante, che provvederà ad instradare il paziente verso la diagnosi e, se necessario, al ricovero in strutture dedicate alle malattie infettive. In caso di condizioni discrete, il paziente deve rispettare l’isolamento a casa propria, fino alla scomparsa dei sintomi, evitare contatti ravvicinati con altre persone e soprattutto con persone fragili. I soggetti che sospettano di aver contratto questa infezione non devono donare sangue, cellule, tessuti, organi, latte materno o sperma. I contatti stretti devono misurare la febbre due volte al giorno per intercettare i sintomi precoci, e stare sotto stretta sorveglianza.
Il vaccino: cosa disponiamo?
Fra gli anni ‘60 e ‘70 una campagna vaccinale estremamente capillare, insieme ad uno sforzo globale per raggiungere i più remoti siti anche nei Paesi non sviluppati, l’isolamento dei contatti e la somministrazione del vaccino ad anello intorno ai casi identificati, ha consentito di raggiungere l’unica eradicazione di agente virale finora ottenuta, quella del vaiolo.
Il vaccino utilizzato era composto dal virus del vaiolo bovino (Vaccinia virus) vivo. Dopo i risultati straordinari ottenuti, il vaccino non è stato più utilizzato se non in casi molto particolari, perché i rischi connessi con l’inoculazione de Vaccinia virus vivo non erano più ripagati dai benefici delle infezioni evitate. La vaccinazione antivaiolosa è stata abolita in Italia nel 1981.
Oggi sono disponibili due vaccini contro il vaiolo, con un profilo di sicurezza molto migliorato. In particolare è arrivato in Italia il vaccino denominato Jynneos (anche noto come Imvamune oppure Imvanex). Esso si basa su un virus attenuato, incapace di replicarsi, ma in grado di innescare una efficace risposta immune contro gli Orthopoxvirus. L’approvazione originaria del Jynneos contro il vaiolo, è stata recentemente estesa in Europa anche per il vaiolo delle scimmie, con procedura di urgenza.
Esistono terapie farmacologiche?
Abbiamo a disposizione alcuni farmaci come il Cidofovir, e altri di nuova generazione, quali Brincidofovir e Tecovirimat (Quest’ultimo è stato approvato in Europa a gennaio 2022.
Le generazioni che sono state sottoposte al vaccino contro il vaiolo, sono protette anche da Monkeypox?
La protezione conferita da infezione o vaccinazione con Orthopoxvirus è generalmente crossreattiva, protegge quindi anche dalle infezioni provocate da virus della stessa famiglia. A scoprirlo alla fine del 1700 fu Edward Jenner, osservando che i mungitori colpiti dal vaiolo delle mucche non si ammalavano del virus umano. La prima profilassi della storia contro un agente patogeno venne chiamata vaccino proprio perché conteneva Orthopoxvirus bovino
L’organizzazione Mondiale della Sanità stima che il vecchio vaccino contro il vaiolo conferisca una protezione dell’85% contro monkeypox, quindi possiamo assumere che la popolazione over 50, che ha ricevuto il vaccino nell’infanzia, e che rappresenta circa il 40% della nostra popolazione, sia protetta.
(Ha collaborato la dottoressa Maria Rosa Capobianchi, consulente per la ricerca dell’IRCCS di Negrar)
Aperte le pre-iscrizioni al Corso per Operatori Socio Sanitari
Il corso per diventare OSS dura mille ore, di cui oltre la metà di tirocinio, e prevede di formare figure professionali che possono lavorare in diverse strutture e con diverse tipologie di utenti. L’organizzazione è a cura di Medialabor, che fa parte del Centro Polifunzionale Don Calabria di Verona ed è provider accreditato dalla Regione Veneto, in collaborazione con l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria
Quella dell’Operatore Socio Sanitario è una figura di supporto molto importante che può lavorare vicino a varie tipologie di soggetti fragili, dagli ammalati agli anziani, dai bambini ai disabili. Per questo è importante che coloro che intraprendono questa professione ricevano da subito una adeguata formazione multidisciplinare con la possibilità di sperimentarsi sul campo. Ed è proprio la formazione di nuovi OSS l’obiettivo del corso promosso da Medialabor, provider accreditato dalla Regione Veneto, in collaborazione con l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria.
Il corso dura mille ore di cui 520 di tirocini che verranno svolti presso le varie realtà sanitarie e socio-sanitarie della Cittadella della Carità di Negrar. Le pre-iscrizioni sono aperte e una volta raggiunto il numero sufficiente si procederà ad una selezione dei partecipanti prima dell’inizio del corso vero e proprio.
Per informazioni e pre-iscrizioni:
- Tel. 045.8184.950 (Medialabor, da lunedì a venerdì dalle 9 alle 13)
- Sito: www.formazionedoncalabria.it/CorsiAbilitanti.aspx
LOCANDINA DEL CORSO (cliccare per ingrandire)
Ritorna il corso di Travel Medicine: il viaggiatore "sentinella" dei virus che si spostano nel mondo
Il corso ritorna in presenza dal 3 al 7 ottobre all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Al centro il viaggiatore come sentinella dei virus che si spostano nel mondo e quindi fondamentale per impedire la diffusione di malattie non endemiche, che per questo devono essere conosciute dagli operatori sanitari ai quali egli si rivolge nel caso di sintomi post-viaggio.
Il Covid-19 non è stato ancora sconfitto, ma grazie ai vaccini questa estate ha segnato un ritorno alla “normalità”, che significa anche ripresa dei viaggiatori all’estero. Lo testimonia l’affluenza all’ambulatorio di Medicina dei viaggi dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, ritornata ai numeri pre-pandemia, con una media di circa 20-25 viaggiatori ogni seduta che si rivolgono al medico per avere una consulenza prima di partire.
“In genere il viaggiatore che si reca in lidi lontani viene identificato come il fortunato benestante che ha il tempo di riservarsi questo svago. Nulla di più sbagliato”, sottolinea il dottor Andrea Rossanese, medico esperto in ‘Travel Medicine’ del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali. Infatti il viaggiatore non sempre è il turista, ma è anche colui che deve spostarsi per lavoro, il missionario, il cooperante o il migrante. Inoltre le varie tipologie di viaggio oggi consentono ad un’ampia fetta di popolazione di dedicarsi al turismo oltreoceano.
IL VIAGGIATORE SENTINELLA DEI VIRUS CHE SI SPOSTANO NEL MONDO
“Ma non solo – riprende il medico – il viaggiatore è prezioso in quanto ‘sentinella’ delle infezioni che si spostano nel mondo insieme alle persone. Oggi, con i mezzi di cui disponiamo, in 24-36 ore possiamo recarci in altri continenti e ritornare nel nostro Paese da qualsiasi altra parte del mondo. Il tempo sufficiente per incubare la maggior parte delle malattie cosiddette d’importazione che poi si manifestano a casa. Per questo è importante che i medici dei Pronto Soccorso, quelli di medicina generale e i pediatri di libera scelta familiarizzino con queste patologie. Solo così possiamo curare nel migliore modo possibile le persone colpite e arginare la diffusione anche da noi di malattie non endemiche”.
COME CI HA INSEGNATO IL COVID
Covid docet. La capacità di trasmissione del virus Sars-CoV-2 da parte di un paziente asintomatico o pre-asintomatico,ì è stata descritta per la prima volta nel gennaio del 2020 dal team dell’Università di Monaco. I ricercatori, coordinati da Camilla Rothe, hanno ricostruito la storia di un cittadino tedesco che aveva contratto il virus da una donna di Shanghai in viaggio di lavoro nella capitale della Baviera, ma priva di sintomi. “Questo è un chiaro esempio di come l’osservazione di un viaggiatore possa determinare la gestione di un’intera pandemia, in questo caso con l’isolamento anche degli asintomatici perché fonti di contagio”
RITORNA IN PRESENZA IL CORSO DI MEDICINA DEI VIAGGIATORI
Diffondere la coscenza sulle principali malattie d’importazione è un obiettivo che da 15 anni si pone il Corso di Medicina dei viaggiatori in programma quest’anno dal 3 al 7 ottobre all’Ospedale di Negrar in collaborazione con il Programma regionale viaggiatori internazionali (per il programma e le iscrizioni clicca qui). “Dopo due anni di pausa forzata a causa della pandemia, ritorniamo in presenza con un momento di formazione utile non solo ai tropicalisti, ma anche a tutti gli operatori sanitari a cui si rivolgono in genere i viaggiatori colpiti da determinati sintomi una volta tornati a casa – sottolinea il medico -. Saper associare una febbre, per esempio, all’area interessata dal viaggio, e quindi a una patologia ben precisa, consente di formulare un’ipotesi diagnostica che non solo incide sulla salute del paziente, ma anche della comunità che lo circonda”
IL CORSO: PRE E POST VIAGGIO, CON UN FOCUS SU ARBOVIROSI (WEST NILE…) E VAIOLO DELLE SCIMMIE
Il corso vedrà come docenti, oltre al dottor Rossanese, medici infettivologi – tra cui il dottor Federico Gobbi, direttore delle Malattie Infettive e Tropicali di Negrar – e specialisti in igiene e sanità pubblica. “Il programma è diviso in tre parti: il pre-viaggio; approfondimento su malaria, arbovirosi (West Nile, Dengue, Zika, Chikungunya…) e malattie emergenti (vaiolo delle scimmie); e infine il post-viaggio.
IN FUTURO UN APP PER IL VIAGGIATORE IN… VIAGGIO
“Dal punto di vista del servizio all’utente – riprende Rossanese – il nostro Ambulatorio si occupa della consulenza prima della partenza con le relative vaccinazioni, se necessarie, ed è un punto di riferimento per eventuali problemi di salute che si presentano al rientro. Per il ‘viaggiatore in viaggio’ abbiamo dei progetti che potrebbero concretizzarsi con un semplice numero di telefono o indirizzo mail a cui rivolgersi in caso di necessità oppure con un’APP, sull’esempio di quanto già fanno i nostri colleghi catalani o svizzeri. In Paesi poco organizzati da punto di vista sanitario è davvero prezioso avere una ‘guida’ a cui chiedere indicazioni su quali farmaci prendere o come comportarsi in caso di febbre o altri sintomi”.
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Giornata mondiale contro le epatiti virali. I microbiologi clinici: "Non abbassiamo la guardia"
Il 28 luglio è la Giornata mondiale contro le epatiti virali, patologie che si stima colpiscano nel mondo 325 milioni di persone, molte delle quali inconsapevoli di aver contratto i virus. L’Associazione Microbiologi Clinici Italiani in un comunicato accende l’attenzione su questo tipo di infezioni, che se non curate possono comportare conseguenze importanti per la salute
Il 28 luglio si celebra in tutto il mondo la Giornata mondiale contro le epatiti virali, un gruppo di infezioni che si stima colpiscano nel mondo 325 milioni di persone, molte delle quali inconsapevoli di aver contratto i virus. In occasione di questa data l’AMCLI ETS – Associazione Microbiologi Clinici Italiani ha diffuso un comunicato che ha lo scopo di tenere alta l’attenzione su patologie che possono comportare rischi seri per la salute dei malati e per la comunità a cui appartengono.
Nel mondo, ancora alle prese per il controllo della circolazione delle varianti di SARS-CoV-2, permangono gravi minacce alla salute di milioni di persone, imputabili alle infezioni provocate dai 5 virus responsabili di epatiti primarie. Occorre pertanto mantenere alta l’attenzione, soprattutto su quei pazienti che contraggono e sviluppano l’infezione in modo del tutto inconsapevole, ponendo così a rischio la propria e altrui salute.
Oggi vi sono cinque virus ben conosciuti (virus dell’epatite A-B-C-D-E) che associandosi ad infezioni del fegato causano considerevole morbidità e mortalità.
I virus dell’epatite A ed E causano infezioni acute che in genere guariscono; in rari casi può verificarsi una forma di epatite fulminante, che può richiedere il trapianto e, in alcuni casi, risultare letale. Il virus A è trasmesso prevalentemente attraverso cibi contaminati, ed è prevenibile con un vaccino (efficacia al 100%) che non rientra nel gruppo dell’obbligo, ma è fortemente consigliato. Il virus dell’epatite E causa estese epidemie veicolate principalmente dal consumo di acqua non pulita nei Paesi in via di sviluppo. Nei paesi occidentali invece, inclusa l’Italia, provoca piccole epidemielegate al consumo di carni suine poco o affatto cotte. Si possono verificare complicanze gravi in organi diversi dal fegato, e cronicizzazione nei soggetti immunodepressi (es. trapiantanti). Occorre sensibilizzare i nostri medici nei riguardi di questa infezione, che è ancora poco considerata.
I virus dell’epatite B e C negli ultimi anni hanno visto un enorme progresso nella capacità di prevenzione (vaccino per il virus B) e cura (antivirali per virus B e C, in quest’ultimo caso la terapia è eradicante). Entrambi possono determinare infezioni croniche. (vedi campagna di screening della Regione Veneto)
Il virus D causa infezioni solo in presenza del virus B, del quale complica considerevolmente il quadro clinico.
Per tutti questi virus, l’infezione nella forma cronica tende nel corso deglianni a causare malattia ingravescente e irreversibile del fegato, talvolta associata a carcinoma.
“L’impegno di AMCLI – sottolinea Pierangelo Clerici, Presidente AMCLI ETS e Direttore U.O. Microbiologia A.S.S.T Ovest Milanese – va nella direzione di incentivare la lotta alle epatiti virali promuovendo e sostenendo con le attività di laboratorio di Microbiologia Clinica il programma di screening per l’epatite C per identificare e curare i malati con epatite cronica e lo studio genetico dei virus per individuare precocemente l’insorgenza di farmaco-resistenze. Non ultimo facilitando il confronto e l’integrazione con i clinici allo scopo di favorire l’ampliamento della
prevenzione nei confronti dell’Epatite B mediante vaccinazione e l’approvazione della nuova terapia per l’Epatite Delta”.
“Per il pesante carico sanitario e sociale per queste malattie epatiche – evidenzia Carlo Federico Perno, Direttore U.O. Microbiologia, IRCCS Ospe dale Pediatrico IRCCS Ospedale PediatricoBambino Gesù in Roma e componente Gruppo di Lavoro AMCLI– è necessario mantenere un impegno costante di informazione aggiornata e sensibilizzazione sia nella popolazione generale sia negli operatori sanitari, affinché siano identificate e curate precocemente le forme croniche prima che si avvii il processo irreversibile di danneggiamento epatico con esiti anche fatali come la cirrosi e l’epatocarcinoma. Inoltre non va abbassata la guardia nei confronti delle cosiddette infezioni pregresse da HBV, ricordando che il virus rimane stabilmente nel nostro organismo, pronto a riattivarsi e a causare danni epatici, a volte irreversibili, alle persone con immunocompromissione. Anche su questo pericolo è necessaria una corretta informazione insieme ad un’adeguata campagna di screening e follow up”.
“Negli ultimi mesi l’attenzione sulle epatiti è stata richiamata anche da forme molto gravi che si sono verificate nei bambini in diverse parti del mondo, compreso anche il nostro paese. La causa di questa forma pediatrica di epatite si ritiene possa essere virale, non di tipo primario, probabilmente associata all’infezione da parte di un altro virus, denominato Adenovirus. Dobbiamo però essere ancora cauti nella valutazione di queste epatiti pediatriche perché al momento non vi sono prove certe e definitive sulla loro causa eziologica” ha ricordato Maria Rosaria Capobianchi, consulente per la ricerca, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria IRCCS, Negrar di Valpolicella (Verona) e componente Gruppo di Lavoro AMCLI. “Nel complesso, è necessario tenere alta l’attenzione verso le epatiti virali, perché per la maggior parte di queste infezioni sono disponibili mezzi diagnostici, terapeutici e di prevenzione estremamente efficaci, in grado di cambiarne la storia naturale, e pertanto è un dovere civico oltre che deontologico e morale, mettere in campo tutte le risorse disponibili per prevenire e/o controllare la circolazione di questi virus” conclude la dottoressa Capobianchi.
L'IRCCS di Negrar è Centro Qualificato ERAS Society per la chirurgia bariatrica e del colon-retto
Primo in Italia per la chirurgia bariatrica, terzo per la chirurgia colon-rettale, anche oncologica, è tra i primi centri qualificati (66) ERAS Society al mondo per l’applicazione dell’innovativo protocollo che mette al centro il paziente anche nella fase pre e post operatoria, con una riduzione dei giorni di ricovero da 6 a 4 per gli interventi al colon-retto e dimissioni entro 48 ore per la chirurgia bariatrica.
L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria è Centro Qualificato per l’applicazione di ERAS, il protocollo chirurgico che ha come obiettivo – come recita l’acronimo Enhanced Recovery After Surgery – il miglior recupero dopo un intervento chirurgico. A certificarlo, ERAS Society, la società scientifica mondiale che si occupa della diffusione di questa “buona pratica clinica” tesa a una ripresa rapida del paziente, grazie al controllo ottimale del dolore e della nausea post-operatoria, alla drastica riduzione delle infezioni post chirurgiche e alla diminuzione dei giorni di degenza che per la chirurgia colon-rettale passano da 6 a 4, mentre per quella bariatrica le dimissioni sono entro le 48 ore.
DOPPIA CERTIFICAZIONE: PER LA CHIRURGIA BARIATRICA E QUELLA COLON-RETTALE
Per il “Sacro Cuore Don Calabria” si tratta di una doppia certificazione: infatti è il primo Centro Qualificato ERAS in Italia per la chirurgia bariatrica nel trattamento dell’obesità grave e il terzo (dopo l’Azienda Ospedaliera Santa Croce e Carle di Cuneo e l’ospedale Infermi Rimini) per la chirurgia colon-rettale, anche oncologica. Nel mondo ci sono solo altri 66 Centri Qualificati e quello di Negrar è risultato uno degli ospedali con un livello di aderenza più alto a tutto il percorso del paziente (dalla fase pre-operatoria a quella post-operatoria) avendo superato la soglia del 94% su entrambe le specialità chirurgiche.
PROSSIMI OBIETTIVI: CENTRO TRAINER E CENTRO DI ECCELLENZA
La certificazione di Centro Qualificato è il primo step di un iter triennale intrapreso dall’Ospedale di Negrar che si conclude con il riconoscimento di Centro di Eccellenza passando per quello di Centro Trainer, grazie al quale il team ERAS del “Sacro Cuore Don Calabria” potrà formare altre strutture.
IL PROTOCOLLO CHIRURGICO PER IL MIGLIOR RECUPERO DOPO L’INTERVENTO
“Se l’obiettivo di ERAS è quello di far tornare il paziente chirurgico il prima possibile alle sue occupazioni quotidiane, la condizione perché ciò avvenga è un percorso che inizia prima della chirurgia, con il raggiungimento da parte del paziente di una forma fisica ottimale” spiega il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale del “Sacro Cuore Don Calabria”. “Questa condizione si unisce poi a una chirurgia mini-invasiva (laparoscopica o robotica), a uno specifico trattamento anestesiologico che prosegue dopo la sala operatoria con un ottimale controllo del dolore e della nausea, e a una mobilizzazione precoce. L’applicazione di ERAS, possibile per ogni tipo di chirurgia, è un vantaggio per tutti i pazienti, ma in particolare per gli anziani e per coloro che subiscono interventi ad alta complessità”.
“Il percorso di certificazione ha avuto la durata di un anno, nel corso del quale abbiamo seguito diversi momenti di formazione con il Centro Trainer (Centre Hospitalier de Valenciennes-Francia), implementato ulteriormente il protocollo ERAS e inserito i dati relativi ai nostri pazienti (221 per la chirurgia colon-rettale e 95 per quella bariatrica) sulla piattaforma internazionale EIAS che ci ha permesso di misurare e analizzare l’aderenza al protocollo e i risultati post operatori”, spiega la dottoressa Elisa Bertocchi, chirurgo colon-rettale. “Ora parte la seconda fase per diventare Centro Trainer e che consiste nel mantenimento nel tempo degli ottimi risultati ottenuti”.
IL PAZIENTE PROTEGONISTA NEL PRE E NEL POST INTERVENTO, SUPPORTATO DA UN GRUPPO MULTIDISCIPLINARE
Sono due i fulcri principali del protocollo ERAS: la presa in carico del paziente da parte di un team multidisciplinare, attivo a Negrar già nel 2018 per la chirurgia colon-rettale, e il ruolo attivo e consapevole del paziente nella preparazione all’intervento e nella gestione del recupero post-operatorio. Del team fanno parte oltre ai chirurghi e agli anestesisti, anche i nutrizionisti, i farmacisti ospedalieri, i fisiatri, i fisioterapisti e il personale infermieristico dedicato. A questi specialisti per i pazienti bariatrici si aggiungono lo psicologo e il gastroenterologo che assieme al nutrizionista seguono il candidato alla chirurgia almeno da due mesi prima dell’intervento.
L’APP iCOLON: IL DIARIO DIGITALE CHE GUIDA IL PAZIENTE
Per agevolare invece l’aderenza attiva del paziente alle indicazioni che riguardano la corretta alimentazione, l’adeguata attività fisica e il monitoraggio dei parametri fisiologici nel post operatorio, dal 2019 viene proposta a tutti i pazienti l’APP iColon (vedi video), ideata dalla Chirurgia Generale di Negrar e unico esempio in Italia di applicazione digitale per la chirurgia colon-rettale. Si tratta una sorta di diario digitale in cui il paziente, a partire da sette giorni prima dell’intervento e fino a 5 giorni dopo la dimissione, registra il suo contributo per il raggiungimento un’ottimale forma fisica e nutrizionale in preparazione alla chirurgia e quindi l’aderenza al recupero una volta tornato a casa,
“Il coinvolgimento attivo è ancora più importante per il paziente affetto da obesità grave – sottolinea la dottoressa Irene Gentile, chirurgo bariatrico -. In particolare sotto l’aspetto dell’alimentazione e dell’attività fisica: il calo ponderale è fondamentale sia per la candidabilità all’intervento sia per la buona riuscita dello stesso”.
DRASTICA RIDUZIONE DELLE COMPLICANZE MEDICHE POST CHIRURGICHE
“Le tecniche di controllo del dolore permettono la mobilizzazione precoce del paziente che deambula già il giorno stesso dell’intervento diminuendo così drasticamente le polmoniti dovute all’allettamento; il mantenimento del catetere vescicale spesso solo in sala operatoria, e comunque non oltre le 12 ore, ha quasi cancellato le infezioni urinarie così come nettamente ridotte quelle del sito chirurgico, per l’uso sempre minore di drenaggi addominali. Restano le complicanze chirurgiche che, tuttavia, in un paziente in buona forma hanno un esito più favorevole”, conclude la dottoressa Bertocchi
Nella foto il team multidisciplinare ERAS. Da sinistra:
Silvia Bonadiman (fisiatra), Elisa Bertocchi (chirurgo colon-rettale), Gaia Masini (chirurgo generale), Irene Gentile (chirurgo bariatrico), Alessandro Tubaro (anestesista), Roberta Freoni (coordinatrice infermieristica della Chirurgia Generale), Roberto Rossini (chirurgo bariatrico), Nicola Menestrina (anestesista), Giovanni Lodi (anestesista), Giuliano Barugola (chirurgo proctologo), Alessandra Misso (dietista), Giacomo Ruffo (direttore della Chirurgia Generale), Teresa Zuppini (direttore della Farmacia Ospedaliera), Enrico Facci (chirurgo generale)
West Nile: il virus dal nome esotico, ma "italiano" dal 2008
La fotografia del West Nile Virus responsabile della febbre del Nilo Occidentale, che solo in meno dell’1% dei casi si manifesta nella forma neuroinvasiva. E’un virus trasmesso dalle zanzare più comuni e per ora, non essendo disponibile un vaccino, la prevenzione è affidata alla lotta contro la prolifirazione di questi insetti
La cronaca registra casi di febbre West Nile, tra cui anche alcuni decessi. Ecco la fotografia di un virus trasmesso dalle zanzare e – nonostante in nome esotico – endemico nel nostro Paese, per il quale non esiste una cura specifica e un vaccino. Attenzione nella prevenzione delle punture di zanzare, ma nessun allarme: meno dell’1% sviluppa la forma più grave, ai danni del sistema nervoso centrale. L’IRCCS di Negrar è referente scientifico del sistema di sorveglianza della Regione Veneto per le “febbri estive” (West Nile, Zika, Dengue e Chikungunya).
West Nile Disease (WND) o malattia del Nilo Occidentale è causata da un virus a RNA appartenente al genere Flavivirus. Il West Nile Virus (WNV) prende il nome dal distretto dell’Uganda (West Nile) dove nel 1958 è stato isolato per la prima volta il patogeno dal sangue di una donna colpita da febbre. Si è poi diffuso in Africa, Medio Oriente, Nord America, Asia Occidentale ed Europa, dove è stato segnalato a partire dal 1958. In Italia è endemico. I primi casi si sono registrati nel 2008 sul territorio della Pianura Padana. L’ultima epidemia di West Nile Disease nel nostro Paese risale al 2018, quando il virus provocò 19 decessi tra i pazienti colpiti dalla forma più grave (neuro-invasiva).
Trasmissione
Il WNV non si trasmette da uomo a uomo, né per via aerea né per contatto. Il virus sopravvive in natura grazie a un ciclo primario di trasmissione: zanzara-uccello-zanzara. Le zanzare Culex di specie modestus e pipiens si infettano pungendo uccelli migratori (serbatoio del virus), trasmettendo a loro volta il virus ad altri uccelli. Tuttavia le stesse zanzare sono in grado di infettare ospiti accidentali come il cavallo e l’uomo, ma né negli equini né negli esseri umani il WNV raggiunge nel sangue una concentrazione sufficientemente elevata da infettare altre le zanzare.
La ragione per cui il WNV è diventato endemico in Italia è dovuta alla presenza sul territorio della Culex pipiens, la zanzara che punge dal tramonto fino alle prime luci dell’alba, e al passaggio di uccelli migratori.
L’infezione
La West Nile Disease è caratterizzata da 2-14 giorni di incubazione. Nella grande maggioranza dei soggetti colpiti è asintomatica; nel 20%-30% si manifesta come una sindrome simil-influenzale: febbre, mal di testa, ma di gola, dolori muscolari e alle articolazioni, congiuntivite, rash cutanei (tronco, estremità e testa), ingrossamento dei linfonodi, nausea, dolori addominali… Meno dell’1% dei casi sviluppa la forma neuro-invasiva: meningite, encefalite e paralisi flaccida acuta. I soggetti più a rischio per la forma più grave sono gli anziani, gli immunodepressi, i pazienti cronici o pluripatologici.
La diagnosi
Una febbre simile all’influenza deve sempre destare sospetti in piena estate. Nel caso in cui insorga torpore o uno stato confusionale è bene recarsi presso un ospedale con un reparto di Malattia Infettive. La diagnosi viene effettuata tramite specifici test di laboratorio
Terapia
Per la WND non esiste una terapia specifica, ma solo farmaci per alleviare i sintomi (antipiretici e antinfiammatori). Nei casi più gravi è necessario il ricovero in ospedale, dove si procede alla somministrazione di fluidi intravenosi e a respirazione assistita.
Prevenzione
Non esiste un vaccino contro il West Nile Virus. Il metodo più efficace di prevenzione è la protezione dalle punture di zanzare usando, in particolare dopo il tramonto, repellenti cutanei, zanzariere alle finestre e diffusori di insetticidi ad uso domestico. E’ fondamentale, inoltre, la collaborazione di tutti affinché non vengano a crearsi ambienti favorevoli al deposito delle uova e allo sviluppo delle larve di zanzare come i sebatoi i di acqua stagnante (anche un semplice sottovaso) che devono essere eliminati o trattati con larvicidi
Nel 2010 la Regione Veneto ha istituito un progetto pilota per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie trasmesse dalle zanzare) il cui responsabile scientifico è l’IRCSS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e a cui collaborano l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie e l’Istituto di Microbiologia e Virologia di Padova. Per le patologie di importazione (Zika, Dengue e Chikungunya) al fine di evitare che diventino endemiche, esso prevede la segnalazione del caso di infezione entro le 12 ore dal sospetto diagnostico al Servizio Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda Ulss competente per il territorio che può attivarsi, attraverso i Comuni, per la disinfezione della zona limitrofa all’abitazione del paziente o nel luogo dove si è probabilmente infettato.
Per il West Nile Virus la disinfezione deve avvenire periodicamente soprattutto nelle aree in cui le trappole dell’Istituto Zooprofilattico hanno raccolto zanzare infette o dove il virus è stato isolato nei cavalli.
Le segnalazione dei casi di infezione assume notevole importanza per il controllo sulle donazioni di sangue e organi. Il Centro Nazionale del Sangue prevede la sospensione dalle donazioni di sangue di almeno 28 giorni per tutti coloro che hanno soggiornato anche per una sola notte nella provincia dove sono presenti zanzare infette o in alternativa l’utilizzo del test NAT sulle sacche di sangue, che viene eseguito di routine dai Centri trasfusionali. Anche i donatori di organi vengono sottoposti allo screening. Sangue e organi infetti sono una via di trasmissione del West Nile molto pericolosa perché l’infezione andrebbe a colpire pazienti con un sistema immunitario depresso a causa della malattia o degli immunosoppressori per impedire il rigetto dell’organo.
New England Journal of Medicine: nuova "Lettera" pubblicata dalla Cardiologia
A distanza di poco più di un anno il New England Journal of Medicine, una delle riviste mediche più attendibili e prestigiose del mondo, pubblica una nuova Letter to the editor dopo quella del maggio del 2021, firmata dal dottor Stefano Bonapace e dal dottor Giulio Molon, rispettivamente cardiologo e direttore della Cardiologia dell’IRCCS di Negrar. Oggetto per entrambe la Troponina I, l’enzima che rilascia il muscolo cardiaco in condizioni di sofferenza
Avere l’onore di vedere pubblicato un proprio intervento sul New England Journal of Medicine – una delle riviste mediche più attendibili e prestigiose del mondo – non è un evento che capita spesso. Se poi la cosa accade due volte in poco più di un anno siamo nel perimetro di una notizia. E poco importa se la prima firma di entrambe le pubblicazioni, il dottor Stefano Bonapace, cardiologo emodinamista della Cardiologia di Negrar, si schernisce sottolineando “sono entrambe una Letter to the editor e non uno studio clinico…”. La precisazione è sacrosanta ma si tratta pur sempre di due lettere accettate dall’editore di una rivista che vanta un Impact Factor di 176,079, un indice che per i ricercatori fa curriculum e misura il numero medio di citazioni ricevute in un anno da articoli pubblicati nei due anni precedenti dalla rivista.
“Inutile dire che doppia pubblicazione in poco più di 12 mesi ci rende particolarmente orgogliosi. Si tratta di un’attestazione prestigiosa della nostra attività di assistenza e di ricerca”, sottolinea il dottor Giulio Molon, direttore della Cardiologia e uno degli autori delle due pubblicazioni. “Letter to editor è una formula d’intervento attraverso la quale si alimenta il dibattito scientifico. Nel nostro caso entrambe le lettere sollevavano domande sul comportamento della Troponina I, un marcatore di danno cardiaco, in due studi clinici: la prima relativa ad un farmaco innovativo Omecamtiv Mecarbil per il trattamento dello scompenso cardiaco utilizzato nello studio internazionale, prospettico e randomizzato GALACTIC-HF; la seconda sul significato clinico e prognostico dei livelli di questo enzima che si può ritrovare nel sangue dei pazienti dopo un intervento di cardiochirurgia e analizzati nello studio internazionale e prospettico VISION. La rilevanza delle “obiezioni” è sicuramente un criterio di selezione delle Letters che arrivano a migliaia all’editore, ma poche trovano spazio e dignità di pubblicazione”.
La Troponina
“La Troponina I è un enzima che viene rilasciato nel sangue dalle cellule del muscolo cardiaco quando il cuore è in condizioni di sofferenza” spiega il dottor Bonapace. “Il dosaggio della Troponina I ad alta sensibilità infatti rientra tra gli accertamenti effettuati (insieme all’elettrocardiogramma e all’ecocardiogramma) in Pronto Soccorso su un paziente che arriva con dolore toracico. Il rilascio dell’enzima da parte del muscolo cardiaco avviene non solo in situazioni di urgenza, ma anche a seguito di procedure cardiologiche interventistiche, come l’angioplastica, o cardiochirurgiche (by-pass, sostituzione di valvole cardiache…). Il rilascio può essere più o meno ampio a seconda della sofferenza che ha subito il cuore durante la procedura”.
Le linee guida
Il danno miocardico dovuto a procedure di rivascolarizzazione coronarica – sia che si tratti di intervento coronarico percutaneo (angioplastica) o di bypass aorto-coronarico – può essere temporalmente correlato alla procedura stessa e dipende da molteplici fattori legati al tipo di intervento e alla sua complessità e non necessariamente riflette problemi come trombosi precoce dello stent o occlusione acuta/subacuta del bypass. Le linee guida internazionali, sulle quali poi si basa l’attività clinica dei cardiologi e dei cardiochirurghi, indicano dei valori di cut-off (valore limite) oltre il quale il livello di Troponina I potrebbe essere legato ad un danno infartuale che potrebbe richiedere la necessità di reintervenire. Per la cardiologia interventistica si considerano valori di troponina I non superiori a 5 volte il limite massimo basale di 26 ng/L mentre per la cardiochirurgia valori non superiori a 10 volte tale limite basale.
Lo studio
Negli ultimi anni alcuni autori avevano evidenziato che i valori di Troponina da considerarsi patologici post cardiochirugia erano probabilmente più elevati suggerendo cut-off fino a 70 volte il limite basale. Philip J. Devereaux e i colleghi della divisione di cardiologia della McMaster University di Hamilton in Canada hanno pertanto condotto e pubblicato nel numero del 3 marzo del 2022 del New England Journal of Medicine uno studio prospettico (VISION) su 13.860 pazienti che andavano incontro ad interventi di cardiochirurgia tra cui il bypass cardiaco con l’obiettivo di determinare quale fosse il livello di troponina post-chirurgica correlata a una mortalità a 30 giorni o a un anno dall’intervento. “Gli autori hanno così rilevato che i livelli di Troponina I predittivi di prognosi infausta sono ben oltre i limiti stabiliti dalle Linee Guida, definendo valori da 258 a 499 volte superiori rispetto al valore basale di 26 ng/L a seconda dell’intervento effettuato”, spiega ancora il dottor Bonapace.
La lettera
“Il risulto dello studio ha rilevanti risvolti clinici” prosegue il cardiologo. “L’aver innalzato in modo così importante la soglia dei livelli di Troponina I che sono da considerarsi veramente patologici dopo gli interventi di cardiochirurgia, da una parte consente di considerare anche rialzi più elevati come legati all’intervento in se e quindi non necessariamente secondari ad una problematica ischemica periprocedurale, dall’altra però impone a nostro giudizio un’attenta valutazione di ulteriori parametri clinici e strumentali per inquadrare il più correttamente possibile tale incremento enzimatico e per poter decidere in modo appropriato se è necessario reintervenire.”. Pertanto “forti della nostra esperienza clinica abbiamo inviato una Letter to the editor sollevando l’obiezione che il dosaggio della Troponina I non può essere considerato isolatamente come fattore diagnostico predittivo di mortalità e di nuovo evento ischemico, ma deve essere inserito in un quadro di dati clinici, elettrocardiografici e ecocardiografici che possano giustificare eventualmente un nuovo studio angiografico. L’editore ha accettato la Lettera quindi l’obiezione era di un certo rilievo”.
La risposta
La risposta alla Lettera è arrivata, non tanto dagli autori del lavoro che si sono limitati a ribadire i nuovi cut-off della Troponina I derivati dal loro studio, ma da due importati studi recentemente pubblicati dall’European Heart Journal in cui gli autori Hazem Omran e Leo Pölzl riportano la necessità di altri parametri clinico-strumentali che, associati all’aumento della Troponina I, sono di fondamentale importanza nel predire la prognosi e nel consentire di discriminare tra danno ischemico legato all’intervento o movimento enzimatico compatibile con la complessità della stessa procedura, confermando di fatto quanto avanzato dai dottori Bonapace e Molon.
Malattie Infettive e Tropicali: il prof Bisoffi va in pensione. Il nuovo direttore è il dottor Gobbi
Il dottor Gobbi prende il testimone dal professor Zeno Bisoffi, che lascia la direzione per sopraggiunti limiti di età. Ma la collaborazione del prof. Bisoffi con l’Ospedale di Negrar non termina. Infatti assume l’incarico di direttore scientifico dell’IRCCS per le Malattie Infettive e Tropicali, ruolo finora tenuto dal professor Pier Carlo Muzzio
Il dottor Federico Gobbi è il nuovo direttore dell’Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive e Tropicali, succedendo al professor Zeno Bisoffi, che lascia per sopraggiunti limiti di età. Ma la collaborazione del prof. Bisoffi con l’Ospedale di Negrar non termina. Infatti assume l’incarico di direttore scientifico dell’IRCCS per le Malattie Infettive e Tropicali, ruolo finora tenuto dal professor Pier Carlo Muzzio
Il professo Bisoffi, classe 1955, giunge al “Sacro Cuore Don Calabria” nel 1990, quando il Centro per le Malattie Tropicali era diretto dal dottor Mario Marsiaj. Precedentemente (dal 1986) aveva operato in Burundi come responsabile del programma sanitario Unicef-Oms, dopo tre anni (1982-1985) in Nicaragua con l’Ong Mlal Progetto nel Mondo. Il 1° gennaio del 2000 la nomina di direttore del Centro per le Malattie Tropicali, proseguendo così l’opera di Marsiaj e portando il Centro al riconoscimento ministeriale di Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.
Il suo successore, Federico Gobbi, 49 anni, originario di Rivoli (Torino), si è laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università del capoluogo piemontese nel 1998 e nello stesso Ateneo si è specializzato nel 2003 in Malattie Infettive. Ha conseguito nel 2012 il Dottorato di Ricerca in “Metodologie e tecniche appropriate nella cooperazione internazionale allo sviluppo” presso l’Università di Brescia. Inizia la sua collaborazione con l’Ospedale di Negrar nel 2010 presso l’Unità Operativa di Malattie Infettive e Tropicali, occupandosi in modo particolare di patologie di importazione, medicina dei viaggi, cooperazione internazionale e ricerca. È referente per la parte clinica del gruppo tecnico per la sorveglianza delle arbovirosi (malattie virali trasmesse da vettori come zanzare e zecche) della Regione Veneto. Dal 2021 è Consigliere dell’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Verona