Endocardite: un team di specialisti per curare l'infezione

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L’infezione che colpisce il cuore è una patologia grave e dalle complicanze anche mortali. Al “Sacro Cuore” un convegno sulla presa in carico multispecialistica del paziente

Sarà analizzato anche un particolare caso clinico al convegno “Endocardite: una sfida per il medico di famiglia e per lo specialista”, che si terrà sabato 20 gennaio all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, promosso dalla Cardiologia, diretta dal professor Enrico Barbieri, e dal Centro per le Malattie Tropicali, diretto dal professor Zeno Bisoffi (programma in allegato)

Il “cold case” è quello del musicista austriaco Gustav Mahler, morto a Vienna nel 1911 a causa proprio della patologia infettiva che colpisce il cuore. Dalla morte del compositore e direttore d’orchestra è trascorso oltre un secolo, ma l’endocardite rimane una malattia insidiosa, grave e con un elevato numero di complicanze anche mortali.

“L’endocardite rappresenta tuttora un importante problema clinico e chirurgico, la cui gestione non è ancora risolta né standardizzata – spiega il professor Barbieri -. La strategia migliore di assistenza del paziente è quella multidisciplinare. Per questo abbiamo voluto la presenza all’incontro di relatori provenienti da diverse aree mediche: infettivologi, cardiologi, cardiochirurghi, microbiologi, medici nucleari e internisti provenienti dal nostro ospedale, ma anche dall’Università di Verona e di Brescia”.

Cos’è l’endocardite

L’endocardite è un’infezione a livello delle valvole del cuore (endocardite valvolare) o che, più raramente, colpisce l’endocardio (endocardite murale) cioè la sottile membrana che riveste tutte le cavità del muscolo cardiaco. Ha un’incidenza annuale di 3-8 casi ogni 100mila abitanti.

Popolazione a rischio

Le persone più a rischio di sviluppare la malattia sono i portatori di un’anomalia congenita della valvola aortica (valvola bicuspide ad esempio) o di prolasso valvolare mitralico. “Queste tipologie di alterazioni valvolari – afferma la dottoressa Laura Lanzoni della Cardiologia di Negrar – creano un flusso sanguigno turbolento che va a ‘stressare’ l’endocardio valvolare rendendolo più suscettibile ad aggressioni batteriche. Ma può ammalarsi anche chi ha subito interventi di sostituzione di valvole cardiache o per cardiopatie congenite, i soggetti immunodepressi e tossicodipendenti”. Non da ultimi i portatori di device.

“L’impianto di pacemaker sempre più sofisticati che comportano l’inserimento dentro al cuore di più elettrodi e l’uso crescente di impianto percutaneo di protesi valvolari – interviene il professor Barbieri – possono comportare un maggior rischio di infezione, in quanto sono possibile soggetto di aggressione dei batteri” .

Sintomi

La gravità della malattia è determinato anche dal ritardo con cui viene effettuata spesso la diagnosi“La febbre e l’astenia, che sono i sintomi con aspecifici cui si manifesta sovente all’inizio la patologia – spiega l’infettivologo Andrea Angheben del Centro di Malattie tropicali di Negrar – non vengono ricondotti subito all’infezione, ma in genere solo dopo tentativi non risolutivi di terapia antibiotica e quindi il ricorso a una serie di esami specialistici. Dall’insediamento della vegetazione batterica alla diagnosi possono passare anche alcune settimane, tempo sufficiente per determinare un danno valvolare che spesso richiede, dopo la cura antibiotica, l’intervento del cardiochirurgo”.

Diagnosi

Il primo step diagnostico è l’ecocardiogramma trans-toracico, seguito, nella gran parte dei casi, da quello trans-esofageo, che viene eseguito, a differenza del primo, solo in ospedale. “Tramite l’esame ecocardiografico – spiega ancora la dottoressa Lanzoni – l’endocardite si manifesta con una massa oscillate (la vegetazione batterica) a livello delle valvole cardiache o con un ascesso, cioè una cavità con materiale purulento, a livello della valvola aortica”.

Al ruolo prioritario dell’ecocardiografia si è affiancata di recente la diagnostica nucleare (PET/CT) che offre immagini a volte dirimenti nella individuazione di ascessi, pseudoaneurismi e fistole, soprattutto in pazienti portatori di protesi valvolari, oltre che nell’identificazione di embolizzazioni ed ascessi extracardiaci.

Terapia

“La terapia antibiotica può durare dalle quattro alle oltre otto settimane – afferma il dottor Angheben -. Richiede spesso l’associazione di più farmaci somministrati in endovena il che comporta un rischio importanti effetti collaterali da monitorare. Per questo il paziente deve rimanere in ospedale spesso per tutta (o gran parte) della durata della terapia. Purtroppo non sempre gli antibiotici riescono a debellare l’infezione. A volte è necessario un intervento chirurgico per rimuovere il materiale infetto”

elena.zuppini@sacrocuore.i


Il Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica di Verona e Rovigo presenta la sua attività

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Giovedì 7 dicembre il Comitato Etico delle due province venete e il Nucleo di Ricerca Clinica si confrontano in un convegno con tutti gli attori della sperimentazione clinica

L’attività del Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica (CESC) delle province di Verona e Rovigo sarà presentata giovedì 7 dicembre in un convegno all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria(vedi programma allegato). L’incontro rientra tra le iniziative di formazione in materia di sperimentazione clinica promosse dai Comitati Etici e destinate agli operatori sanitari e si propone di presentare le procedure e le modalità di lavoro del CESC e del Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar. L’obiettivo dell’incontro è quello formulare proposte condivise di miglioramento – a partire da un confronto aperto tra sperimentatori, promotori e Regione Veneto – sulle criticità nell’iter autorizzativo di una sperimentazione.

I componenti dei CESC sono tecnici/specialisti (medici, farmacisti, bioeticisti, statistici, solo per citarne alcuni), ma anche rappresentanti dei malati. E sono proprio i pazienti ad essere al centro dell’interesse dei Comitati Etici per la Sperimentazione Clinica, come viene sottolineato dal decreto ministeriale di istituzione dei CESC, secondo il quale i Comitati Etici sono “organismi indipendenti che hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere delle persone in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tutela”. Tutelano quindi i malati che entrano in uno studio clinico sperimentale, ma anche tutti noi come possibili fruitori in futuro di quel farmaco o di quel dispositivo medico, quando approvati.

Ogni nuovo farmaco per essere immesso in commercio deve superare quattro fasi di valutazione clinica, ognuna delle quali necessita di specifici protocolli di sperimentazione che devono essere presentati e approvati dai Comitati Etici. Si inizia dalla prima fase su volontari sani o su categorie mirate di pazienti che richiedono una certa terapia (oncologici o patologie rare), per passare alla seconda e alla terza fase che riguardano l’efficacia e la sicurezza dell’impiego del farmaco. La fase conclusiva, la quarta, viene definita “post-marketing” e consiste nel monitoraggio del farmaco sulla popolazione generale per evidenziare eventuali effetti non riscontrabili in popolazioni mirate.

Il parere del CESC è vincolante e si basa sulla garanzia che i pazienti vengano informati sui rischi e sui benefici a cui potrebbero andare incontro con la partecipazione agli studi clinici sperimentali. Ma esso mira anche a far comprendere che la corretta rilevazione dei dati e la precisa interpretazione dei risultati da parte degli sperimentatori possono portare a vantaggi che vanno oltre il singolo individuo, ma coinvolgono l’intera società.

La valutazione dei CESC può riguardare protocolli non solo su farmaci ma anche su dispositivi medici o nuove procedure terapeutiche.

I protocolli sperimentali o osservazionali, una volta approvati dal CESC, richiedono un monitoraggio che viene svolto prevalentemente dagli sponsor degli studi e dai Nuclei per la Ricerca Clinica (NRC), presenti a Verona presso l’ULSS9, l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona e l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

Compito del NRC è verificare la correttezza del protocollo di sperimentazione, coordinarsi con gli sperimentatori sulla stesura del protocollo e completezza della documentazione, presentare gli studi al CESC, monitorare la sperimentazione nel tempo e formalizzare i contratti con gli sponsor degli studi clinici.

La segreteria del CESC, invece, verifica tutta la documentazione, struttura l’istruttoria per i componenti del comitato, tiene i contatti con gli enti regolatori (AIFA, ISS, Ministero della Salute),con gli sponsor e con i NRC, redige i verbali che danno avvio alla sperimentazione.

Nel corso del 2016 il “Sacro Cuore Don Calabria” si è collocato al secondo posto tra i centri afferenti al CESC delle province di Verona e di Rovigo dopo l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. A novembre del 2017 sono 81 gli studi su cui ha lavorato il Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar per la presentazione al CESC.


Sessualità e oncologia: è ora di parlarne

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Il cancro e le terapie per combatterlo spesso si insinuano nella sfera più intima del paziente oncologico, minandone il benessere psicologico. Un convegno al “Sacro Cuore” mette in rilievo quanto il problema meriti l’attenzione di medici e psicologi

A Carla è stato diagnosticato un tumore al seno. Non ha ancora affrontato l’intervento e le successive cure, ma già pensa che ci saranno gravi conseguenze sul suo essere donna e sulla sua vita di coppia, nonostante il marito manifesti nei suoi confronti un atteggiamento rassicurante e protettivo.

Il nome della paziente è di fantasia, ma non la storia. Si tratta di una tra le tante che il dottor Giuseppe Deledda, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica, raccoglie durante i suoi colloqui al primo piano dell’ospedale Don Calabria. Storie di vita che dimostrano quanto quella sessuale sia una sfera in cui il cancro si insinua, anche se non colpisce direttamente organi interessati a questa funzione.

“Il tema della sessualità relativa al paziente oncologico è da sempre poco affrontato nonostante sia molto importante – spiega il dottor Deledda – . La persona malata di cancro durante i suoi percorsi oncologici vive forti ripercussioni in ambito sessuale e inevitabilmente li vive la coppia. Come qualsiasi perdita, anche quella della salute mette in discussione la nostra identità. Provoca cambiamenti nell’immagine corporea, quindi mina la fiducia di piacere all’altro. Tutto questo si ripercuote sulla sessualità e viceversa, perché non essere più in grado o avere difficoltà nei rapporti intimi ha conseguenze sull’identità e su come viene visto il proprio corpo. La sessualità è una sfera non secondaria della nostra vita – sottolinea -. Se subentrano problemi in questo ambito, ne risente tutto il benessere psicologico che per un paziente oncologico è ancora più importante al fine di affrontare la malattia”.

Di sessualità ed oncologia si parlerà lunedì 4 dicembre al “Sacro Cuore Don Calabria” in occasione del convegno organizzato dal Servizio di Psicologia Clinica di Negrar con la Società italiana di Psico-oncologia (Sezione Veneto Trentino Alto Adige), di cui il dottor Deledda è coordinatore, e con la collaborazione e il contributo dell’Ordine degli Psicologi del Veneto e di Trento. (vedi programma)

“La mattinata si aprirà con un’esposizione generale delle varie teorie sull’immagine corporea e della sessualità – illustra il dottor Deledda -. Teorie che poi verranno calate nell’ambito della psiconcologia. La seconda sessione, invece, avrà come protagonisti i medici, oncologi e chirurghi che ci spiegheranno l’impatto dei trattamenti per la cura del tumore sulla sessualità anche alla luce dei farmaci oncologici innovativi e delle tecniche chirurgiche conservative. Si parlerà di neoplasie che colpiscono specificatamente l’uomo e la donna, ma anche di altre forme di cancro – sottolinea -. Infatti spesso le cure farmacologiche provocano cambiamenti fisici, come, per esempio, il gonfiore provocato dal cortisone, o cutanei. Credo che sia molto importante che anche gli psicologi siano informati sull’aspetto medico, per meglio comprendere le ripercussioni psicologiche delle terapie sul paziente”.

Così come, prosegue lo psicologo, “è bene che il medico conosca i disagi psicologici che derivano dagli effetti relativi alla cura della malattia per non fare l’errore di considerarli secondari e per trovare, in collaborazione con lo psiconcologo, le strategie che meglio si adattano a ogni paziente per superarli”.

La giornata avrà come relatore d’eccezione Mary Hughes dell’Anderson Cancer Center di Houston (Texas), infermiera specializzata nell’ambito della sessualità, che terrà una lezione magistrale sulla sessualità e l’intimità dopo il cancro, illustrando le modalità da mettere in atto per il benessere del paziente e quindi della coppia.

Il convegno si concluderà con il conferimento dell’onorificenza SIPO alla dottoressa Eleonora Capovilla, responsabile dell’UOS di Psicologia dell’Istituto Oncologico del Veneto, fondatrice nel Veneto della Società Italiana di Psicologia Oncologica.

elena.zuppini@sacrocuore.it

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Le infezioni chirurgiche non sono un problema solo... chirurgico

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Il 2% degli interventi hanno come complicanze infezioni, che però nel 50% dei casi sono evitabili con la massima attenzione non solo in sala operatoria. Se ne parla in un convegno sabato 11 novembre al “Sacro Cuore”

Si stima che il 2% degli interventi chirurgici abbiano come complicanze le infezioni. Ma quello delle infezioni è un problema generalizzato e purtroppo molto comune, sia in ambito ospedaliero sia in quello territoriale, che si può presentare a seguito di interventi chirurgici o di prestazioni invasive o comunque in presenza di una ferita.

Tuttavia le infezioni sono un rischio che si può e si deve evitare, se è vero, come dimostrano le casistiche, che è possibile prevenire il 50% degli eventi infettivi post chirurgici.

Di “Infezioni del sito chirurgico: strategie di prevenzione e controllo” si parlerà sabato 11 novembre (a partire dalle 8.45) all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria in un convegno organizzato dal dottor Fabrizio Nicolis, direttore sanitario e del Comitato Infezioni Ospedaliere (CIO) di Negrar, e dalla dottoressa Teresa Zuppini, direttrice della Farmacia ospedaliera e membro del Comitato.

Durante il convegno interverranno, oltre agli specialisti della struttura della Valpolicella, anche il dottor Matteo Moro, direttore sanitario dell’Ospedale San Raffaele di Milano ed illustre infettivologo (vedi programma allegato).

“Affronteremo il problema infezioni nell’ottica più ampia possibile – spiega la dottoressa Zuppini – perché come in un ‘menu’ l’inizio dà l’avvio ad un ‘pranzo’ che deve avere un’evoluzione di benessere, così anche nell’approccio all’intervento chirurgico ci deve essere un’evoluzione attenta che riporti il paziente ad uno stato ottimale se non di guarigione”.

Infatti, prosegue la dottoressa, “le infezioni chirurgiche non sono un problema solo chirurgico. E’ fondamentale che durante l’intervento si mettano in atto tutti i comportamenti e si utilizzino i sussidi utili per evitare una possibile infezione. Ma è altrettanto fondamentale il trattamento più adeguato durante la degenza e nel successivo ritorno a casa dove è importantissimo il controllo nel tempo da parte del medico di medicina generale della presenza di segnali eventualmente indicanti una possibile infezione al fine di garantire un rapido intervento. Pur sapendo che non tutte le infezioni sono evitabili visto che giocano un ruolo fondamentale le condizioni del paziente stesso – conclude la dottoressa Zuppini – l’impegno degli operatori sanitari deve essere quello di conoscere le cause delle infezioni, operare al meglio e prestare la massima attenzione perché dall’intervento chirurgico fino alla completa guarigione non si manifestino complicazioni”.


Appropriatezza: una "terapia" che fa bene alla salute e alla Sanità

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Si parlerà di appropriatezza clinica e farmacologica venerdì 13 ottobre al “Sacro Cuore”: il rispetto delle indicazioni di prescrizione del farmaco ha come unico obiettivo la salute del paziente

Appropriatezza e razionalizzazione delle risorse, insieme a lotta agli sprechi, sono termini entrati ormai nel lessico della politica e dell’informazione quando il tema è la sanità, sempre più costosa e sempre con meno finanziamenti a disposizione. Spesso sono parole che vengono interpretate come “tagli”, soprattutto quando il cittadino di fronte alla richiesta di un esame o di un farmaco, si sente rispondere: “Non è indicato”, ovvero non è appropriato.

Di appropriatezza clinica e farmacologica si parlerà venerdì 13 ottobre all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, in un convegno organizzato dal Servizio di Farmacia, diretto dalla dottoressa Teresa Zuppini, e rivolto a medici, farmacisti e infermieri (in allegato il programma).

Ma cosa significa appropriatezza? “Quando si parla di scelte appropriate nella terapia medica – risponde la farmacista Lorenza Cipriano, responsabile scientifico dell’incontro – abbiamo da un lato il paziente con le sue esigenze di salute e dall’altro il rispetto delle regole del Sistema Sanitario Nazionale che prevedono la prescrivibilità dei farmaci secondo precise indicazioni. In mezzo a questi due estremi ci sono i medici e i farmacisti, con un ruolo ben definito: quello di collaborare, ciascuno con la propria professionalità e competenza, per garantire l’efficacia e la sicurezza delle terapie prescritte al paziente”. Una “combinazione virtuosa” che determina la sostenibilità del sistema-Sanità.

Se il farmaco è prescritto al di fuori delle indicazioni e dei dosaggi per i quali ne è stata valutata l’efficacia può indurre tossicità ed effetti avversi che vanno a gravare sulla salute del paziente stesso esponendolo a rischi ingiustificati – prosegue la dottoressa Cipriano -. Questo avviene soprattutto nel caso di assunzione di più farmaci che creano interazione tra di loro e con farmaci di facile accessibilità”.

Tra questi gli inibitori di pompa protonica (pantoprazolo, omeprazolo, lansoprazolo…) di cui si parlerà durante il convegno. Sono farmaci rimborsati dal Servizio Sanitario Nazionale per la cura/prevenzione di importanti patologie quali la gastropatia da FANS (Farmaci anti-infiammatori non Steroidei) e il trattamento delle patologie acido-correlate. La solida evidenza a supporto dell’efficacia degli inibitori di pompa protonica e il loro elevato profilo di sicurezza, almeno nel breve termine, hanno contribuito nel tempo ad un’eccessiva prescrizione di questi farmaci. Il loro impiego anche per diagnosi non documentate o non coerenti con le note dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) determinano annualmente rilevanti ricadute sul SSN.

“Per coniugare efficacia, sicurezza e sostenibilità del sistema – conclude la farmacista – rimane quindi fondamentale il rispetto delle linee guida prescrittive indicate da AIFA e dalla Regione Veneto. Ma anche la de-prescrizione e la Slow Medicine, cioè la condivisione del percorso di cura da parte di tutti gli attori in gioco: professionisti sanitari e lo stesso paziente, che deve aderire alla terapia affinché sia più efficace possibile”.


Quando la dipendenza da fumo e da alcol si declina al femminile

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Tre incontri all’ospedale di Negrar mettono sotto la lente di ingrandimento i danni fisici e psichici, ma anche le conseguenze sociali, del consumo di alcol e di fumo nella popolazione femminile

Sono 829 le persone che dal 2009 al 2016 si sono rivolte al Servizio di Alcologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Paolo Bocus, per problemi alcol-correlati. La grande maggioranza sono uomini (619 uomini contro 210 donne). Ma, affermano le dottoresse Egle Ceschi, educatrice del Servizio di Alcologia, e Francesca Martinelli, assistente sociale dell’ospedale(nella Photo Gallery), i dati non sono esaustivi, perché “quello dell’uso di alcol nella popolazione femminile è un problema sommerso, poco conosciuto e poco considerato soprattutto nella fasce più giovani”.

Perfino la letteratura scientifica tende a sottovalutarlo, non riportando dati sui danni specifici provocati sulla salute delle donne. La conferma di questa lacuna Ceschi e Martinelli l’hanno avuta proprio preparando l’iniziativa “Trilogia d’incontri: alcol e fumo… vissuti al femminile” (in allegato la brochure con il programma).


Si tratta di tre appuntamenti nel pomeriggio (con inizio alle 14) del 22 settembre, 6 ottobre e 20 ottobre all’ospedale di Negrar. Il primo degli incontri riguarderà l’età della crescita, il secondo quella adulta e il terzo la maturità. Interverranno medici specialisti, educatori anche di strada, ostetriche, psicoterapeuti e assistenti sociali.

“I tre appuntamenti sono un momento formativo per gli addetti ai lavori – spiega la dottoressa Martinelli – ma abbiamo voluto aprirli anche alle scuole, agli insegnanti e ai genitori proprio per l’interesse collettivo del problema”. Ogni incontro si concluderà con una testimonianza di persone che hanno vissuto gli esiti dell’uso di sostanze.

“Abbiamo voluto approfondire l’addiction al femminile – spiegano le organizzatrici – con l’obiettivo di coinvolgere la popolazione su un problema che ha un impatto pesante sulla collettività, in quanto la donna è promotrice di vita e perno della famiglia. Rispetto al passato – proseguono – il nostro Servizio registra un aumento degli accessi femminili, non tanto nel numero, quanto di donne che decidono di chiedere aiuto quando non sono ancora emerse importanti patologie alcol-correlate. Oggi arrivano ragazze anche ventenni, perché sono state riscontrate positive all’alcol-test o perché hanno avuto comportamenti a rischio in famiglia, nel gruppo o semplicemente perché riconoscono di avere un problema legato all’alcol”.

Ma perché un confronto in tre momenti? “L’uso di alcol e il consumo di sigarette – risponde la dottoressa Martinelli – viene vissuto in maniera differente a seconda dell’età. Nell’adolescenza non è visto come un problema, ma come il raggiungimento dell’emancipazione. Eppure le ragazze, come i ragazzi d’altronde, assumono comportamenti sociali ad altissimo rischio (pensiamo al famigerato “rito dell’aperitivo” ripetuto ogni sera) sottovalutati anche dagli adulti. Senza contare che nell’età dello sviluppo sia nei ragazzi sia nelle ragazze, i danni organici possono essere irreparabili”.

La questione alcol, fumo e gravidanza sarà affrontata invece il 6 ottobre quando si parlerà dell’età adulta. “Il principio del consumo moderato di alcol non vale per la gravidanza e l’allattamento, periodi in cui il bere deve essere escluso – sottolinea la dottoressa Ceschi -. Due ginecologhe tratteranno il tema del perché l’alcol e il fumo non favoriscono la generazione della vita e di come si riconosce la sindrome feto-alcolica. Ci sono studi che dimostrano i danni fisici provocati dall’alcol sul nascituro, ma anche che una mamma bevitrice e fumatrice può predisporre il nascituro alla dipendenza da sostanze”. Verranno inoltre analizzate le ricadute fisiologiche dell’abuso alcolico e le difficoltà di reperire un posto di lavoro.

Infine l’età matura. “E’ l’età della dipendenza vissuta come vergogna, all’interno della casa, magari per porre rimedio alla solitudine. E l’età in cui le patologie alcol e fumo correlate emergono spesso gravemente, come emerge la triste consapevolezza di non aver posto rimedio alla dipendenza negli anni precedenti – afferma Ceschi -. In base alla mia esperienza c’è una cosa che differenzia il bere maschile da quello femminile, in tutte le età. Mentre il primo è legato al gruppo e alla cultura, al bere femminile si aggiunge una sofferenza profonda che si cerca di soffocare dentro a un bicchiere. Spesso si dice: bevo perché ho dei problemi. E’ il contrario: i problemi arrivano con il bere e si risolvono solo smettendo“.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Psicologi a confronto sull'accoglienza del dolore

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Accogliere il dolore altrui destabilizza anche coloro che svolgono una professione di aiuto. Una risorsa arriva dalla “fusione” di due modelli della psicologia cognitivo-comportamentale come spiegherà l’esperto Martin Brock al “Sacro Cuore”

La perdita e il lutto sono esperienze destabilizzanti non solo per coloro che le vivono, ma anche per chi svolge una professione di aiuto, come gli psicologi e gli psicoterapeuti.

Immergersi in un’esperienza di dolore risveglia paure comuni a tutti gli esseri umani, che possono essere sottoposti alla tentazione di allontanarle, ergendo barriere emotive, quando invece è fondamentale per accogliere la sofferenza altrui accettare i propri “demoni”.

Di perdita e lutto dalla prospettiva degli psicologi e psicoterapeuti si parlerà venerdì 12 maggio in un workshop esperenziale promosso all’ospedale di Negrar dal Servizio di Psicologia clinicadel “Sacro Cuore Don Calabria”, diretto dal dottor Giuseppe Deledda (in allegato il programma).

Per la prima volta in Italia vengono proposti come complementari due modelli terapeutici della Psicologia cognitivo-comportamentale: l’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e e l’CFT (Compassion Focused Therapy) grazie alla presenza come relatore del dottor Martin Brock, dell’Università di Derby (Inghilterra).

Con più di 40 anni di esperienza clinica, Broke è docente del Post-Laurea Compassion Focused Therapy e del Master in psicoterapia cognitivo comportamentale. La giornata formativa alternerà momenti teorici ad esercizi esperienziali. Interverrà oltre al dottor Deledda, presidente del Gruppo di interesse speciale “ACT for Health”per ACT Italia e Association for Contextual Behavioral Science (ACBS), anche la dottoressa Lisa Rabitti, che si occupa di cure palliative presso l’Auls Reggio Emilia e di ricerca presso l’Unità di Psico-oncologia dell’IRCCS Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia.

“L’approccio cognitivo-comportamentale ACT – spiega il dottor Deledda, coordinatore veneto della Società italiana di Psico-Oncologia – è basato sull’incremento della flessibilità psicologica, partendo da un atteggiamento di accettazione e sulla messa in atto di comportamenti coerenti con i propri (e del paziente) obiettivi e valori. Tale metodo – sottolinea lo psicologo – si è mostrato efficace per la gestione della relazione con il paziente e per fornire risposte coerenti con la domanda del paziente e in sintonia con gli obiettivi di cura. Inoltre l’approccio ACT è applicato con buoni risultati per la prevenzione del burn-out degli operatori che lavorano in ambito sanitario”.

All’interno del modello della Terapia Focalizzata sulla Compassione CFT, le condizioni per il cambiamento non possono prescindere da una sensibilità verso la propria sofferenza e quella degli altri, accettandola senza averne paura e senza respingerla. “All’interno dei modelli dell’ACT e del CFT – conclude Deledda – il dolore viene visto come esperienza umana universale che, se da un lato rappresenta una sfida emotiva, dall’altro offre l’opportunità di familiarizzare con le proprie emozioni difficili, a servizio di ciò che si considera importante nella propria vita”.


Gli esami che "fotografano" la malattia di Alzheimer

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La diagnosi precoce è un fattore determinante per l’efficacia delle terapie che rallentano il decorso di questa malattia: il ruolo della Radiologia e della Medicina Nucleare in un convegno al “Sacro Cuore” venerdì 12 maggio

Oggi circa 50milioni di persone nel mondo soffrono di demenza (un milione in Italia, 600mila sono colpiti da Alzheimer), un numero che è destinato a salire con l’invecchiamento della popolazione. Si stima che nel 2015 le persone ammalate saranno 131 milioni, con un aggravio sulla qualità di vita delle famiglie, della spesa sanitaria e sociale.

Nonostante l’importante impegno della ricerca internazionale, ad oggi non esistono terapie farmacologiche che possano guarire la malattia di Alzheimer, la forma più diffusa di demenza.

I pochi farmaci disponibili – in particolare gli inibitori dell’acetilcolinesterasi che hanno lo scopo di mantenere la disponibilità di acetilcolina, un neurotrasmettitore che invia messaggi da una cellula all’altra – rallentano solamente la progressione della malattia. Come del resto la terapia comportamentale che ha l’obiettivo di conservare le abilità residue del paziente. Entrambe le “cure” sono efficaci nella misura in cui vengano intraprese all’esordio della patologia.

Da qui l’importanza di una diagnosi precoce a cui contribuiscono le nuove tecniche radiologiche e la Medicina Nucleare.

Di “Decadimento cognitivo: aspetti clinici e radiologici” si parlerà venerdì 12 maggio nella sala “Fr. Perez” del “Sacro Cuore Don Calabria” in un convegno (in allegato il programmapromosso dal dottori Giovanni Carbognin e Alberto Beltramello, rispettivamente direttore del Servizio di Radiologia e consulente scientifico di Neuroradiologia dell’ospedale di Negrar (nella foto)

L’incontro, che ha inizio alle 14.30, vedrà una prima parte sull’aspetto clinico della malattia che sarà trattato da geriatri, neurologi e psicologi. Mentre la seconda parte sarà dedicata alle metodiche di diagnosi strumentale e conclusa dal professor Giovanni Frisoni, dell’Università di Ginevra, uno dei maggiori esperti mondiali sulla malattia di Alzheimer.

“Il compito della diagnostica per immagini è innanzitutto quello di escludere patologie trattabili – spiega il dottor Carbognin -. Gli stessi sintomi dell’Alzheimer (perdita di memoria, disorientamento spazio-temporale, difficoltà di linguaggio…) possono essere causati per esempio da neoplasie cerebrali o da ematomi subdurali dovuti anche a piccoli traumi. Ma anche da carenza di vitamina B12 o di acido folico, segnalata dagli esami di laboratorio che vengono prescritti in genere dalle Unità di Valutazione Alzheimer quando si presentano pazienti con sintomi che potrebbero essere ricondotti alla malattia”.

La diagnosi radiologica dell’Alzheimer – prosegue il dottor Beltramello – viene effettuata con la Tac e soprattutto con la Risonanza Magnetica per indagare tutto l’encefalo, ma in particolare per verificare l’esistenza di atrofia dell’Ippocampo, quella parte del cervello situata nel lobo temporale che ha un ruolo importante nella memoria a lungo termine e nelle funzioni cognitive. Atrofia causata dalla deposizione sui neuroni della proteina beta-amiloide, considerata ad oggi la responsabile della morte dei neuroni e quindi della demenza“.

Un apporto importante per la diagnosi precoce viene dato dalla Medicina Nucleare, come spiegherà il dottor Matteo Salgarello, direttore del Servizio a Negrar. “Con la Pet si può studiare non solo il metabolismo neuronale nell’area temporo-parietale, ma grazie a nuovi radiofarmaci oggi siamo in grado di rilevare i depositi di beta-amiloide al loro esordio e di conseguenza di intervenire con le terapie disponibili per rallentare la malattia”, conclude il dottor Beltramello.


Se il bambino tarda a nascere ci pensa un “palloncino”

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Anche l’induzione di travaglio può essere naturale grazie a un catetere di Foley, una metodologia che sarà illustrata sabato 6 maggio in un convegno organizzato dal dottore Marcello Ceccaroni, direttore della Ginecologia e Ostetricia

Il titolo sembra contenere una contraddizione in termini: “Partorire naturalmente: l’induzione di travaglio”. Eppure nella logica dell’umanizzazione delle cure anche un travaglio indotto può essere naturale.

Di questo si parlerà sabato 6 maggio nella sala Congressi della Cantina Valpolicella (via Ballarin 2, a Negrar, vedi programma) dove il tema sarà trattato dal punto di vista dei medici e delle ostetriche, figure essenziali quest’ultime che affiancano la donna per tutto il tempo della gravidanza, durante il parto e nelle prime settimane dopo la nascita.

L’appuntamento scientifico è organizzato dal dottor Marcello Ceccaroni (nella foto), direttore del Dipartimento per la tutela della salute e della qualità della vita della donna dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, e avrà inizio alle 8.30. Fra i relatori anche i professori Pantaleo Greco e Federico Mecacci, rispettivamente dell’Università di Ferrara e di Firenze, e il dottor Giuseppe Battagliarin dell’ospedale di Rimini.

L’induzione di travaglio è una procedura che viene effettuata ogniqualvolta la continuazione della gravidanza, anche pretermine, rappresenti un pericolo per la mamma o il bambino. Oppure quando la gestazione è giunta alla 41° settimana, un limite di tempo che già di per sé è un rischio per il nascituro.

“Dal 2012 assieme al responsabile del modulo di Ostetricia, il dottor Sante Burati, abbiamo introdotto a Negrar una metodologia di induzione che ha l’obiettivo di dilatare il collo dell’utero in modo naturale e soprattutto non doloroso per le partorienti, rispetto alle vecchie tecniche, come la dilatazione manuale da parte dell’ostetrica – spiega il dottor Ceccaroni -. Si tratta dell’introduzione di un catetere di Foley (una sorta di palloncino) che viene riempito progressivamente di una certa quantità d’acqua e lasciato nel corpo della donna al massimo 48 ore con lo scopo di sollecitare le contrazioni”.

Durante il convegno l’ostetrica Annapaola Isolan presenterà i dati dello studio realizzato assieme alle colleghe Alessandra Cavalleri, Paola Vicentini e Tania Iurati, condotto su 4.684 parti avvenuti al “Sacro Cuore-Don Calabria” dal 2012 al 2016. La ricerca ha rilevato che l’utilizzo del Foley ha ridotto del 27% il rischio di taglio cesareo nelle donne in cui l’induzione di travaglio era indicata per motivi fetali, dimostrandosi una metodica indolore e a vantaggio del benessere della mamma e del bambino.

L’introduzione di questa metodologia ha portato alla realizzazione di un protocollo per l’induzione di parto suddiviso in varie fasi e condiviso fin dall’inizio con la partoriente. Il primo step è proprio l’introduzione del Foley, il cui utilizzo non è solo quello di indurre le contrazioni, ma anche, nel caso in cui fallisse, di favorire l’effetto dei farmaci, come le Prostaglandine (seconda fase), poco efficaci in assenza di dilatazione del collo dell’utero. L’induzione prosegue poi con la rottura delle membrane e se è necessario con la somministrazione di un altro farmaco, l’Ossitocina.


Un decalogo per riconoscere le malattie reumatiche ai primi sintomi

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Sabato 8 aprile si terrà al “Sacro Cuore” il X Simposio di Reumatologia della Valpolicella. Sotto la lente di ingrandimento alcune delle più diffuse malattie reumatiche per le quali rimane fondamentale un trattamento precoce e mirata

Sono circa 150, dai nomi più disparati e occupano il secondo posto, dopo le malattie cardiovascolari, quali causa di invalidità. Sono le malattie reumatiche di cui in Italia soffrono oltre 5 milioni e mezzo di persone e più di 300 milioni nel mondo. Nel nostro Paese circa il 27% delle pensioni di invalidità è dovuto a queste malattie.

Proprio alle più comuni di queste patologie è dedicato il X Seminario di Reumatologia della Valpolicella (in allegato il programma), promosso dal Servizio di Reumatologia dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria, di cui è responsabile il dottor Antonio Marchetta.(foto nella Gallery)

L’incontro si terrà sabato 8 aprile a partire dalle 8.30 nella sala convegni “Fr. Perez” ed è rivolto in particolare ai medici di medicina generale, primi interlocutori dei pazienti quando insorgono i sintomi.

“Faremo il punto sugli straordinari progressi che la Reumatologia ha fatto nell’ultimo decennio – afferma il dottor Marchetta – Sia nell’ambito diagnostico ma soprattutto in quello terapeutico con l’avvento di nuovi e rivoluzionari farmaci (i biotecnologici) che hanno radicalmente modificato la prognosi delle malattie reumatiche e cambiato in meglio la qualità della vita dei pazienti”.

Il simposio si soffermerà in particolare sull’osteoporosi, l’osteoartrosi, la gotta e l’iperuricemia, infine la polimialgia reumatica. Interverranno come relatori i reumatologi (tra cui Leonardo Punzi, titolare della cattedra di Reumatologia dell’Università di Padova), immunologi, fisiatri e gli stessi medici di medicina generale.

Quelle reumatiche si possono distinguere in patologie di tipo degenerativo (come l’artrosi), infiammatorio (per esempio l’artrite reumatoide o quella psoriasica) o dismetabolico, cioè legate a disturbi metabolici (acido urico, diabete, dislipidemia, obesità). Poi vi è un capitolo importante delle connettiviti (Lupus erimatoso sistemico, sclerodermia, sindrome di Sjogren) e delle vasculiti sistemiche.

Un aspetto fondamentale da sottolineare è che le malattie reumatiche non sono esclusivamente patologie delle ossa e delle articolazioni, ma possono frequentemente interessare tutti gli organi e gli apparati (pelle, cuore, reni, polmoni, sistema nervoso cemtrale e periferico, sistema circolatorio, occhi…). Hanno tutte in comune un andamento evolutivo cronico e possono comparire a qualunque età.

Ma come riconoscere i primi sintomi delle malattie reumatiche?Ecco il decalogo della Società italiana di Reumatologia, uno strumento concreto per arrivare a una diagnosi precoce di queste patologie che, se non curate, possono portare progressivamente all’invalidità.

  1. Dolore e gonfiore alle articolazioni delle mani e/o dei polsi che persiste più di tre settimane
  2. Rigidità articolare che dura da più di un’ora al mattino, dopo il risveglio
  3. Gonfiore improvviso, associato o meno a dolore ed arrossamento locale, di una o più articolazioni in assenza di trauma
  4. Nel giovane: dolore di tipo sciatico fino al ginocchio che va e viene, cambiando anche di lato, che aumenta durante il riposo notturno e si attenua con l’attività fisica.
  5. Sbiancamento delle dita delle mani all’esposizione al freddo o per variazioni climatiche o per emozioni.
  6. Sensazione di secchezza o di sabbia negli occhi, associata a secchezza della bocca e a dolori articolari o muscolari.
  7. Arrossamento al viso, sul naso e guance o attorno agli occhi, che peggiora con l’esposizione solare anche lieve e associato a dolori articolari.
  8. Nelle persone che hanno oltre 50 anni: improvvisa comparsa di dolore ad entrambe le spalle, con impossibilità di pettinarsi o allacciarsi il reggiseno e anche con difficoltà ad alzarsi da una poltrona, specie se accompagnato da mal di testa e calo di peso.
  9. Nella donna in post-menopausa o nel paziente che assume cortisone: dolore improvviso alla schiena particolarmente dopo uno sforzo o un sollevamento di peso.
  10. Nei soggetti affetti da psoriasi o con familiari affetti dalla stessa malattia: comparsa di dolore alle articolazioni o alla colonna vertebrale o al tallone.