La tubercolosi al tempo dei grandi flussi migratori
Venerdì 24 marzo si celebra la Giornata mondiale per la lotta alla tubercolosi che ancora oggi miete quasi due milioni di vittime all’anno. Una malattia contro la quale è impegnato in prima linea anche il Centro per le Malattie Tropicali di Negrar
Esiste un rischio che la tubercolosi torni a diffondersi in Italia dopo oltre 60 anni in cui la sua incidenza è costantemente calata? Quali sono i legami tra questa malattia e l’aumento dei migranti che percorrono la rotta del Mediterraneo? E ancora: sono giustificati gli allarmismi che di tanto in tanto rimbalzano sui media per la scoperta di qualche nuovo caso di TB? L’occasione per fare il punto della situazione è la giornata mondiale contro questa malattia, che si celebra venerdì 24 marzo.
La tubercolosi è tuttora considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come uno dei “big killer”, ovvero una delle malattie che fanno più vittime al mondo. Secondo le stime dell’OMS, nel 2015 più di dieci milioni di persone si sono ammalate, mentre quasi due milioni sono morte di TB, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo in Asia e Africa. In Italia i dati parlano di 3700 nuovi casi notificati, vale a dire una media di dieci al giorno, con oltre 350 decessi. Alcuni casi di tubercolosi sono trattati anche al Sacro Cuore presso il Centro per le Malattie Tropicali, dove nel 2016 ci sono stati 38 ricoveri per questa patologia.
“L’Italia è fra i Paesi a più bassa incidenza di TB, con circa 5 casi ogni 100mila abitanti – dice la dottoressa Paola Rodari (vedi foto), medico infettivologo e ricercatrice presso il CMT, diretto dal dottor Zeno Bisoffi – Le diagnosi di TB sono equamente distribuite tra i migranti e gli italiani. Nel primo caso si tratta di persone che hanno contratto l’infezione nel loro Paese di origine e che sviluppano la malattia da noi, anche a causa dello sradicamento sociale a cui sono sottoposte; tra gli italiani si ammalano soprattutto gli anziani, che sono entrati in contatto con i micobatteri quando erano giovani e ora sviluppano la malattia perché le difese immunitarie tendono ad indebolirsi con l’avanzare dell’età”.
Le possibilità che la tubercolosi possa diffondersi di pari passo con l’aumento dei migranti sono invece considerate molto basse. “La TB può interessare qualsiasi organo, ma è contagiosa solo se sono colpiti i polmoni – prosegue Rodari – tuttavia, anche in questo caso, il contagio può avvenire solo a seguito di un contatto stretto con una persona malata, come condividere una stanza non ventilata per almeno 8 ore. Tra l’altro già negli scorsi anni sono stati pubblicati in Europa degli studi che dimostrano che i ceppi di micobatteri che causano la malattia nella popolazione locale sono diversi da quelli dei migranti, a conferma del fatto che spesso la paura di alcune malattie non ha un fondamento logico”.
In realtà solo il 10% delle persone che contraggono l’infezione tubercolare sviluppano la malattia attiva nel corso della vita. Il restante 90% non ha nessun sintomo e non è contagioso. In entrambi i casi, infezione latente o malattia attiva, risulta comunque fondamentale una diagnosi precoce, in quanto esistono trattamenti che permettono di curare e tenere sotto controllo la TB. Per questo si dovrebbe attuare una politica di screening capillare sulla popolazione a rischio, a cominciare dai migranti richiedenti asilo, che al loro arrivo in Italia vengono sottoposti a controlli nelle strutture specializzate tra le quali anche il Sacro Cuore.
Qualora ad un paziente venga diagnosticata la malattia attiva a localizzazione polmonare, si procede al ricovero in regime di isolamento. In tal senso il reparto di Malattie Tropicali del Sacro Cuore, da poco rinnovato, dispone di 7 stanze doppie a medio isolamento e due stanze singole ad alto isolamento per un totale di 16 posti letto. L’isolamento respiratorio è garantito dalla pressione controllata nelle stanze: in sostanza la pressione all’interno è negativa (ovvero più bassa nella stanza del paziente rispetto ai locali adiacenti) impedendo così all’agente patogeno di diffondersi all’esterno della stanza stessa. Inoltre ogni stanza è dotata di un’anticamera-filtro che separa l’esterno dall’accesso al locale. Anche le porte sono controllate elettronicamente (vedi presentazione del nuovo reparto).
“La terapia nella fase acuta della malattia consiste in un cocktail di quattro farmaci somministrati per due mesi. In seguito la cura prosegue per almeno quattro mesi con due farmaci. Per contro, l’infezione latente viene individuata con un esame del sangue: in questo caso la terapia consiste in un solo farmaco e permette di prevenire il successivo sviluppo della malattia”, aggiunge la dottoressa Rodari.
Allargando lo sguardo al problema TB a livello mondiale, nel 2015 l’OMS ha varato il piano “End TB”, che viene rilanciato anche in occasione della giornata mondiale di quest’anno. Tale piano si pone l’obiettivo di diminuire del 95% i decessi e del 90% il numero di ammalati entro il 2035. Risultati che l’OMS vuole raggiungere principalmente garantendo l’accesso alla diagnosi e alla cura per milioni di persone nei Paesi poveri. Non a caso la tubercolosi è considerata una malattia strettamente legata alla povertà, perché diversamente sarebbe stata già sconfitta grazie all’efficacia delle cure disponibili.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Alla Pediatria la maglia della Tezenis: un canestro di generosità
Giorgio Boscagin, capitano della Tezenis Scaligera Basket, ha consegnato al reparto di Pediatria la maglia autografata da tutta la squadra, dono della storica famiglia dell’Amarone, Quintarelli
Questa mattina l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria ha avuto un visita speciale: quella del capitano della Tezenis Scaligera Basket, Giorgio Boscagin che ha consegnato al reparto di Pediatria la maglia con gli autografi dei giocatori, dono della famiglia Quintarelli, storica produttrice dell’Amarone.
Il capitano l’ha affidata ad Andrea in rappresentanza di tutti i piccoli ospiti presenti al quarto piano del “Sacro Cuore”, diretto dal dottor Antonio Deganello.
Boscagin, originario di Caldiero, in questi giorni è stato un assiduo visitatore dell’ospedale di Negrar: infatti lo scorso 2 marzo nel reparto di Ginecologia e Ostetricia è nato Leonardo, primogenito del cestista veronese.
La consegna della maglia è l’ultimo anello di una catena di generosità. Infatti la famiglia Quintarelli l’ha avuta in premio per aver staccato l’assegno più alto all’asta di beneficenza che si è svolta sabato scorso a Villa Mosconi Bertani in occasione della seconda edizione della “Vetrina Amarone”.
Grazie alla manifestazione, promossa dal Comune di Negrar e dalla Pro Loco Salgari, sono stati raccolti oltre 5mila euro che andranno a finanziare alcuni progetti a Cittareale, a pochi chilometri da Amatrice, colpita duramente dal terremoto.
Alla famiglia Quintarelli e all'”ambasciatore” Giorgio Boscagin un grazie di cuore da parte di tutto l’ospedale e dai piccoli ospiti del reparto di Pediatria.
Sempre più vicina la sperimentazione sull'uomo della retina artificiale
Pubblicati sulla rivista “Nature Materials” gli eccellenti risultati dell’impianto del dispositivo sui ratti ciechi. A breve la sperimentazione preclinica sull’uomo che sarà effettuata dalla dottoressa Grazia Pertile all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria
Un recupero funzionale efficace per oltre 10 mesi, senza infiammazione e senza degradazione del materiale della protesi. Sono i risultati dell’impianto della prima retina artificiale organica tutta made in Italy su ratti ciechi, pubblicati sulla rivista internazionale “Nature Materials”. Risultati che avvicinano ulteriormente la sperimentazione sull’uomo, prevista entro la seconda metà di quest’anno, al Sacro Cuore Don Calabria, nel Dipartimento di Oftalmologia, diretto dalla dottoressa Grazia Pertile (vedi foto della dottoressa Pertile e della sua equipe).
Allo studio multidisciplinare partecipano oltre all’Oculistica di Negrar, l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova – con il Centro di Neuroscienze e Tecnologie Sinaptiche (NSYN) e Centro di Nanoscienze e Tecnologie (CNST) Innovhub-SSI Milano e l’Università dell’Aquila (vedi video della partecipazione della dottoressa Pertile a Telethon su Raiuno lo scorso 16 dicembre).
La retina artificiale è stata impiantata in ratti ciechi del ceppo RCS, portatore di una mutazione spontanea in uno dei geni implicati nella Retinite pigmentosa umana, una malattia degenerativa della retina che porta alla cecità in età giovanile.
La retina artificiale è stata in grado di ripristinare il riflesso pupillare, le risposte corticali elettriche e metaboliche agli stimoli luminosi, la capacità di discriminazione spaziale (acuità visiva) e l’orientamento degli animali nell’ambiente guidato dalla luce. Questo importante recupero funzionale è rimasto efficace per oltre 10 mesi dopo l’impianto del dispositivo, senza causare infiammazione dei tessuti retinici o a degradazione dei materiali costituenti la protesi.
“Questo approccio – precisa il professor Fabio Benfenati, direttore del Centro IIT-NSYN di Genova- rappresenta un’importante alternativa ai metodi utilizzati fino ad oggi per ripristinare la capacità fotorecettiva dei neuroni. Rispetto ai due modelli di retina artificiale attualmente disponibili basati sulla tecnica del silicio, il nostro prototipo presenta indubbi vantaggi quali la spiccata tollerabilità, la lunga durata e totale autonomia di funzionamento, senza avere la necessità di una sorgente esterna di energia. Questi vantaggi ‘strutturali’ sono accompagnati da un ripristino della funzione visiva non solo per quanto riguarda la sensibilità alla luce, ma anche l’acuità visiva e l’attività metabolica della corteccia visiva.”
La retina artificiale è un polimero semiconduttore organico che si comporta in modo simile ai coni e bastoncelli, le cellule retiniche che naturalmente rispondono agli stimoli luminosi della retina. Si chiama P3HT ed è un semiconduttore utilizzato comunemente nelle celle solari, con una struttura a base di carbonio che risulta essere molto biocompatibile. Una volta impiantato sotto la retina, il polimero è in grado di catturare il segnale luminoso e trasformarlo in impulso elettrico, per poi inviarlo al cervello dove viene codificato in immagine.
Negli animali in cui è stata sperimentata, la retina con degenerazione dei fotorecettori, una volta a contatto con il polimero, recupera la sua fotosensibilità a livelli di luminosità paragonabili alla luce diurna e genera segnali elettrici che vengono inviati al nervo ottico in modo molto simile a quanto si verifica in una retina normale.
“L’utilizzo di questo materiale organico semiconduttore è stato decisivo nel superare diversi problemi – afferma il professor Guglielmo Lanzani, direttore del Centro IIT-CNST di Milano – Il fatto di essere organico lo rende soffice, leggero e flessibile, garantendo un’ottima biocompatibilità ed evitando complicazioni ai tessuti circostanti a garanzia di una lunga durata di funzionamento. Inoltre, i polimeri organici hanno la capacità di trasmettere impulsi elettronici e ionici senza grande dispersione di calore, che potrebbe causare ulteriori danni in una retina già oggetto di un processo degenerativo.”
“Speriamo di riuscire a replicare sull’uomo gli eccellenti risultati ottenuti su modelli animali – afferma la dottoressa Grazia Pertile, direttore del Dipartimento di Oftalmologia dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria – L’obiettivo è quello di ripristinare parzialmente la vista in pazienti resi ciechi dalla degenerazione dei fotorecettori che si verifica in numerose malattie genetiche della retina come ad esempio la retinite pigmentosa. Contiamo di poter effettuare la prima sperimentazione sull’uomo nella seconda metà di quest’anno e raccogliere i risultati preliminari nel corso del 2018. Questo impianto potrebbe rappresentare una svolta nel trattamento di patologie retiniche estremamente invalidanti”.
Lo studio è stato reso possibile grazie al finanziamento dell’IIT, della Fondazione Telethon, del Ministero della Salute e di Fondazioni private.
Ipertrofia prostatica: intervento più sicuro con il laser
E’ indicato in particolare per coloro che assumono farmaci anticoagulanti o antiaggreganti in quanto il laser diminuisce notevolmente il rischio di sanguinamento, come spiega il direttore dell’Urologia, Stefano Cavalleri
Grazie al laser, l’ipertrofia prostatica benigna può essere trattata in piena sicurezza anche in pazienti che assumono anticoagulanti.
Finora sono una ventina gli uomini che si sono sottoposti a enucleazione endoscopica di prostata con laser presso l’Urologia, diretta dal professor Stefano Cavalleri. Un intervento eseguito in anestesia spinale con dimissioni entro le 24-48 ore.
“L‘ipertrofia prostatica benigna è di certo la malattia urologica più diffusa e lo sarà sempre di più visto l’aumento della vita media – prosegue il professor Cavalleri -. Colpisce l’80% degli uomini che hanno superato i 50 anni e consiste nell’ingrossamento (adenoma) della parte centrale della prostata a causa di modificazioni ormonali. Il paziente manifesta difficoltà a svuotare la vescica fino al blocco della minzione con il ricorso urgente all’applicazione del catetere“.
Proprio a causa dell’età, molti pazienti che soffrono di ipertrofia benigna sono affetti da malattie cardiovascolari, patologie del sangue o sono portatori di stent coronarici, quindi costretti ad assumere farmaci anticoagulanti o antiaggreganti. Essendo la prostata un organo molto vascolarizzato, l’intervento tradizionale, in laparoscopia o in endoscopia, comporta per queste persone il rischio di forte sanguinamento.
“Il laser al Tullio consente d’intervenire senza che il paziente debba sospendere la terapia – prosegue l’urologo – e sostituirla con farmaci in grado di migliorare il sanguinamento senza però garantire una completa copertura sul fronte cardiaco”.
Il trattamento con il laser avviene sempre per via endoscopica“risalendo attraverso il pene e l’uretra fino alla prostata – descrive l’urologo.- Qui vengono visualizzati i lobi prostatici ingrossati che possono essere enucleati e quindi asportati oppure vaporizzati grazie alla elevata energia del laser. Riducendo al massimo il sanguinamento. Infatti il laser ha una grande capacità di coagulare sia il tessuto che i vasi sanguigni”.
Il decorso post operatorio del trattamento con il laser è migliore rispetto alla resezione endoscopica: il paziente, che durante l’intervento è completamente sveglio, può lasciare l’ospedale dopo una sola notte di degenza, acquista immediatamente le normali funzioni urinarie e viene lasciato libero dal catetere dopo 12 ore anziché 48 come avviene per i trattamenti tradizionali.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Lavori in corso: portineria e ritiro referti sono trasferiti a Casa Perez
La portineria Don Calabria è stata chiusa e trasferita presso Casa Perez in seguito all’inizio dei lavori propedeutici per la nuova Palazzina “Uffici e Servizi”. All’interno tutte le indicazioni
A causa dei lavori propedeutici per la realizzazione della nuova Palazzina “Uffici e Servizi”, la portineria Don Calabria (a metà di viale Rizzardi) è stata chiusa e trasferita presso Casa Perez dove sarà possibile ritirare anche i referti. Rimane aperta la portineria dell’ospedale Sacro Cuore.
Per arrivare a Casa Perez dalla portineria del Don Calabria si deve tornare indietro lungo il viale alberato fino alla rotonda e qui prendere la prima deviazione a destra. Casa Perez è subito sulla destra (vedi foto).
Sono state affisse alcune segnalazioni per indicare il nuovo percorso pedonale e carrabile (vedi mappa).
Infarto miocardico acuto: il "Sacro Cuore" tra i più virtuosi d'Italia
Il dottor Guido Canali risponde a tutte le domande sull’infarto miocardico acuto e sul suo trattamento, riguardo al quale l’Agenas indica l’ospedale di Negrar tra le strutture con i migliori risultati
Come si riconoscono i sintomi dell’infarto miocardico acuto? Cosa si deve fare quando insorgono? Che cos’è l’angioplastica? A tutte queste e ad altre domande risponde il dottor Guido Canali, responsabile della Cardiologia interventistica, nella quale lo scorso anno sono state eseguite 850 coronarografie (l’esame diagnostico che precede l’angioplastica) e 310 angioplastiche, di cui 150 in urgenza (vedi video).
La Cardiologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretta dal professor Enrico Barbieri, è operativa h24 per tutto l’arco dell’anno. Questo significa che entro mezzora dall’arrivo del paziente il personale è pronto nelle sale di Emodinamica per l’intervento.
Secondo i dati Agenas 2016 (Agenzia regionale per i servizi sanitari) per quanto riguarda il trattamento dell’infarto miocardico acuto l’ospedale di Negrar è uno dei migliori in Italia. Nel 2015 la mortalità a 30 giorni è stata del 7,96% contro la media nazionale del 9,03%. Mentre la proporzione di pazienti con infarto miocardico acuto trattati con angioplastica entro due giorni è del 75,95% contro una media nazionale del 43,32%.
“L’infarto acuto del miocardio – spiega il dottor Canali – si distingue in infarto con ST sopraslivellato (STEMI), che va sempre trattato nel minor tempo possibile dall’esordio dei sintomi in quanto ci troviamo di fronte ad un’occlusione completa della coronaria, e l’infarto NON ST sopraslivellati (NSTEMI). Quest’ultimo solitamente non presenta un’occlusione completa della coronaria ma una subocclusione che può essere più o meno importante. I pazienti di questo gruppo vanno trattati con coronarografia e angioplastica o subito o entro 48/72 ore in base all’andamento clinico. In questo gruppo possono anche esserci pazienti che, sempre per motivi clinici, non subiranno una coronaronarografia ma solo un trattamento medico”.
Il Sacro Cuore è sempre più "europeo"
‘ospedale di Negrar, unico nel Veneto, ha ottenuto l’accreditamento presso il Gruppo Informale degli Uffici di Rappresentanza Italiani a Bruxelles (GIURI). Si tratta di un importante punto d’appoggio per la partecipazione ai bandi in materia sanitaria
L’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria compie un nuovo passo verso l’Europa. E’ dello scorso mese di dicembre, infatti, l’avvenuto accreditamento della struttura scaligera presso il GIURI, il Gruppo Informale degli Uffici di Rappresentanza Italiani a Bruxelles.
L’organismo riunisce gli uffici italiani operanti nella ‘Capitale dell’Unione Europea’ e attivi nel campo della Ricerca e Innovazione. Ne fanno parte centri di ricerca, pubbliche amministrazioni centrali e regionali, associazioni di categoria, intermediari finanziari, istituti bancari e molte altre realtà. L’obiettivo di questo gruppo è facilitare e migliorare lo scambio di informazioni e la cooperazione tra i propri membri con particolare attenzione al Programma Quadro sulla Ricerca ed Innovazione dell’UE, denominato Horizon 2020.
Grazie a questo accredito, l’ospedale di Negrar sarà aggiornato con la massima tempestività sui bandi di imminente uscita in tema di sanità, oltreché sulle nuove politiche di salute della Commissione Europea. Inoltre il GIURI può fornire un supporto operativo nella progettazione per partecipare ai bandi europei, in quanto è coordinato dall’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea (APRE), che è il Punto di Contatto Nazionale per l’8° Programma Quadro Europeo sulla Ricerca ed Innovazione, appunto HORIZON 2020 (ed è quindi l’ente di riferimento per ricevere supporto nella stesura dei progetti e nella partecipazione ai bandi).
Il Sacro Cuore, ad oggi, è l’unico Ospedale veneto iscritto al Gruppo, il quale comprende altresì importanti strutture sanitarie e diversi IRCSS italiani.
Enrico Andreoli
"Il lavoro prezioso degli operatori e del personale di servizio"
In occasione della 25ma Giornata Mondiale del Malato danno la loro testimonianza le Piccole Suore della Sacra Famiglia che da 95 anni prestano la loro opera alla Cittadella della Carità di Negrar
Aiutare il malato, oggi, significa prendersi cura di lui come persona nella sua globalità. Per questo, oltre alla parte sanitaria di cui si occupano medici e infermieri, è fondamentale il lavoro degli operatori socio-sanitari e di tutto il personale che, con il proprio servizio, aiuta l’ospedale ad accompagnare chi soffre. Ne è convinta suor Lucia Serena, superiora della comunità delle Piccole Suore della Sacra Famiglia che aiutano ad assistere gli ammalati al Sacro Cuore. “Vedo ogni giorno degli esempi molto belli, direi quasi eroici, – dice – di operatori che con amore si dedicano a malati anche molto gravi, nel silenzio e con il sorriso”.
La testimonianza di suor Lucia e delle sue consorelle arriva in occasione della 25ma Giornata Mondiale del Malato, che si celebra sabato 11 febbraio (vedi discorso di Papa Francesco). Una festa che papa Francesco ha voluto rendere ancora più significativa promuovendo la presentazione della nuova Carta degli Operatori Sanitari realizzata dal Pontificio Consiglio che si occupa della pastorale sanitaria. La Giornata del Malato viene celebrata anche alla Cittadella della Carità con una S. Messa sabato alle ore 16.30 presso la cappella dell’ospedale Don Calabria, organizzata dal Consiglio di pastorale ospedaliera in collaborazione con l’Unitalsi e con la parrocchia di Negrar (vedi programma).
Le Piccole Suore della Sacra Famiglia, congregazione fondata dal beato Giuseppe Nascimbeni e dalla beata Maria Mantovani, prestano servizio al Sacro Cuore fin dalla sua fondazione 95 anni fa (vedi foto). Erano loro ad occuparsi di tutti i servizi in quello che era originariamente un ricovero per anziani poveri, fondato dal parroco di Negrar don Angelo Sempreboni nel 1922. Infermiere e cuoche, addette al guardaroba e assistenti notturne: la loro presenza era ovunque. Le suore rimasero al loro posto anche dopo l’arrivo di don Calabria nel 1933 e continuarono ad occuparsi dei vari servizi, compresi quelli infermieristici, dopo che il ricovero del Sacro Cuore diventò un ospedale vero e proprio.
Oggi le suore in servizio alla Cittadella della Carità sono sei. Oltre a suor Lucia, ci sono suor Carla e suor Bernardetta che prestano servizio a Negrar da oltre 40 anni. E poi suor Pia, suor Rosa e un’altra suor Lucia (vedi foto). La loro comunità risiede al terzo piano di Casa Clero. Da qualche tempo non si occupano più dei servizi infermieristici, ma lavorano nella pastorale ospedaliera, dedicandosi in particolare alla visita degli ammalati nei reparti e collaborando nell’animazione e nella preparazione delle celebrazioni. Tuttora ci sono invece tre suore carmelitane che lavorano come infermiere nei reparti.
“Il servizio nella pastorale è impegnativo – racconta suor Lucia – Credo che la cosa fondamentale sia entrare in punta di piedi, cercando di instaurare un rapporto umano di vicinanza con chi soffre. Gran parte del nostro lavoro consiste nella capacità di ascoltare gli ammalati e i loro cari, con rispetto e cercando di dare loro un messaggio di speranza”.
L’opera pastorale viene svolta in tutte le strutture della Cittadella: Casa Clero, Casa Nogarè, Casa Perez, ospedale Don Calabria e Sacro Cuore. Un lavoro che dà l’opportunità di prendersi cura degli ammalati in modo integrale. “L’ospedale è cambiato molto, oggi la parte tecnologica ha fatto passi da gigante ed è importantissima – conclude suor Lucia – ora la sfida per tutto il personale, noi comprese, è quella di integrare la parte tecnica con quella umana e pastorale. E su questo torno a sottolineare l’importanza degli operatori e del personale di servizio che può davvero collaborare con infermieri e medici nel valorizzare il paziente come persona, facendolo sentire accolto e accompagnato nella sua malattia. Questo mi sembra un messaggio di grande attualità per questa Giornata Mondiale del Malato”.
matteo.cavejari@sacrocuore.it
Tumore al seno: una nuova tecnica riduce il dolore post operatorio
L’analgesia della parete toracica diminuisce notevolmente la somministrazione di farmaci antidolorifici dopo l’intervento incidendo sul benessere psico-fisico della donna e quindi sulla ripresa delle normali attività quotidiane
La Chirurgia senologica dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar si conferma un’eccellenza nell’ambito del trattamento chirurgico del cancro alla mammella anche per una particolare attenzione all’aspetto psico-fisico della paziente.
Infatti oltre a utilizzare tecniche innovative in campo strettamente chirurgico, come la chirurgia radioguidata, la radioterapia intraoperatoria e le tecniche oncoplastiche, dedica particolare attenzione alla gestione della paziente nel periodo pre e post operatorio per assicurare alla stessa il maggior confort possibile e quindi garantire la ripresa delle normali attività quotidiane nel minor tempo.
Da circa un anno, infatti, la Chirurgia senologica, diretta dal dottor Alberto Massocco, in collaborazione con il Dipartimento di Anestesia e Terapia Antalgica, diretto dal dottor Luigi Giacopuzzi, offrono alle pazienti la possibilità di sottoporsi a una nuova tecnica analgesica, che favorisce il controllo del dolore nelle ore successive all’intervento quando viene meno l’effetto dell’anestesia generale.
Si tratta del blocco del muscolo serrato anteriore, una procedura che viene praticata solo in pochi centri in Italia.
“Il serrato anteriore è quel muscolo che si trova ai lati del torace, inferiormente al cavo ascellare – spiegano gli anestesisti Alessio Ferri e Giovanni Lodi -. Tramite guida ecografica individuiamo il muscolo serrato e andiamo a somministrare l’anestetico al di sotto o al di sopra dello stesso dove decorrono le fibre sensitive che innervano la parte superiore del torace bloccando la conduzione del dolore”.
La tecnica è poco invasiva e quasi totalmente indolore per la paziente. Nel 2016 sono state eseguite 150 procedure.
“E’ un trattamento di analgesia che ha un notevole impatto sulla diminuzione del dolore post operatorio tanto che viene ridotta la somministrazione dei farmaci antidolorifici – sottolinea il dottor Massocco – Questo incide positivamente sulla ripresa post intervento e anche sul benessere psico-fisico riducendo lo stress della donna, già fortemente provata dalla diagnosi della malattia”
Il blocco del serrato è indicato per le pazienti di ogni età. Ma in particolarmente per le donne in età avanzata “l’analgesia della parete toracica permette in alcuni casi di eseguire l’intervento in sedazione profonda riducendo i rischi dell’anestesia generale che negli anziani possono manifestarsi con episodi di disorientamento o demenza postoperatoria, ma anche insufficienza renale legata all’uso di antidolorifici. Lo stesso vale per tutte le pazienti per le quali è controindicata l’anestesia generale “, concludono gli anestesisti.
Al “Sacro Cuore Don Calabria” vengono eseguiti all’anno 300 interventi per cancro alla mammella, numeri che confermano l’ospedale di Negrar tra le eccellenze della senologia veneta nonostante non sia sede di screening senologico. Il 70% degli interventi è di tipo conservativo e quando è necessaria la mastectomia, quello di Negrar è uno dei pochi centri in Italia ad eseguire la demolizione e la ricostruzione nello stesso intervento e a cercare di preservare il complesso areola capezzolo qualora sia possibile.
elena.zuppini@sacrocuore.it
Nella foto di copertina da sinistra: il dottor Luigi Giacopuzzi, le chirurghe senologhe Rossella Bettini e Chiara Boccardo, gli anestesisti Giovanni Lodi e Alessio Ferri, e il dottor Alberto Massocco
Tumore al polmone: la Pet prevede la risposta alla radioterapia
Importante studio della Radioterapia Oncologica e della Medicina Nucleare di Negrar sul ruolo della PET come guida per predire la risposta alla radioterapia polmonare e personalizzare il trattamento
La Tomografia ad Emissione di Positroni (PET) ha un ruolo ormai stabilito per definire lo stadio di malattia in gran parte dei pazienti oncologici.
Recentemente, la PET e’ sempre più impiegata per stimare la risposta al trattamento delle lesioni tumorali polmonari. A differenza della sola Tomografia Computerizzata (TC) che viene usata di norma e fornisce prevalentemente una descrizione della estensione di malattia, la PET può dare cruciali informazioni predittive su come il tumore risponderà alla radioterapia, informazioni che consentono un approccio sempre più personalizzato al paziente.
E’ quanto emerso dallo studio realizzato dalla Radioterapia Oncologia e dalla Medicina Nucleare dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar e pubblicato recentemente dal Journal Thoracic Oncology, la rivista ufficiale dell’associazione internazionale che studia il cancro al polmone (The International Association for the Study of Lung Cancer-IASLC).
Si tratta del primo studio (in allegato il testo) di questo genere, che prende spunto dal dibattito all’interno della comunità scientifica mondiale sull’utilità e sull’opportunità, anche economica, di sottoporre all’esame PET con radiofarmaco Fluorodesossiglucosio il paziente con un numero limitato di metastasi polmonari (da una a cinque) prima del trattamento radioterapico di precisione.
La PET in genere viene utilizzata solo per i casi dubbi, mentre la maggior parte dei pazienti viene sottoposta alla sola TC.
“Per lo studio abbiamo arruolato cinquanta pazienti e trattato settanta lesioni polmonari. L’obiettivo era quello di dimostrare che la PET ha un ruolo fondamentale per comprendere come si comporteranno le sedi tumorali polmonari sottoposte ad alte dosi mirate di radiazioni” spiega il dottor Filippo Alongi, direttore della Radioterapia Oncologica di Negrar, già sede di insegnamento della scuola di specializzazione in Radioterapia dell’Università di Brescia.
“Abbiamo constatato che la guarigione a sei mesi dopo la radioterapia è associata in modo significativo al valore della PET effettuata prima del trattamento – sottolinea -. La PET, infatti, non fornisce informazioni sulla dimensione delle lesioni, come la TC, ma ne descrive il profilo metabolico e può anche anticipare il comportamento biologico delle cellule tumorali e la capacità di rispondere alla radioterapia. Se le cellule captano fino ad una certa quantità di radiofarmaco, significa che risponderanno meglio al trattamento. Al contrario, richiederanno un approccio personalizzato rispetto al trattamento di base“.
elena.zuppini@sacrocuore.it