La terapia che svela gli inganni del tumore contro il sistema immunitario
Grazie all’immunoterapia si sta ottenendo un incoraggiante aumento della sopravvivenza in diversi tumori. Sull’efficacia di questi trattamenti ma anche sulla gestione delle tossicità se ne parla in un convegno all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore
Sono i nuovi farmaci immunoterapici in Oncologia il tema del convegno che si terrà martedì 18 giugno all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (vedi programma). Un pomeriggio di confronto sui meccanismi di azione dei questi innovativi farmaci e sulla gestione delle tossicità.
“L’immunoterapia è sicuramente un’importante innovazione nella cura dei tumori”, spiega la dottoressa Stefania Gori, direttore dell’Oncologia Medica e responsabile della segreteria scientifica del convegno. “A differenza di altri trattamenti oncologici, infatti, il bersaglio dell’immunoterapia non è il tumore in sé ma è il sistema immunitario, che viene reso libero di attaccare la neoplasia. Questo cambio di prospettiva ha due importanti vantaggi – sottolinea -. Innanzitutto è che, non essendo vincolata ad uno specifico bersaglio tumorale, l’immunoterapia può essere utilizzata per diversi tumori. Inoltre grazie ad una caratteristica fondamentale del sistema immunitario, cioè la memoria immunologica, i pazienti che rispondo al trattamento riescono ad ottenere risposte di lunga durata che con altri tipi di terapie non è possibile avere. E questo si sta traducendo in un incoraggiante aumento della sopravvivenza in diversi tumori“.
Ma quali sono i meccanismi attraverso i quali agiscono i farmaci immunoterapici?
“Il sistema immunitario è in grado di riconoscere il tumore come un corpo estraneo all’organismo, ma non riesce ad eliminarlo perché il tumore lo blocca agendo con dei freni inibitori – risponde il dottor Alessandro Inno dell’Oncologia Medica del “Sacro Cuore Don Calabria” -. I farmaci immunoterapici rimuovono questi freni, consentendo quindi al sistema immunitario di attaccare il tumore e distruggerlo”.
L’immunoterapia è indicata per tutti i tumori, o vi sono delle neoplasie che rispondono a questi farmaci in modo particolare?
Attualmente in Italia sono già disponibili farmaci immunoterapici per il melanoma, il tumore del polmone non microcitoma, le neoplasie della testa e del collo, il tumore del rene, il linfoma di Hodgkin e il tumore a cellule di Merkel, un tipo raro di cancro della pelle. Fra non molto potranno essere impiegata anche per altre forme neoplastiche per cui l’immunoterapia si è dimostrata efficace, come per il tumore del polmone microcitoma, i tumori uroteliali, l’epatocarcinoma ed un tipo di tumore della mammella detto triplo-negativo. Infine è ipotizzabile che in futuro le indicazioni alla immunoterapia potranno ampliarsi ulteriormente in quanto si stanno svolgendo studi clinici su altri tipi di tumori.
Tutti i pazienti ottengono beneficio dall’immunoterapia?
No e purtroppo, per ora, non abbiamo a disposizione strumenti affidabili per prevedere a priori la risposta che avrà ogni singolo paziente.
Come e quando viene somministrata, prima o dopo l’intervento?
I farmaci immunoterapici sono somministrati in flebo e l’infusione dura in genere circa un’ora. La terapia viene ripetuta ogni due, tre o quattro settimane a seconda del tipo di farmaco e del tipo di tumore. Solitamente l’immunoterapia viene impiegata quando il tumore non è operabile in quanto ad uno stadio avanzato con metastasi in altri organi. A seconda dei casi, può essere usata come terapia di prima scelta oppure dopo che altri approcci terapeutici, come la chemioterapia, abbiano esaurito la propria efficacia. In alcuni tumori l’impiego della immunoterapia si sta spostando in stadi più precoci di malattia, come ad esempio nel melanoma, dove i farmaci immunoterapici possono essere usati per prevenire le ricadute dopo l’asportazione chirurgica del tumore.
Viene impiegata anche in associazione alla chemioterapia e alla radioterapia?
Al momento l’immunoterapia viene somministrata da sola, ma anche da questo punto di vista lo scenario sembra destinato a modificarsi rapidamente. Per diversi tumori sono infatti già stati condotti studi su combinazioni tra immunoterapia e chemioterapia, o tra diversi farmaci immunoterapici, che si sono dimostrati efficaci nel migliorare i risultati delle cure, e che potremo iniziare presto a usare anche nella pratica clinica.
Quali sono gli effetti collaterali?
L’immunoterapia generalmente è meglio tollerata della chemioterapia, ma può avere degli effetti collaterali particolari che chiamiamo immuno-correlati. Essi sono dovuti alla reazione del sistema immunitario contro organi sani. Qualsiasi organo quindi potrebbe essere interessato dagli effetti collaterali, ma quelli più frequentemente colpiti sono la cute, gli organi endocrini, l’intestino, il fegato ed il polmone. Si possono quindi verificare eruzioni cutanee, tiroiditi con ridotto o eccessivo funzionamento della tiroide, coliti, epatiti, polmoniti. Questi eventi si verificano in circa un terzo-metà dei pazienti, ma nella stragrande maggioranza di casi si tratta di eventi lievi, gestibili e reversibili. È importante però che i pazienti siano a conoscenza dei possibili effetti collaterali, al fine di contattare l’oncologo in caso di sospetta tossicità, per poter gestire nel modo più corretto ed efficace gli effetti indesiderati della terapia.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Cure personalizzate con l'oncologia di precisione
Le nuove frontiere dell’Oncologia: a Verona il meeting dell’AIOM dove saranno presentati i progressi nella cura dei tumori emersi dal più importante congresso mondiale di Oncologia che si è svolto a Chicago
Sono più di 100 i centri certificati nel nostro Paese accreditati per l’esecuzione dei test molecolari – tra cui l’Anatomia Patologica dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Si tratta di esami che permettono di individuare in anticipo la cura adatta a ogni paziente colpito da tumore. I test molecolari oggi sono utilizzati nelle tre neoplasie più frequenti, quelle della mammella (52.800 nuovi casi in Italia nel 2018), del colon-retto (51.300) e del polmone (41.500), oltre che nel melanoma (13.300) e nel tumore dello stomaco (12.700).
Alle nuove frontiere nella lotta al cancro è dedicato il convegno nazionale organizzato dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica “2019 AIOM review: from Chicago to Verona”, che si tiene a Verona il 14 e il 15 giugno ed è rivolto ad oltre 500 oncologi che arrivano da tutta Italia (vedi programma).
Oncologia di precisione: l’Italia al top
“L’oncologia di precisione è stata al centro del più importante congresso mondiale di oncologia medica (ASCO, American Society of Clinical Oncology), che si è svolto recentemente a Chicago con un titolo significativo: ‘Caring for every patient, learning from every patient’ (Curare ogni paziente, imparare da ogni paziente) – spiega Stefania Gori, presidente nazionale AIOM e Direttore dipartimento oncologico, dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria –. AIOM ha costruito, in collaborazione con altre società scientifiche, un programma di verifica della qualità dei laboratori che eseguono test di patologia molecolare in linea con gli standard europei. I controlli di qualità sono infatti realizzati utilizzando criteri organizzativi e di valutazione concordati con altre società scientifiche europee. I risultati hanno mostrato che i laboratori italiani eseguono test molecolari con un ottimo livello di qualità, come testimoniato dalla elevata percentuale di laboratori che superano i controlli”.
Ottimi risultati per il tumore mammario metastatico
Nel 2018 nel nostro Paese sono stati stimati 373.300 nuovi casi di tumore: quello della mammella è diventato il più frequente, e anche in Veneto si colloca in prima posizione (4.750 nel 2018). “Il 20% delle diagnosi di carcinoma mammario riguarda pazienti under 50, spesso molto attive sia in famiglia che nella professione. Nelle pazienti con forma metastatica di carcinoma mammario recettori ormonali positivi e HER2-negativo già abbiamo a disposizione dei farmaci, gli inibitori delle cicline, che associati a ormonoterapia, determinano una lunga sopravvivenza libera da progressione – sottolinea la presidente Gori -. A Chicago sono stati presentati i risultati dello studio MONALEESA-7, dal quale è emerso che il 70% di donne vive a tre anni con questa associazione rispetto al solo 46% con la sola terapia ormonale: sono risultati molto importanti in termini di sopravvivenza globale”.
Accesso ai big data da parte degli oncologici
“L’obiettivo dell’oncologia di precisione è colpire il tumore agendo sul suo tallone d’Achille, cioè sulla mutazione genetica che ne è all’origine – spiega Pierfranco Conte, coordinatore della Rete Oncologica Veneta e direttore della Divisione di Oncologia medica 2 all’Istituto Oncologico Veneto -. Per questo, come evidenziato dalla presidente ASCO Monica Bertagnolli, è necessario aprire l’oncologia ai big data, alla grande mole di informazioni che provengono anche dai pazienti del ‘mondo reale’, come gli anziani o le persone più fragili perché colpite da numerose patologie, di solito non coinvolti negli studi clinici. Banche dati connesse fra loro permetteranno agli oncologi di disporre di più conoscenze e di assumere le decisioni migliori per i pazienti”.
I successi dell’immunoterapia: mammella, polmone e melanoma
Anche l’immuno-oncologia, che si fonda sul potenziamento del sistema immunitario contro il tumore, rientra nel concetto di oncologia di precisione e la stimolazione del sistema immunitarioha dato risultati importanti anche nelle forme triplo negative di carcinoma mammario metastatico, che costituiscono il 15% del totale. L’immunoterapia sta segnando passi in avanti significativi anche nel melanoma e nel tumore del polmone. In particolare lo studio KEYNOTE 001, presentato a Chicago, ha dimostrato che l’immunoterapia in prima linea nel tumore del polmone non a piccole cellule avanzato è in grado di quadruplicare la sopravvivenza a 5 anni (23,2% contro 5% nell’era pre-immunoterapia). E in un’analisi a cinque anni dello studio CA209-004, grazie alla combinazione di due molecole immunoterapiche, in tutti i pazienti (precedentemente trattati o non trattati), dopo quattro anni o più, i tassi di sopravvivenza globale erano pari al 57% ed il tasso di sopravvivenza globale tre anni dopo la sospensione della terapia era del 56%.
Le armi più efficaci restano la prevenzione e la diagnosi precoce
Lo evidenzia anche uno studio presentato al congresso ASCO e condotto dal Johns Hopkins Department of Gynecology and Obstetrics di Baltimora. “Grazie all’Affordable Care Act, voluto dall’ex presidente USA Barak Obama, molte più donne americane hanno ricevuto la diagnosi di cancro ovarico in stadio precoce e le terapie entro 30 giorni dalla scoperta della malattia, aumentando così le possibilità di sopravvivenza – afferma la presidente Gori -. AIOM, con altre società scientifiche, ha stilato le ‘Raccomandazioni 2019 per l’implementazione del test BRCA nelle pazienti con carcinoma ovarico e nei familiari a rischio elevato di neoplasia’. Circa il 20% delle neoplasie ovariche è ereditario, cioè causato da specifiche mutazioni genetiche. L’informazione sull’eventuale mutazione dei geni BRCA va acquisita al momento della diagnosi, perché può contribuire alla definizione di un corretto percorso di cura che parta dalla prima linea di trattamento. E, nei familiari che presentano la mutazione, devono essere avviati programmi di sorveglianza intensiva con controlli semestrali fino alla chirurgia profilattica (asportazione chirurgica delle tube e delle ovaie)”.
Mutazioni dei geni BRCA fondamentali anche per il pancreas
La mutazione dei geni BRCA sta diventando fondamentale anche nel tumore del pancreas. “All’ASCO ha avuto grande risonanza lo studio POLO – conclude la presidente Gori -, in cui un inibitore dell’enzima PARP, nei pazienti con mutazione dei geni BRCA, ha ridotto del 47% il rischio di progressione della malattia. Per la prima volta un trattamento di mantenimento nel tumore del pancreas metastatico ha migliorato la sopravvivenza libera da progressione. Valutare BRCA in questi pazienti significa fornire la possibilità, nel prossimo futuro, di trattamenti a bersaglio molecolare e un prolungamento della sopravvivenza libera da progressione”.
Collegialità e passione nell'Agorà della Famiglia calabriana
L’8 e 9 giugno si è svolto il raduno che ha riunito i rappresentanti di tutte le Case e attività dell’Opera Don Calabria in Europa, tra le quali l’IRCCS di Negrar, con l’obiettivo di aprire nuove strade per vivere la spiritualità calabriana oggi
Si è conclusa l’Agorà della Famiglia calabriana, grande raduno che si è svolto l’8 e 9 giugno riunendo i rappresentanti delle attività europee dell’Opera Don Calabria presso la Casa Madre di San Zeno in Monte. Circa 800 persone hanno partecipato all’evento tra momenti di festa, di riflessione e di programmazione del futuro della Famiglia nata dal Carisma di San Giovanni Calabria. Nelle due giornate sono stati presenti anche molti collaboratori dell’ospedale di Negrar, che proprio in questa occasione hanno celebrato la tradizionale Festa della Famiglia.
Il grande raduno è stato preceduto da due momenti preparatori. In una prima fase, nelle scorse settimane, centinaia di religiosi e collaboratori sono stati chiamati a raccontare esperienze in cui hanno sentito di vivere in prima persona qualche aspetto della spiritualità di san Giovanni Calabria. Quindi dal 4 al 7 giugno un gruppo di circa 60 rappresentanti delle varie Case e attività si sono riuniti a Camposilvano (vedi ultime due foto nella gallery), sulle montagne veronesi, per rielaborare tutti i racconti e trarre alcune proposte sul cammino futuro da intraprendere in vista del Capitolo generale dell’Opera Don Calabria che si terrà il prossimo anno.
Sono state giornate intense e molto significative, vissute all’insegna della collegialità e di una rinnovata passione per le persone bisognose che sono al centro del progetto voluto da don Calabria. All’evento era presente anche il Casante padre Miguel Tofful che ha tenuto l’intervento conclusivo aprendo scenari di rinnovamento e di sempre maggiore sinodalità nell’Opera a tutti i livelli, dalla gestione delle Case agli organi direttivi della Congregazione.
L'intervento alle emorroidi? Non è più così doloroso
Si chiama HPS, una tecnica che consiste nell’applicazione di suture con lo scopo di riportare i “cuscinetti” nel canale anale, senza nessuna ferita chirurgica. Il chirurgo proctologo Nicola Cracco ci illustra l’intervento
E’ un disturbo di cui non si parla volentieri, ma è molto diffuso a partire dai 20-25 anni, in entrambi i sessi, anche se gravidanza e parto accrescono il rischio nella donna. Sono le emorroidi, un termine anatomico – che definisce i cuscinetti vascolari del canale anale, formati da arterie e vene, che hanno la funzione fisiologica di coadiuvare la continenza fecale – ma che viene usato per indicare uno stato patologico nel momento in cui divengono “sintomatiche”, cioè quando causano un disturbo.
Quando diventano patologiche
“Innanzitutto le emorroidi diventano patologiche quando vanno incontro al prolasso (cioè la fuoriuscita dalla loro sede naturale con o senza necessità di riduzione manuale) e/o al sanguinamento. Tuttavia in questi casi non sono dolorose“, precisa il dottor Nicola Cracco, responsabile della Chirurgia proctologica. “Diventano tali solo se si trombizzano, cioè se si formano dei coaguli di sangue all’interno, e quindi si induriscono rendendo impossibile la riduzione del prolasso“.
Due tecniche di intervento a confronto
In questi casi, a seconda dell’entità del disagio provato dal paziente a causa del prolasso e/o della presenza di un sanguinamento abituale (non responsivo a terapia medica) che può provocare anemia, è necessario il trattamento chirurgico. L’asportazione delle emorroidi (emorroidectomia) è l’intervento più antico e anche anche quello che garantisce i migliori risultati a lungo termine. “Si tratta di un intervento che suscita timore nel paziente in quanto doloroso e che richiede alcune settimane di convalescenza – spiega il dottor Cracco -. Ma non è il solo che abbiamo a disposizione, perché da alcuni anni si va consolidando la tecnica HPS (Hemorpex System), assolutamente non dolorosa, efficace e che permette un rapido ritorno alle attività quotidiane”.
HPS, suture invece che cicatrici
“La tecnica chirurgica HPS consiste nell’applicazione di suture a monte delle emorroidi, cioè nel retto, che hanno lo scopo di riportare i “cuscinetti” nel canale anale. E’ un intervento conservativo, le emorroidi non vengono asportate, e quindi non doloroso“, spiega il dottor Cracco. “Si tratta di una tecnica che funziona e soprattutto non reca danno. Ciò che non conosciamo ancora sono i risultati a lungo termine, in quanto essendo una modalità di intervento relativamente recente, non abbiamo a disposizione sufficiente letteratura medico-scientifica per quantificarli”.
Le emorroidi si possono riformare
Infatti, anche se asportate, le emorroidi si possono riformare. Per l’ emorroidectomia è stato riportato un tasso di recidiva molto basso, intorno al 5% a 5 anni – spiega ancora Cracco -. Può capitare infatti che una volta tolte dalle loro sedi classiche (una a sinistra e due a destra), le emorroidi ricompaiano. Sul tasso di recidiva dopo HPS invece non possiamo dire ancora nulla”.
La prevenzione: bere tanta acqua
Si possono prevenire prolasso e sanguinamento delle emorroidi? “La prevenzione principale consiste in una dieta varia ricca di fibre e con abbondante apporto di liquidi. Questo aiuta a mantenere le feci morbide, evitando così il rischio di prolasso causato dallo sforzo dell’evacuazione ed il sanguinamento. Per quanto riguarda gli alimenti, esiste l’assioma che cioccolato, caffé e cibi piccanti rechino danno alle emorroidi. Ma non è sempre vero, lo può essere per alcune persone e non per altre”, conclude il dottor Cracco.
Causa il cancro e il ciclo doloroso è normale: le fake news sull'endometriosi
Tutti i luoghi comuni sull’endometriosi, la malattia ginecologica che colpisce in Italia circa 3 milioni donne. Un congresso organizzato dal dottor Marcello Ceccaroni mette in evidenza quanto le false credenze influiscano anche su la cura della malattia
Anche l’endometriosi, la patologia ginecologica che in Italia colpisce 3 milioni di donne, è vittima di fake news. Si tratta di luoghi comuni che diventano spesso un ostacolo nella cura della malattia, tanto sono radicati nelle pazienti e alcune volte portati avanti dagli stessi ginecologi.
Si parlerà di questo nel corso del congresso “Nuove strategie terapeutiche, stili e qualità della vita della donna: un approccio armonico alla paziente con endometriosi”, in programma sabato 8 giugno nella Sala Congressi della Cantina della Valpolicella di Negrar (vedi allegato). L‘incontro scientifico è organizzato dal dottor Marcello Ceccaroni, direttore del Dipartimento per la tutela della salute e della qualità di vita della donna, U.O.C di Ostetricia e Ginecologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, Centro di riferimento della Regione Veneto per la cura dell’endometriosi. Il congresso è rivolto a medici di medicina generale e a ginecologi, per fare il punto su alcuni aspetti della malattia – dall’epidemiologia alla diagnosi fino agli stili di vita – su cui persistono errate convinzioni o mancate conoscenze. Facciamo chiarezza con il dottor Marcello Ceccaroni.
Mestruazioni dolorose? Le aveva anche la nonna
“E’ un retaggio culturale che ancora adesso persiste a causa del quale molte donne non vengono curate o curate in ritardo – sottolinea il dottor Ceccaroni -. Si dimentica però che le nostre nonne a vent’anni avevano già un figlio o forse due e diventavano madri più volte nella vita. Queste gravidanze, che si succedevano anche a breve distanza l’una dall’altra, erano di per sé una terapia contro l’endometriosi, perché sospendendo il ciclo per ben oltre un anno – anche durante l’allattamento – contribuivano a far regredire la malattia, quindi i sintomi. Oggi la situazione è molto diversa: per molteplici ragioni sociali la donna inizia a cercare una gravidanza intorno a 35 anni. Il che vuol dire che, dalla comparsa della prima mestruazione fino a quell’età, queste donne, nella convinzione che il dolore è ‘naturale’, non si sono mai curate e scoprono la malattia solo perché non riescono a concepire un bambino. Un dato significativo: la mediana dell’età delle donne che operiamo nel nostro Centro è di 38 anni; il 41% ha oltre 40 anni, ma il range va dai 16 ai 58 anni, ben oltre la menopausa. Infatti l’endometriosi quando non viene curata crea dei danni anatomici all’intestino, alla vescica, all’uretere che devono essere risolti chirurgicamente”.
Se non si vede la cisti sull’ovaio, non c’è endometriosi
“Purtroppo questa convinzione riguarda i ginecologi. Nonostante oggi sappiamo molto di questa malattia, la diagnosi arriva in media dopo 7 anni durante i quali le pazienti sono vittime di un triste peregrinare da un medico all’altro con la vita devastata dal dolore. Uno degli interventi del convegno, a cura del dottor Luca Savelli dell’Università di Bologna, sarà quello di evidenziare quali sono i segni individuabili con l’ecografia tansvaginale che indicano la presenza di endometriosi al di là della semplice cisti ovarica. Spesso la malattia è così profondamente radicata nel tessuto che la si trova solo cercandola”.
L’endometriosi è causa di sterilità
“E’ la falsa convinzione a causa della quale molte ragazze giovani con la diagnosi di cisti all’ovaio vengono sottoposte a interventi inutili. Infatti è sterile solo il 25% delle donne affette da endometriosi. La malattia è sì un fattore di rischio di sterilità, perché può deformare o chiudere le tube e se non curata con la terapia ormonale libera delle sostanze che riducono gli ovociti in quantità e in qualità. Ma è un fattore di rischio ben più alto sottoporre la paziente a ripetuti interventi non risolutivi in quanto limitati a togliere le cisti senza andare in profondità. Interventi che causano un impoverimento dell’ovaio, rendendo più difficile il concepimento“.
La chirurgia è l’unica soluzione
“Non è vero. La chirurgia è la ‘scialuppa di salvataggio’ sui cui salire solo quando è strettamente necessaria e al momento giusto. Noi vantiamo una casistica di interventi tra le più alte a livello internazionale, ma questo è dovuto al fatto che, essendo il nostro un Centro di terzo livello, accedono dai noi casi estremamente gravi, magari reduci da decine di operazioni chirurgiche inutili e non risolutive. Le pazienti che si rivolgono a noi hanno subito in media quattro interventi, ma il range va da 0 a 20. Questo non significa – precisa il ginecologo- che la malattia si è ripresentata 20 volte, in quanto il tasso di recidiva dopo un intervento radicale è dell’8%. Significa invece che sono state operate fino a 20 volte in maniera non accurata e spesso inutilmente.
La terapia ormonale fa più danni che benefici
Altra falsa credenza. Soprattutto per quanto riguarda le pazienti più giovani, sono molto spesso più indicati la terapia ormonale e un follow-up periodico. Oggi abbiamo a disposizione estro-progestinici (la cosiddetta pillola) e progestinici molto efficaci nel bloccare la formazione di tessuto endometriosico e quindi in grado di attenuare la sintomatologia dolorosa. Possono essere assunti fino al momento in cui, alla luce della stabilità della malattia, la donna decide di intraprendere una gravidanza e ripresi dopo il parto e l’allattamento. Se il bambino non arriva, allora si può pensare di rivolgersi ad un Centro Fertilità o di intraprendere la strada chirurgica. E’ bene sapere che anche se si ricorre alla chirurgia è necessario assumere la pillola, perché la donna ha sempre un utero (spesso con adenomiosi) e un ciclo e quindi è a rischio di recidiva.
Con la chirurgia e/o la pillola risolvo il problema
“Falso: la pillola come la chirurgia non risolve da sola la malattia, ma, come verrà sottolineato durante alcuni interventi nel corso del congresso, è importante accompagnarla con l’assunzione di integratori e uno stile di vita sano, fatto di diete anti-infiammatorie e di attività fisica. I principi attivi naturali contenuti negli integratori hanno l’obiettivo di ridurre la liberazione di sostanze chimiche (le citochine) all’origine dell’infiammazione, del dolore addominale, muscolare e articolare, della fatica cronica, della febbricola di cui soffrono le donne colpite dalla malattia. Lo stesso per quanto riguarda la corretta alimentazione e l’attività fisica costante. La patologia resta, ma i sintomi vengono tenuti sottocontrollo come accade per qualsiasi malattia cronica”.
L’endometriosi causa il cancro all’ovaio
“Non è stato provato nessun nesso causale tra l’endometriosi e il cancro all’ovaio, anche se lo stato infiammatorio causato dalla malattia fa sì che le donne affette da endometriosi abbiano un rischio doppio di sviluppare questa malattia. Tuttavia siamo di fronte a un tumore che è poco frequente e colpisce in Italia solo 4mila donne, pertanto il ‘rischio cancro’ non è una ragione indicativa per operare. Anche perché se alcuni studi comprovano questo rischio aumentato, altri associano all’endometriosi forme tumorali ovariche meno aggressive e diagnosticate precocemente, perché la donna si sottopone spesso a controlli dovuti alla malattia”.
Un aiuto psicologico? Io non ne ho bisogno
“Le pazienti affette da endometriosi sono protagoniste di storie travagliate, fatte non di rado di diagnosi tardive, di chirurgie multiple, di dolori invalidanti che non vengono creduti, di difficoltà a rimanere incinta, di rapporti sentimentali se non matrimoni che si spezzano, di problematiche lavorative dovute alle numerose assenze. E’ impensabile che tutta questa sofferenza protratta per anni non incida sulla psiche della persona. Per questo è importante che la paziente sia invitata a sostenere un percorso di terapia psicologica e assumere, se è necessario e su indicazione dello psichiatra, il farmaco più adatto. Una paziente con un sostegno psicologico è più collaborante nel cambiare stili di vita, a fare attività fisica e assumere la terapia ormonale”.
No assolutamente alla soia
Sarà il dottor Agostino Grassi, nutrizionista di fama internazionale e cultore della dieta mediterranea, ad informare e confutare durante il convegno alcuni luoghi comuni che persistono sul tema alimentazione ed endometriosi. Uno di questi riguarda la soia, dalla quale le pazienti si tengono lontane perché in qualche modo aumenterebbe la malattia. Questa imprecisione è dovuta al fatto che la soia contiene fitoestrogeni, cioè sostanze di origine naturale che assomigliano agli estrogeni (ma non lo sono) e poiché l’endometriosi è sensibile agli estrogeni meglio evitarla. Tuttavia i fitoestrogeni hanno una potenza molto minore e, per quanto facciano bene, non sono ormoni. Inoltre c’è soia e soia. Gli estratti di soia che vengono prescritti e sono efficaci per ridurre le vampate tipiche della menopausa, ad esempio, contengono una determinata quantità di genistina, un estrogeno naturale di cui la soia che acquistiamo al supermercato è quasi priva a causa di processi di raffinazione. Altro luogo comune: il pomodoro meglio mangiarlo perché è ricco di vitamine. Vero, però è un alimento che può, assieme ad altri, ipersensibilizzare al dolore. Anche la spremuta di arance fa bene. Certo. Peccato però che abbia una quantità di carboidrati semplici (zuccheri) che sono tra gli alimenti che favoriscono l’infiammazione. Meglio mangiare le arance con la loro fibra, la quale influisce positivamente sull’indice glicemico di questi alimenti”.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Non solo tumori: i tanti danni del fumo ai polmoni
Si celebra oggi la Giornata mondiale senza tabacco, un appuntamento per sensibilizzare contro un killer che, solo in Italia, è considerato responsabile di 93.500 morti all’anno, pari al 14% di tutti i decessi. Un killer che uccide in molti modi diversi…
Si stima che in Italia lo scorso anno siano morte 93mila persone per cause correlate al fumo di sigaretta, pari al 14% dei decessi totali (dati AIOM 2018). Decessi dovuti al fatto che il fumo è uno dei maggiori fattori di rischio per molti tipi di tumore ma anche per patologie respiratorie croniche e patologie cardiovascolari gravi. La maggior parte di queste morti potrebbe essere evitata semplicemente smettendo di fumare. Eppure ancora oggi più di un italiano su cinque è un fumatore, ovvero 11,6 milioni di persone (dati Istituto Superiore di Sanità, maggio 2019).
Per sensibilizzare sui danni del fumo e sulla evitabilità delle patologie ad esso correlate, il 31 maggio di ogni anno l’OMS promuove la Giornata mondiale senza tabacco. Un appuntamento che quest’anno è dedicato al tema “Tabacco e salute dei polmoni”. Come risaputo, il fumo è causa dell’85-90% dei tumori del polmone, che rappresentano la quarta neoplasia per incidenza e la prima causa di morte per neoplasia a livello nazionale. Nel 2018 i casi di tumore del polmone in Italia sono stati 41.500 (stime AIOM).
Ma tra i danni provocati dal fumo alle vie respiratorie non c’è solo il tumore. Infatti il tabagismo è di gran lunga la principale causa di patologie respiratorie croniche che spesso compromettono gravemente lo stato di salute e lo stile di vita di chi ne è affetto. Non si parla solo di infezioni, tosse cronica e catarro, ma soprattutto di asma e broncopneumopatia cronico ostruttiva (BPCO), caratterizzata da un’ostruzione bronchiale e quindi da una difficoltà respiratoria più o meno grave, patologia che riguarda il 10% della popolazione mondiale.
Proprio le malattie respiratorie croniche ostruttive, secondo le stime OMS, nel 2020 saranno la terza causa di morte a livello globale dopo le patologie cardiovascolari e i tumori. Ed anche le spese sanitarie correlate sono imponenti (si calcola che il 56% delle spese sanitarie per patologie respiratorie in Europa sia causata dalla BPCO).
Sulle patologie croniche ostruttive, la BPCO in particolare, l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria sta portando avanti da anni uno studio unito ad un lavoro di sensibilizzazione sulla popolazione veronese in collaborazione con l’ateneo scaligero e le istituzioni (vedi articolo correlato). Inoltre la Pneumologia guidata dal dottor Carlo Pomari è uno dei centri europei sede della sperimentazione di un vaccino che ha l’obiettivo di prevenire il riacutizzarsi delle infezioni, ad esempio bronchiti, che colpiscono con frequenza chi è affetto da patologie respiratorie croniche (vedi articolo).
Infine un’attenzione particolare al “Sacro Cuore” è dedicata alla tosse, specialmente se persistente, che talvolta rappresenta il sintomo di una patologia cronica. Sempre con il coordinamento della Pneumologia, dall’anno scorso è operativo un Centro della Tosse presso il Centro Diagnostico Terapeutico Ospedale Sacro Cuore, in via San Marco 121 a Verona, che coinvolge un team multispecialistico per lo studio, la diagnosi e la cura di tale malattia.
Tornando al fumo di sigaretta, un altro aspetto deleterio da tenere in considerazione è il cosiddetto fumo passivo, che secondo l’OMS è responsabile di quasi un milione di morti all’anno nel mondo. A tal proposito si stima che 165mila bambini minori di 5 anni muoiano per infezioni alle vie respiratorie causate da fumo passivo.
Per completare il quadro, al di là dei danni respiratori, il fumo è responsabile o corresponsabile di molti tipi di tumore oltre a quello del polmone: cavo orale e gola, esofago, pancreas, colon, vescica, prostata, rene, seno, ovaie, alcuni tipi di leucemie. In particolare è la principale causa di tumore del pancreas esocrino (13.300 casi stimati nel 2018 in Italia) ed è causa del 40% di tumori al rene nei maschi (13.400 casi nel 2018). Riguardo alle patologie cardiovascolari, infine, il fumo aumenta le probabilità di incorrere in ipertensione, infarto, ictus e coronaropatie.
Legge 219/2017: gli aspetti etici e quelli clinici
A circa un anno dall’entrata in vigore delle “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento” un convegno all’IRCCS di Negrar fa il punto sulle norme introdotte anche in relazione agli aspetti clinici ed etici.
Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la Legge 22 dicembre 2017, n. 219 sulle “Norme in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento“. Una legge che sancisce in maniera organica un principio già espresso dalla Costituzione, all’articolo 32: cioè che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. All’interno della stessa norma sono comprese le cosiddette “Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)”, che estendono il potere decisionale del paziente anche quando egli ha perduto la sua capacità relazionale.
Tale normativa sarà al centro del convegno “La legge, la clinica e l’etica” che si terrà sabato 8 giugno, a partire dalle 8.30, all’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (vedi programma). L’incontro è accreditato ECM per tutte le professioni sanitarie e ha come obiettivo non solo quello di esaminare le innovazioni e le criticità delle nuove disposizioni legislative, ma anche le loro importanti implicazioni cliniche ed etiche.
Interverranno infatti come relatori Franco Alberton, medico legale dell’Ospedale di Negrar, Maurizio Chiodi, docente della Facoltà Ecclesiastica di Teologia di Milano e Bergamo, e Gianmariano Marchesi, già direttore dell’Anestesia e Terapia Intensiva adulti dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
“La legge 219/2017 segna definitivamente il passaggio dal cosiddetto paternalismo medico alla condivisione con il paziente di tutti i trattamenti sanitari“, spiega il dottor Alberton, responsabile della segreteria scientifica del convegno. “Infatti nonostante il chiaro dettato costituzionale, si manifestavano ancora dubbi ed incertezze applicative, specie in situazioni complesse legate alle fasi terminali della vita. Grazie a questa legge, invece, viene sancito il principio di autodeterminazione del paziente a cui compete, assieme al medico, ogni decisione che interessi la sua salute”.
Diventa quindi fondamentale che gli operatori sanitari conoscano i doveri e gli obblighi che prevede questa legge, non solo ‘sulla carta’, ma in relazione a situazioni cliniche concrete che emergeranno nel corso del convegno.
“Si tratta di norme che regolamentano l’ambito sanitario e in particolare una fase delicata della vita di ciascuno di noi, quella terminale per età o per malattia – prosegue il dottor Alberton -. Pertanto non si può prescindere dall’aspetto bioetico. Il medico può trovarsi per esempio di fronte a un paziente che rifiuta terapie salvavita comprese l’alimentazione e l’idratazione o a DAT che prevedono le stesse disposizioni. Esistono poi tutte le problematiche dei trattamenti futili e sproporzionati, quelle che riguardano la palliazione e la sedazione terminale. La volontà del paziente non può essere ignorata – conclude il medico legale – ma nemmeno la deontologia e l’etica di riferimento dell’operatore sanitario. La conciliazione di questi due aspetti è uno dei punti critici della legge“.
Nasce una collaborazione tra il Sacro Cuore e la Repubblica Dominicana
Una delegazione del Paese caraibico, guidata dal vice-ministro della salute, è stata in visita a Negrar per gettare le basi di un accordo di cooperazione sanitaria sui temi delle malattie tropicali, della riabilitazione e della mortalità materno-infantile
Gettare le basi per un accordo di collaborazione in ambito sanitario e socio-sanitario tra la Repubblica Dominicana e l’Opera Don Calabria, avvalendosi dell’esperienza e delle competenze dell’IRCCS ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar. È questo l’obiettivo della visita di una delegazione ufficiale del Paese caraibico, guidata dal vice-ministro della salute Francisco Neftari Vasquez, che si è conclusa oggi dopo un fitto programma di incontri svolti tra Verona, Venezia e Negrar (vedi foto qui sotto), dove ha incotrato i vertici dell’Ospedale e alcuni primari.
L’idea di questo accordo nasce dal sostegno che l’Opera calabriana fornisce da 4 anni al progetto Esperanza, un’iniziativa che grazie alla solidarietà di tanti veronesi offre un aiuto concreto a centinaia di minori dominicani nella provincia rurale di Monte Plata. “Vivendo ogni giorno accanto ai ragazzi – dice Alessandro Padovani, responsabile dei progetti sociali dell’Opera – i nostri operatori si sono resi conto che uno dei maggiori bisogni espressi dalla popolazione locale è quello di servizi nel campo della salute. Così abbiamo lavorato con le autorità provinciali di Monte Plata, fino a coinvolgere il governo centrale per avviare questa collaborazione”.
Tra le principali emergenze sanitarie illustrate dalla delegazione dominicana ci sono l’alto tasso di mortalità materno-infantile, la violenza nei confronti delle donne giovani e il conseguente elevatissimo numero di gravidanze in età adolescenziale, la difficoltà nel gestire alcune malattie come morbillo, malaria, dengue e zika, l’assenza di servizi di traumatologia e riabilitazione efficienti a fronte di frequentissimi incidenti stradali. “Abbiamo bisogno di formare il nostro personale per affrontare al meglio questi problemi adottando le procedure più corrette – ha detto il vice-ministro – per questo la visita in Italia e in particolare all’ospedale di Negrar è stata molto utile perchè abbiamo visto che ci sono grandi professionalità e un’organizzazione che per noi rappresenta un modello da seguire per puntare alla prevenzione oltre che alla cura”.
Proprio la formazione del personale dominicano rappresenta una delle più concrete prospettive della collaborazione che si sta avviando, unitamente allo scambio di competenze sulla diagnosi e la cura delle malattie infettive e tropicali, ambito per il quale l’ospedale calabriano è Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.
“Questo accordo si inserisce in un percorso di cooperazione sanitaria che l’Opera Don Calabria e l’ospedale di Negrar portano avanti da tempo in diversi Paesi del mondo – dice il dottor Claudio Bianconi, referente per i progetti sanitari calabriani, che ha accompagnato i dominicani insieme a don Ivo Pasa, delegato dell’Opera in Italia, e a Francesco Padovani, responsabile del Progetto Esperanza. “Attualmente abbiamo iniziative in Ucraina e Bielorussia, oltre a Brasile, Angola e Filippine dove sono presenti ospedali calabriani che lavorano in sinergia con Negrar”, aggiunge Bianconi.
Oltre al vice-ministro, facevano parte della delegazione della Repubblica Dominicana anche il direttore provinciale della salute di Monte Plata , Dr. Winton Leonel Martinez Reyes, e personale del coordinamento della salute della medesima provincia nonchè personale dell’ambasciata dominicana in Italia. Durante la sua permanenza , la delegazione ha incontrato tra gli altri l’assessore regionale alla sanità Manuela Lanzarin e il sindaco di Verona Federico Sboarina. Al “Sacro Cuore Don Calabria” hanno incontrato anche il ministro della Famiglia e della Disabilità, Lorenzo Fontana, e il sottosegretario alla Salute, Luca Coletto.
Dona il tuo "5X1000" alla ricerca del "Sacro Cuore Don Calabria"
Solo grazie alla ricerca è possibile offrire a chi è ammalato le migliori terapie: contribuire allo sviluppo della ricerca effettuata dal nostro Ospedale è facile e senza oneri, basta una firma nella dichiarazione dei redditi
Con la dichiarazione dei redditi di quest’anno hai la possibilità di sostenere la ricerca dell’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico Ospedale Sacro Cuore Don Calabria. Destinando il “5X1000” per il “Finanziamento per la Ricerca Sanitaria” al nostro Ospedale puoi contribuire direttamente allo sviluppo di progetti di ricerca che hanno come obiettivo terapie innovative per la cura delle maggiori patologie.
Oggi l’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è impegnato in diversi ambiti di ricerca tra cui:
Oncologia: valutazione di trattamenti radioterapici somministrati con tecnologie d’avanguardia; sperimentazione sui pazienti (Fase 1) del vaccino contro l’epatocarcinoma (vedi: “Metastasi cerebrali: da “HyperArc” risultati promettenti; “Metastasi spinali: il ‘Sacro Cuore’ ospedale pilota con un’innovativa radioterapia“; “Metastasi cerebrali: il “Sacro Cuore” primo al mondo nell’uso di una nuova tecnica di Radiochirurgia“; “Tumore al seno: la Radioterapia che ha a cuore… il cuore“;”Epatocarcinoma: al “Sacro Cuore” la sperimentazione di un nuovo farmaco”; “Prosegue lo studio clinico sul vaccino contro l’epatocarcinoma“).
Malattie infettive e tropicali: creazione di test diagnostici rapidi e di facile impiego sul campo per patologie endemiche nelle aree tropicali, ma che con l’intensificarsi dei viaggi all’estero e del fenomeno immigratorio sono di interesse sanitario anche in Occidente (vedi: “Malattie infettive e tropicali confermato centro collaboratore dell’OMS“; “Malattia di Chagas: solo l’1% dei malati accede alla diagnosi e alle cure”)
Gastroenterologia: individuazione di trattamenti contro le patologie croniche dell’intestino (per esempio la colite ulcerose) per le quali manca ancora una cura efficace (vedi: “La chirurgia nelle malattie infiammatorie croniche dell’intestino“; “Non solo diagnosi: i tanti ruoli del patologo nelle MICI“; “MICI e cancro al colon: quei campanelli d’allarme chiamati displasie“
Ortopedia: medicina rigenerativa della cartilagine delle maggiori articolazioni con l’impiego di derivati piastrinici e cellule mesenchimali ricavate dal tessuto adiposo (vedi: “Dal Giappone la tecnica che salva le articolazioni con il grasso“; “Chirurgia della spalla: l’innovazione è “biologica”; “Se il ginocchio fa male, la cura arriva dal tessuto adiposo“)
Oculistica: studio di approcci chirurgici innovativi per le patologie della retina (vedi: “Alla dottoressa Pertile il premio dei chirurghi europei della retina“; “Quel liquido che offusca improvvisamente la vista”; “Retina artificiale: tutto pronto per lo studio preclinico sull’uomo).
Cardiologia: valutazione di trattamenti con l’uso di dispositivi medici delle patologie cardiologiche (vedi: “Pacemaker collegati al cellulare: è del ‘Sacro Cuore’ il primo paziente connesso“; “Cardiologia: oltre mille pazienti controllati a distanza“).
Riabilitazione: per i pazienti mielolesi si ricercano tecniche di riabilitazione fisica e di neuroriabilitazione (vedi: “Innovativo percorso riabilitativo per chi ha perso l’uso delle braccia”; “L’esoscheletro robotico: l’ultima frontiera della riabilitazione“).
Grazie alla donazione del “5X1000” puoi contribuire anche tu allo sviluppo di queste ricerche e cambiare il futuro di molte persone, perché “Insieme nella ricerca più forti nella cura”.
COME DONARE: nel modulo della dichiarazione dei redditi (730, Unico, Cud) metti la tua firma e il codice fiscale 00280090234 dell’Istituto Don Calabria- IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria nello spazio dedicato a “Finanziamento della Ricerca Sanitaria”.
DONA ORA: puoi sostenere la ricerca anche con una donazione (deducibile dal reddito imponibile IRPEF) tramite bonifico (Codice IBAN IT92E0503411702000000003129) con causale “Ricerca Sanitaria”
Cosa accade quando la tiroide non funziona
Dal 20 al 26 maggio si tiene in tutto il mondo la Settimana della tiroide: attenzione ai sintomi e soprattutto alla prevenzione delle principali patologie che può essere fatta tramite l’assunzione quotidiana di sale iodiato per cucinare
Torna anche quest’anno, dal 20 al 26 maggio, la Settimana mondiale della tiroide, promossa dalle associazioni scientifiche di Endocrinologia e dei pazienti più rappresentative per accendere i riflettori sulla salute di una ghiandola tanto piccola quanto fondamentale per il nostro organismo (pesa mediamente solo 20 grammi).
“Amo la mia tiroide e faccio la cosa giusta” è lo slogan dell’edizione 2019. E una delle prime cose giuste da fare è quella di assumere quotidianamente e senza eccedere, il sale iodiato per cucinare, acquistabile in qualsiasi supermercato.
“Lo iodio serve alla piccola ghiandola endocrina per sintetizzare gli ormoni tiroidei i quali, a loro volta, regolano il buon funzionamento del muscolo cardiaco e scheletrico, il metabolismo osseo, lipidico e glucidico e sono essenziali per lo sviluppo del sistema nervoso del feto” spiega il dottor Lino Furlani, responsabile del Servizio di Endocrinologia e coordinatore organizzativo nazionale dell’Associazione Medici Endocrinologi (AME).
La carenza di iodio è all’origine di una delle patologie funzionali della tiroide più diffuse, l’ipotiroidismo, che colpisce circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni. Una percentuale che cresce se si comprendono anche i casi di ipotiroidismo subclinico, che non si manifesta con i classici sintomi, ma è rilevabile solo tramite il dosaggio nel sangue del TSH. Inoltre, la carenza di iodio favorisce lo sviluppo di noduli (vedi articolo)
TSH
La tirotropina o tireotropina o TSH, appunto, è l’ormone prodotto dall’ipofisi con il compito di regolare la funzione tiroidea (produzione di T3 e T4). Se il TSH è superiore alla norma significa che la tiroide lavora poco, mentre se è inferiore può essere sintomo di ipertiroidismo, cioè di un eccessivo funzionamento della tiroide, l’altra patologia funzionale della ghiandola più diffusa (ne soffre il 3% della popolazione).
IPOTIROIDISMO
Cause e sintomi
Una delle cause principali dell’ipotiroidismo è la tiroidite autoimmune, conosciuta come ‘morbo di Hashimoto’. Poiché comporta un’insufficiente produzione di ormoni T3 e T4 da parte della tiroide, tutto l’organismo ‘rallenta’ i suoi processi con sintomi quali affaticamento, sonnolenza, aumento di peso, sensazione di freddo.
Terapia
La terapia dell’ipotiroidismo prevede l’assunzione di Levotiroxina, l’ormone sostitutivo per eccellenza. “E’ importante che la terapia sia calibrata bene ed individualizzata”, afferma il dottor Furlani. “Il giudizio del buon compenso funzionale non si basa solo sugli esami del sangue: la cura deve tenere in considerazione anche l’età della persona, il suo stile di vita e altre condizioni fra cui la gravidanza. Bisogna inoltre porre molta attenzione all’interferenza di altri farmaci o sostanze con la terapia: farmaci come gli inibitori di pompa (Omeprazolo e analoghi) o sostanze come la soia devono essere assunti a distanza di 4 – 5 ore dall’ormone tiroideo perché ne potrebbero compromettere l’assorbimento. Sono disponibili diverse formulazioni di ormone tiroideo (compressa, liquida e soft-gel) che permettono di individualizzare la terapia e ne riducono le interferenze di assorbimento”.
IPERTIROIDISMO
Cause e sintomi
Anche per lipertiroidismo la causa principale è una sindrome autoimmune che, quando coinvolge l’intera ghiandola, viene definita ‘morbo di Basedow’; l’ipertiroidismo può anche essere sostenuto da un solo nodulo, in un contesto di tiroide plurinodulare, ed in tal caso è conosciuta come “morbo di Plummer”. Nell’ipertiroidismo vi è una iperproduzione di ormone tiroideo, quindi l’organismo funziona in modo accelerato. I sintomi infatti sono: agitazione, ansia, nervosismo, tachicardia, ipercinesia, astenia, dimagrimento, ipersudorazione e minor resistenza allo sforzo”.
Terapia
La terapia può essere farmacologica con l’assunzione di Tiamazolo (oppure Propiltiouracile in casi particolari). Nelle situazioni che non rispondono alla terapia medica si può optare per la chirurgia (vedi video) che prevede l’asportazione della ghiandola in toto (soprattutto nel caso di tiroidi voluminose o con noduli importanti) o per il radioiodio(vedi video), che consiste nella somministrazione orale di una capsula di iodio-131. Lo iodio contenuto nel radiofarmaco ha lo scopo di distruggere i tessuti attivi della tiroide. Una volta effettuata la terapia chirurgica o medico-nucleare è necessario assumere l’ormone tiroideo sostitutivo.
PERSONE A RISCHIO
La valutazione del buon controllo della funzione tiroidea e della sua struttura (Ecografia) è indicata in alcune categorie di persone:
- Donne in età fertile e in particolare coloro che hanno in programma una gravidanza. Infatti l’ormone tiroideo prodotto dalla madre è responsabile nelle prime settimane di vita della maturazione del sistema nervoso del feto. E’ importante inoltre che la futura mamma inizi prima della gravidanza una supplementazione di iodio (non è sufficiente il sale iodiato) che poi manterrà per tutti i 9 mesi e durante l’allattamento. La gravidanza comporta una perdita di iodio nelle urine che potrebbe mettere a rischio lo sviluppo della tiroide del feto. Durante l’allattamento l’assunzione dello iodio ha anche una funzione di prevenzione delle malattie tiroidee nel bambino.
- Gli anziani. Spesso i sintomi dell’ipotiroidismo sono confusi con l’astenia propria dell’anziano
- Le persone che hanno familiarità per malattie della tiroide(disfunzioni e neoplasie tiroidee)
elena.zuppini@sacrocuore.it