Emergenza obesità: cresce il numero dei pazienti che si rivolgono alla chirurgia dell'IRCCS di Negrar

Nel 2023 sono state 138 le persone che si sono rivolte all’ospedale di Negrar per sottoporsi alla chirurgia di riduzione del peso, 45 in più rispetto al 2022. Da gennaio a marzo 2024 gli interventi sono stati già 46. Il 20% proviene da fuori regione e rilevante è anche la percentuale dei cosiddetti Re-Do Surgery (10%), cioè di coloro che si rivolgono a Negrar per un secondo intervento, a causa di complicazioni dovute alla prima procedura chirurgica effettuata in un altro ospedale o per fallimento nella perdita di peso.

L’obesità è una patologia in costante aumento. In base a un’analisi globale pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica Lancet, nel 2022 i bambini e gli adolescenti obesi nel mondo erano 159 milioni e 879 milioni gli adulti. In Italia 4 adulti su 10 sono in eccesso ponderale3 in sovrappeso e 1 obeso, numeri che crescono anno dopo anno. Si tratta di una vera e propria emergenza sanitaria, perché l’obesità è un grave fattore di rischio di importanti patologie come il diabete, le malattie cardiovascolari e anche i tumori.

Le regole d’oro per dimagrire restano l’alimentazione bilanciata e movimento fisico, ma quando i chili di troppo sono davvero tanti, la strada obbligata è spesso quella chirurgica e sempre più persone la percorrono. Lo confermano i dati della Chirurgia bariatrica dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria a cui è stata affidata l’organizzazione del convegno veneto della SICOB (Società italiana di Chirurgia dell’Obesità e delle malattie metaboliche) che si è tenuto venerdì 5 aprile a Villa Quaranta Tommasi di Ospedaletto di Pescantina.

Nel 2023 sono state 138 le persone che si sono rivolte all’ospedale di Negrar per sottoporsi alla chirurgia di riduzione del peso, 45 in più rispetto al 2022. Da gennaio a marzo 2024 gli interventi sono stati già 46. Il 20% proviene da fuori regione e rilevante è anche la percentuale dei cosiddetti Re-Do Surgery (10%), cioè di coloro che si rivolgono a Negrar per un secondo intervento, a causa di complicazioni dovute alla prima procedura chirurgica effettuata in un altro ospedale o per fallimento nella perdita di peso.

Léquipe della Chirurgia bariatrica: da sinistra Maria Paola Brunori (gastroenterologa), Eleonora Geccherle (psicologa), Roberto Rossini (chirurgo), Alessandra Misso (dietista) e Irene Gentile (chirurgo)

Numeri anche grazie ai quali all’inizio dell’anno la Chirurgia bariatrica, che afferisce alla Chirurgia generale diretta dal dottor Giacomo Ruffo, ha ricevuto la certificazione Sicob di centro di eccellenza e poche settimane prima il riconoscimento di Centro formatore ERAS, il primo in Italia, unitamente alla chirurgia colo-rettale

Proprio il protocollo ERAS sarà il tema conduttore del convegno, durante il quale si sono avvicendati gli interventi dei maggiori specialisti italiani tra cui il presidente eletto della Sicob e tra gli autori delle linee guida nazionali sulla chirurgia bariatrica, il dottor Maurizio De Luca, e un ospite internazionale, il professor Didier Mutter da Strasburgo, rappresentante di una della maggiori scuole europee di chirurgia laparoscopica.

“Eras è una modalità di presa in carico del paziente chirurgico che ha come obiettivo il miglior recupero dopo l’intervento – spiega il dottor Roberto Rossini, responsabile della Chirurgia bariatrica di Negrar e organizzatore del convegno -. Grazie alla preparazione pre-intervento, all’adozione di specifiche tecniche chirurgiche e anestesiologiche, al controllo di nausea e dolore, che consentono la mobilità precoce del paziente già nelle ore successive alla sala operatoria, sono diminuite significativamente le complicanze post chirurgiche e i giorni di ricovero sono scesi da 4 a 1. La certificazione di centro formatore da parte della società scientifica internazionale Eras Society – prosegue – è il risultato di un lavoro complesso di più specialisti, non solo chirurghi, che ha portato ad un’adesione al protocollo superiore al 95%. Grazie al riconoscimento possiamo formare altri centri italiani per l’applicazione di Eras”.

“Sia la certificazione SICOB di centro di eccellenza sia quella di ERAS di Centro formatore sono basate sul rispetto di criteri condivisi dalla comunità scientifica internazionale e quindi sono prima di tutto un certificato di garanzia per i pazienti che si recano da noi”, sottolinea il chirurgo. Tra questi criteri anche l’adesione ad un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) formalizzato, come quello Veneto, che prevede la presenza di un’équipe multidisciplinare formata, oltre che da chirurghi, anche da gastroenterologi, psicologi e dietisti.

“Con diverse tecniche di chirurgia mini-invasiva (laparoscopica e robotica) viene asportata buona parte dello stomaco, che assume la forma di un tubo collegato al duodeno. Il risultato è un maggior senso di sazietà, non solo per la riduzione dello spazio di contenimento del cibo, ma anche perché viene recisa quella parte dello stomaco che produce la grelina, il cosiddetto ormone della fame – spiega ancora Rossini -. Tuttavia l’intervento fine a se stesso, rischia di fallire, se non è accompagnato da un percorso di vero cambiamento di stili di vita. Per questo è importante l’apporto di diversi specialisti sia prima della chirurgia sia durante il follow up. Il 70% dei nostri pazienti effettuano nel primo anno tutti i controlli periodici contro il 50% stabilito dalla Sicob. Poi nel tempo la percentuale si abbassa fisiologicamente sebbene rimanga soddisfacente”,

 

 


Cambio dell'ora, un piccolo trauma per il nostro sonno

Il passaggio dall’ora solare all’ora legale, avvenuto domenica, è atteso da molti perchè permette di avere un’ora in più di luce alla sera, allungando di fatto le giornate e consentendo tra l’altro un risparmio sulla bolletta elettrica. Ma questo cambiamento crea anche uno sfasamento tra l’orologio biologico che ognuno ha al proprio interno e l’orologio ambientale legato alla luce. Uno sfasamento che talvolta può creare problemi a dormire, specialmente nei bambini e negli anziani.

Nel video il dottor Gianluca Rossato, responsabile del Centro di Medicina del Sonno, in collegamento da Negrar descrive a Rainews 24 il modo in cui il cambio dell’ora influisce sul sonno.


L'augurio del Casante: "In questa Pasqua facciamoci pane spezzato per coloro che soffrono"

In questa Pasqua 2024, il Casante don Massimiliano Parrella invita tutta la Famiglia Calabriana a farsi pane spezzato per gli altri. Pochi giorni dopo essere tornato dalla Guinea Bissau, dove l’Opera Don Calabria ha aperto una nuova missione in un contesto di grande povertà in cui nemmeno la disponibilità del cibo è scontata, il Casante pone dunque il pane al centro del suo messaggio.

Vi faccio un invito – dice don Parrella nel suo video-messaggio – il giorno di Pasqua, sulle vostre tavole, mettete un pane e poi spezzatelo e in quello spezzare il pane non ci sarà solo la condivisione del cibo, ma ci sarà anche la condivisione di una fede, la condivisione della vita, la condivisione di un cammino, la condivisione di un’amicizia. Per essere pane per coloro che pane non hanno, per essere pane per coloro che soffrono, per essere pane per coloro che sono soli, per essere pane per coloro che vivono la croce ogni giorno“.


Giornata mondiale dell'endometriosi: quel dolore femminile a cui non si vuole credere

Il 28 marzo è la Giornata mondiale dedicata all’endometriosi, patologia ginecologica di cui solo in Italia soffronto 3 milioni di donne. Vogliamo parlare di questa malattia attraverso la testimonianza di Elisabetta Costantino, autrice del libro “Diario di una pazza”. Pazza, perché è ciò che ha pensato di essere per 20 anni, o meglio quello che molti, tra cui alcuni medici, le hanno fatto credere di essere. “E’ colon irritabile”, “devi rilassarti perché è solo stress”, “ti consiglio di rivolgerti a un psichiatra”. Una narrazione durata dai 18 ai 38 anni quando è arrivata la diagnosi, “la liberazione” come la definisce Betty, all’IRCCS di Negrar.

Nel video la storia di Elisabetta, simile a tante altre, perché il ritardo diagnostico in Italia è in media di 9 anni.
A raccogliere la sua testimonianza Silvia Beltrami per la sua rubrica “Storie vere” di Telearena


Tubercolosi: l'IRCCS di Negrar in prima linea con la ricerca sulla farmacoresistenza

Il 24 marzo si celebra la Giornata Mondiale della Tubercolosi, malattia che nel 2022 ha causato 1,3 milioni di morti nel mondo. E sono in crescita le forme cosiddette farmacoresistenti, cioè che non rispondono al trattamento con i farmaci tradizionali. Proprio su questo il “Sacro Cuore” sta portando avanti un’importante ricerca presso l’ospedale “Divina Provvidenza” di Luanda in Angola.

I dati globali

Con 10,6 milioni di nuovi casi stimati nel 2022 e 1,3 milioni di morti, la tubercolosi (TB) continua a rappresentare una vera e propria emergenza sanitaria globale. In occasione della giornata mondiale dedicata a questa malattia, che si celebra domenica 24 marzo, i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità certificano che il numero di casi è tornato a valori superiori al 2019, dopo un calo nel periodo della pandemia da COVID-19 dovuto alla diminuzione dei servizi di diagnosi e trattamento. Resta dunque lontano l’obiettivo che gli organismi internazionali si erano posti di ridurre del 75% i decessi per tubercolosi entro il 2025 (il calo tra il 2015 e il 2022 si è fermato al 19%). Anche per questi motivi il tema della giornata di quest’anno è ”Yes! We can end TB” (Sì! Possiamo mettere fine alla tubercolosi), scelto per invitare i Paesi a mettere in pratica gli obiettivi concordati nelle varie sedi.

Il problema dell’accesso alle cure

“Le due grandi sfide per combattere questa malattia sono l’accesso alle cure e il problema della farmacoresistenza” afferma Paola Rodari, infettivologa del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali diretto dal prof. Federico Gobbi.

Dr.ssa Paola Rodari

“La tubercolosi è quasi sempre curabile – prosegue – specialmente se viene diagnosticata in modo tempestivo. Tuttavia è una malattia molto diffusa in zone caratterizzate da povertà, per cui spesso i malati non riescono a curarsi in modo adeguato”. In tal senso basti pensare che nel 2022 secondo l’OMS solo due malati su cinque hanno avuto accesso al trattamento farmacologico previsto per la tubercolosi. Se a questo aggiungiamo che spesso la malattia si può associare all’infezione da HIV, è chiaro che le cure richieste sono più complesse e hanno un esito più incerto.

La ricerca dell’IRCCS sulla farmacoresistenza in Angola

L’altra grande sfida è quella della farmacoresistenza. Nel 2022 si stima che siano stati 410mila i malati di TB affetti da una forma multiresistente o resistente alla rifampicina, farmaco d’elezione per il trattamento della malattia. Un problema dovuto in parte ad un uso improprio della terapia. “Le forme farmacoresistenti si sviluppano per varie ragioni – sottolinea Rodari – ad esempio quando i farmaci non vengono assunti in modo congruo. Questo crea molti disagi perché in caso di forme resistenti si rende necessario l’uso di farmaci di seconda linea, che spesso implicano trattamenti più lunghi e complessi”.

Proprio sulla farmacoresistenza in riferimento alla tubercolosi è in corso un progetto di ricerca che vede impegnati in prima linea i ricercatori del Sacro Cuore.

Il progetto è iniziato attivamente lo scorso settembre a Luanda, in Angola, presso l’Hospital Divina Providência (HDP) che è una struttura sanitaria dell’Opera Don Calabria di cui il Sacro Cuore è partner e consulente per la ricerca scientifica e le malattie infettive e tropicali. Il progetto è svolto con l’aiuto di un ente sanitario angolano, l’INIS, coinvolgendo pertanto anche attori della sanità angolana. L’intento è quello di studiare il tasso di tubercolosi multiresistente fra i pazienti con tubercolosi che accedono all’HDP, in quanto i dati sulla situazione angolana sono molto scarsi e ci si attendono livelli di multiresistenza assai elevati. Si stima che, ogni mese, circa 300 nuovi casi di tubercolosi vengano diagnosticati presso l’HDP, il che dà l’idea di quanto sia diffusa tale malattia e dell’importanza di avere dati certi sul tasso di resistenza ai farmaci.

L’HDP di Luanda visto dall’alto
La tubercolosi al Sacro Cuore

A livello italiano i casi di tubercolosi notificati nel 2022 sono stati 2.700, con un’incidenza pari a 4,6 ogni 100.000 abitanti. Di questi sono circa quaranta quelli presi incarico lo scorso anno dall’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. “I pazienti che vediamo sono di due tipi – spiega l’infettivologa – anzitutto ci sono i migranti che spesso sono entrati in contatto con il micobatterio anni prima nel loro Paese di origine e che poi si ammalano in Italia, anche perché le condizioni del viaggio e lo stress della loro nuova condizione può comportare un abbassamento delle difese immunitarie. In altri casi vediamo pazienti anziani nati in Italia che hanno contratto il batterio in gioventù (quando la TB era una malattia più frequente rispetto ad oggi) e sviluppano la malattia quando il fisico è più fragile”.

I casi di tubercolosi vengono rilevati o attraverso lo screening che viene effettuato sulle popolazioni a rischio (ad esempio migranti) oppure in caso di sospetto clinico dovuto alla presenza di sintomi. In caso di sospetta TB si procede alla diagnosi attraverso specifici esami di laboratorio, disponibili al Sacro Cuore. Qualora si sospetti una tubercolosi polmonare, che è l’unica forma contagiosa di malattia, oppure se le condizioni di salute lo richiedono, il paziente può essere ricoverato nelle stanze di isolamento del reparto di Malattie Infettive e Tropicali, dove si procede agli accertamenti diagnostici e viene poi avviata la terapia specifica. Appena possibile, il paziente viene dimesso e affidato al servizio ambulatoriale dedicato, dove può proseguire il monitoraggio e vengono forniti i farmaci per proseguire la terapia a domicilio. Solitamente la durata della terapia è di almeno sei mesi, ma in alcuni casi è necessario un trattamento più lungo.

La terapia preventiva

A livello globale, si stima che circa un quarto della popolazione mondiale sia entrata in contatto con il micobatterio della tubercolosi, ma questo non significa che tutti svilupperanno la malattia; infatti nella grande maggioranza dei casi questa è bloccata dal sistema immunitario. “Talvolta, quando si riscontra la presenza di infezione senza malattia attiva, si procede a somministrare al paziente una terapia preventiva. Tuttavia questa procedura non è indicata per tutti, ma solo per popolazioni selezionate, ad esempio i pazienti candidati a terapia immunosoppressiva proprio per evitare che l’indebolimento del sistema immunitario permetta lo sviluppo della malattia”, conclude la dottoressa Rodari.


Tumori epatobiliari: il professor Alfredo Guglielmi consulente della Chirurgia generale

Nell’alveo della collaborazione tra l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e l’Università di Verona, il professor Alfredo Guglielmi è entrato a fa parte, come consulente per i tumori del fegato e delle vie biliari, dell’équipe della Chirurgia generale dell’IRCCS di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo. 

 

Nell’alveo della collaborazione tra l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria e l’Università di Verona, il professor Alfredo Guglielmi (a destra nella foto) è entrato a fa parte, come consulente per i tumori del fegato e delle vie biliari, dell’équipe della Chirurgia generale dell’IRCCS di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo (a sinistra nella foto).

Già ordinario di Chirurgia generale e direttore del Dipartimento di Ingegneria per la Medicina d’innovazione, presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia e direttore della Scuola di Dottorato dell’Ateneo scaligero, il professor Guglielmi ha guidato dal 2005 al 2023 la Struttura complessa di Chirurgia Generale ed Epatobiliare dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona.

Ha all’attivo oltre 10mila interventi, prevalentemente nell’ambito della chirurgia oncologica digestiva, del fegato e delle vie biliari. Nel corso della sua carriera universitaria ha firmato 300 pubblicazioni sulle più prestigiose riviste scientifiche ed è attualmente presidente IASGO, (International Association of Surgeon Gastroenterologist and Oncologist), società scientifica internazionale che conta più di 1700 membri, provenienti da oltre 90 Paesi in tutto il mondo. Ad oggi è anche presidente della Fondazione Scuola Sanità Pubblica della Regione Veneto e presidente AICEP, l’associazione italiana di chirurgia epato-bilio-pancreatica. Nel corso degli anni ha frequentato in qualità di visiting surgeon i più importanti centri chirurgici della Gran Bretagna, della Germania, del Giappone e degli Stati Uniti.

Il mio ruolo all’IRCCS di Negrar è quello di mettere a disposizione la mia conoscenza ed esperienza nel campo dei tumori del fegato e delle vie biliari a cui ho dedicato la vita professionale”, spiega il professor Guglielmi. “Inoltre alla luce della collaborazione tra l’Università di Verona e il Sacro Cuore Don Calabria, avviata con la creazione del Corso magistrale in Farmacia, credo che il mio contributo possa concorrere a favorire la nascita di progetti di ricerca nel campo dell’oncologia epatobiliare”. “La presenza del professor Guglielmi è sicuramente un valore aggiunto per la nostra Chirurgia generale, in particolare per la formazione dei chirurghi più giovani e per lo sviluppo delle metodiche chirurgiche che riguardano i tumori del fegato”, sottolinea il dottor Ruffo. 

“La prognosi dei tumori al fegato è strettamente legata alla diagnosi precoce della malattia, al suo stadio nel momento dell’esordio clinico e alle cure che possono essere adottate”, sottolinea il professor Gugliemi. “Negli stadi iniziali, trattati con terapie radicali come la chirurgia resettiva o il trapianto, la sopravvivenza a 5 anni può superare il 50-60%. Nei casi avanzati i risultati sono meno incoraggianti, con sopravvivenze che raramente superano il 10-20% a 5 anni”.

La ricerca comunque ha fatto passi enormi consentendo oggi all’oncologia di avvalersi di nuovi trattamenti per la cura di questi tumori che vanno ad affiancarsi alla chirurgia, alla radioterapia e alle terapie loco-regionali. “La definizione del profilo genetico delle singole neoplasia ha consentito la creazione di farmaci target che vanno a colpire determinati recettori, responsabili della crescita della cellula tumorale – continua il professor Guglielmi -.  Ma anche lo sviluppo dell’immunoterapia recentemente introdotta in alcuni protocolli di terapia ci auguriamo che possa dare nel prossimo futuro risultati incoraggianti anche per queste neoplasie”. 

Proprio alla luce delle diverse opzioni terapeutiche che si possono adottare nella cura di questi tumori è fondamentale che il paziente sia preso in carico daun team multidisciplinare di medici di differenti specialità, come già avviene all’IRCCS di Negrar. “L’approccio multidisciplinare è l’unico che può portare a risultati positivi – sottolinea -. La chirurgia rimane il gold standard, ma non sempre è praticabile. Pertanto a step diversi interviene l’oncologo con la terapia medica, il radiologo intervista con terapie loco-regionali, il medico nucleare e il radioterapista. Ricerca e integrazione dei trattamenti con un approccio multidisciplinare sono le principali vie per migliorare i risultati della cura dei tumori del fegato”.

Tumori primitivi e secondari del fegato

L’epatocarcinoma è, insieme al colangiocarcinoma, un tumore primitivo del fegato. Diffuso maggiormente in Asia rispetto a Stati Uniti ed Europa, è il sesto tumore più frequente a livello mondiale e la seconda causa di morte per neoplasia. In Italia è più raro: nel 2023 sono state stimate circa 12mila diagnosi con un rapporto di circa 2 a 1 tra uomini e donne.

I fattori di rischio di oltre il 70% dei casi di tumori primitivi del fegato sono: infezione da virus dell’epatite C (HCV) e da virus dell’epatite B (HBV); abuso di bevande alcoliche; sindrome metabolica (obesità, diabete, ipertensione arteriosa); steatoepatite (“fegato grasso”) non alcolica correlata a sindrome metabolica; fumo di sigaretta.

Il colangiocarcinoma è il secondo tumore primitivo del fegato e ha origine dalle delle vie biliari. È una neoplasia rara: si stima che nel 2020 abbia colpito in Italia circa 5.400 persone (Airtum, I numeri del cancro in Italia 2020), ma l’incidenza sta aumentando in tutto il mondo.
Il colangiocarcinoma presenta un esordio clinico molto subdolo e continua a essere tra i carcinomi più difficili da curare con efficacia, in quanto sono disponibili ancora poche informazioni su questo tipo di tumore.

Anche i fattori di rischio sono ancora oggetto di studio. Ad oggi sappiamo che ad aumentare il rischio di colangiocarcinoma potrebbero essere alcune malattie delle vie biliari, come la colangite sclerosante primitiva, la presenza di calcoli nei dotti biliari e nella cistifellea, le cisti del coledoco. Meno chiaro è se le probabilità di ammalarsi possano essere influenzate da obesità, sindrome metabolica, cirrosi, infezioni da virus dell’epatite B e C e da comportamenti a rischio come il fumo o da sostanze ambientali inquinanti.

Più frequenti sono invece i tumori secondari, ovvero le metastasi che colonizzano il fegato provenendo da altri organi. Il fegato, infatti, proprio per la sua funzione di filtro dell’organismo, riceve il sangue da quasi tutti i distretti corporei e quindi è facilmente sede di metastasi di altri tumori che trovano nel fegato una sede favorevole al loro sviluppo

 


Malattie infettive emergenti: la ricercatrice Tiberti dell'IRCCS di Negrar tra i vincitori delle borse di Fondazione INF-ACT

La dottoressa Natalia Tiberti, ricercatrice dell’IRCCS di Negrar, è una dei tre vincitori della borsa di ricerca sostenuta dalla Fondazione INF-ACT, in collaborazione con la Fondazione Armenise-Harvard Il suo progetto, finanzianto con 150mila euro,  ha l’obiettivo di ricercare nuovi bio-marcatori per contribuire alla diagnosi precoce di febbri acute causate da arbovirus, quali ad esempio il virus West Nile e il virus Dengue. Tali bio-marcatori consentirebbero di migliorare la gestione dei pazienti febbrili, di contribuire al controllo di eventuali epidemie. 

 

La dottoressa Natalia Tiberti, ricercatrice dell’IRCCS di Negrar, è una dei tre vincitori della borsa di ricerca sostenuta dalla Fondazione INF-ACT, in collaborazione con la Fondazione Armenise-Harvard. Gli altri due ricercatori premiati con un finanziamento di 150mila euro ciascuno sono Roberto Rusconi dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Paolo Gabrieli dell’Università degli Studi di Milano.

I tre progetti sono stati selezionati tra i lavori presentati dai 25 partner del Consorzio INF-ACT, il network di Centri di ricerca, Università e Irccs impegnati nel progetto sulle malattie infettive emergenti, finanziato nell’ambito del PNRR con 114,5 milioni di euro.  La selezione è avvenuta attraverso le rigorose procedure della Fondazione Giovanni Armenise-Harvard, che nasce con l’obiettivo di sostenere la ricerca di base in campo biomedico, e sono stati scelti perché accomunati da un approccio innovativo alla ricerca sulle malattie infettive, finalizzata alla gestione di possibili nuove epidemie.

Il progetto della dottoressa Tiberti ha l’obiettivo di ricercare nuovi bio-marcatori per contribuire alla diagnosi precoce di febbri acute causate da arbovirus, quali ad esempio il virus West Nile e il virus Dengue. Tali bio-marcatori consentirebbero di migliorare la gestione dei pazienti febbrili, di contribuire al controllo di eventuali epidemie causate da arbovirosi di importazione, di monitorare in modo più accurato l’epidemiologia di queste infezioni nel nostro territorio e di evitare l’utilizzo inappropriato di antibiotici.

“Siamo molto soddisfatti perché abbiamo ricevuto candidature da ricercatori impegnati nei diversi aspetti che le malattie infettive emergenti richiedono di fronteggiare, con approcci innovativi, trasversali e multidisciplinari. Questi fondi costituiscono un’ulteriore assegnazione di risorse destinate alle attività ricerca all’interno del progetto PNRR gestito dalla Fondazione INF-ACT. Le tre borse assegnate garantiranno a questi validi scienziati di proseguire i loro studi e di esplorare le potenzialità della moderna ricerca scientifica, in cui la salute umana è interconnessa alla salute animale e ambientale (One Health)” ha dichiarato Federico Forneris, presidente della Fondazione INF-ACT.

La particolarità del bando di assegnazione delle borse è stata quella di essere rivolto solo ai ricercatori in attività da almeno 5 anni ma meno di 12. “La scarsità, tra i finanziamenti, di fondi dedicati a chi è a metà del proprio percorso professionale, spesso mette a rischio carriere avviate, compromettendo la possibilità di portare a fruizione gli investimenti fatti in fase di avvio di un laboratorio e, soprattutto, rischia di vanificare il raggiungimento delle scoperte scientifiche. L’esperienza di oltre 20 anni della Fondazione Armenise Harvard è emblematica: col programma Career Development Award (CDA) abbiamo sostenuto le ricerche in Italia di oltre 30 scienziati che, a loro volta, hanno raccolto fondi per quasi 100 milioni di euro, pubblicando più di 1000 peer-reviewed paper con un H-index medio di 26 e più di 4300 citazioni medie. Nonostante ciò, però, anche i nostri ricercatori soffrono di questa situazione inaccettabile“, ha affermato Elisabetta Vitali, direttore dei programmi italiani alla Fondazione Armenise Harvard

“L’Armenise Harvard INF-ACT Mid-Career award rappresenta un importante supporto per la mia carriera scientifica – ha sottolineato dal dottoressa Tiberti – Grazie a questo finanziamento avrò la possibilità di ampliare il mio gruppo di ricerca e di impiegare nei miei studi approcci innovativi quali l’analisi di vescicole extracellulari, ossia nanoparticelle, rilasciate dalle cellule umane in risposta a diversi patogeni, che possono contenere informazioni biologiche specifiche del tipo di infezione in atto”.

Tiberti, originaria di Parma, dopo la laurea triennale in Biotecnologie e la laurea specialistica in Biotecnologie Mediche, ha iniziato il percorso da ricercatrice nell’ambito delle malattie infettive e tropicali conseguendo il dottorato di ricerca presso l’Università di Ginevra (Svizzera) sotto la supervisione del prof. Jean-Charles Sanchez. Successivamente ha perfezionato le competenze come post-doc presso l’Università di Sydney e la University of Technology Sydney (Australia) nel gruppo della Prof.ssa Valery Combes. Dal 2018 è ricercatrice indipendente presso il Dipartimento di Malattie Infettive, Tropicali e Microbiologia dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, dove si occupa di ricerca biomedica traslazionale con particolare interesse allo studio di bio-marcatori per le malattie infettive e tropicali, e dei meccanismi di interazione tra l’ospite umano e diversi tipi di agenti infettivi.

Gli altri progetti vincitori

Il progetto proposto dal professor Roberto Rusconi – responsabile del Laboratorio di fisica applicata, biofisica e microfluidica di Humanitas e associato in Humanitas University – si concentra sui biofilm, comunità batteriche protette da una matrice extracellulare prodotta dai batteri stessi.  I biofilm rappresentano una delle principali cause di infezioni persistenti negli ospedali e si presentano in particolare in associazione all’uso di dispositivi biomedici. Concentrandosi sulle strutture particolari che i biofilm formano in condizioni di flusso, come nei cateteri o negli stent, il progetto mira a comprendere come questi biofilm si formano e resistono agli antibiotici, indagando specificamente il ruolo svolto dal DNA batterico rilasciato nella matrice extracellulare.  L’obiettivo è scoprire nuove strategie per combattere queste colonie batteriche resilienti, portando potenzialmente a nuovi metodi di controllo delle infezioni.

Il progetto vincitore del professor Paolo Gabrieli – docente di Zoologia presso il dipartimento di Bioscienze dell’Università degli Studi di Milano –  ha lo scopo di sviluppare una nuova tecnica eco-compatibile di controllo delle zanzare tramite la modificazione della loro riproduzione. Ad oggi, le zanzare vengono controllate per lo più utilizzando insetticidi, che sono dannosi per l’ambiente e l’uomo e stanno perdendo la loro efficacia. È necessario, quindi, sviluppare metodi che rispettino l’ambiente, ma che abbiano un’efficacia e una velocità di azione paragonabile agli insetticidi.  Una delle caratteristiche fondamentali di questi insetti, che li rende importanti vettori di malattie umane, è quella di poter generare tantissima prole in poco tempo: limitando la possibilità di questi insetti di riprodursi si può dunque limitare il loro numero e controllare le loro popolazioni.


Nuova missione dell'Opera Don Calabria in Guinea Bissau

Una comunità dell’Opera Don Calabria è presente da alcune settimane nella città di Buba, in Guinea Bissau. La nuova missione è stata aperta ufficialmente l’8 febbraio e i primi religiosi sono partiti il 10 febbraio,  accompagnati dal Casante don Massimiliano Parrella. Tra le attività previste, oltre alla parrocchia, anche una scuola professionale agraria.

Da alcune settimane l’Opera Don Calabria, di cui fa parte anche l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria, ha aperto una nuova missione in Guinea Bissau, nella diocesi di Bafatà in cui da alcuni anni sono presenti anche i missionari fidei donum della diocesi di Verona. L’apertura ufficiale è stata lo scorso 8 febbraio, quando il Casante don Massimiliano Parrella ha celebrato a San Zeno in Monte la Messa di invio della prima comunità religiosa calabriana in Guinea, composta dal brasiliano don Luciano Gervasoni e dall’angolano fratel Miranda Andrè Bambi.

I due missionari sono partiti per Bissau il 10 febbraio e per i primi 20 giorni della loro permanenza è rimasto con loro anche il Casante. La comunità dell’Opera è ospitata attualmente nella casa dei sacerdoti diocesani a Buba, una cittadina di circa diecimila abitanti dove i religiosi stanno studiando il creolo, cioè la lingua derivante da una commistione tra il portoghese e alcune lingue locali, che viene usata dalla maggior parte della popolazione anche se la lingua ufficiale è il portoghese.

 

I due missionari dell’Opera davanti alla scuola agraria di Buba

L’inserimento nella realtà locale sta avvenendo in modo molto graduale. Dopo questa prima fase a Buba, nei prossimi mesi la comunità dovrebbe stabilirsi nel villaggio di Fulacunda dove si lavorerà per avviare una parrocchia. A Buba invece verrà presa in gestione dai missionari una scuola agraria della diocesi. Altre attività di assistenza potrebbero essere avviate a Tite, villaggio a circa 30 chilometri da Fulacunda. Si tratta di un contesto estremamente povero, sia dal punto di vista sociale che sanitario, educativo e pastorale.

Nella lettera con cui ha annunciato l’apertura della missione, il Casante ha ricordato che

«La nuova missione sarà intitolata a Maria, Padrona dell’Opera e Madre della Provvidenza, con il titolo di Missione “Nossa Senhora da Natividade” per la riconciliazione e la Pace, a ricordo della prima presenza cristiana nell’Africa Occidentale: i primi missionari portoghesi arrivarono in Guinea Bissau nel 1660 e la prima chiesa in questa terra fu così, appunto intitolata.

In questo travagliato momento storico mondiale, intendiamo affermare, secondo lo spirito del “buseta e taneta”, che la riconciliazione fra i popoli e la Pace si ottengono solo con l’impegno a cercare il santo Regno di Dio là dove non c’è nulla da ripromettersi…».

La Guinea Bissau è il terzo Paese africano in cui è presente l’Opera, dopo l’Angola e il Kenya. Le comunità calabriane sono presenti inoltre in Europa (Italia, Romania e Portogallo), America Latina (Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay e Repubblica Dominicana), Asia (India e Filippine), Oceania (Papua Nuova Guinea).


Gli interventi di revisione di protesi, la più grande sfida per il chirurgo ortopedico

Dal 7 all’8 marzo si è tenuto alla Gran Guardia di Verona il IX Congresso nazionale della Società Italiana Riprotesizzazione (AIR), la cui organizzazione è stata affidata quest’anno all’Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar.  Trecento e trenta esperti nazionali e internazionali a confronto sulla complessa chirurgia di sostituzione delle protesi articolari per cui l’ortopedia diretta dal dottor Claudio Zorzi è uno del centri italiani con la più alta casistica e struttura di riferimento regionale per ginocchio e anca

 

Dal 7 all’8 marzo si è tenuto alla Gran Guardia di Verona il IX Congresso nazionale della Società Italiana Riprotesizzazione (AIR), la cui organizzazione è stata affidata quest’anno all’Ortopedia e Traumatologia dell’IRCCS di Negrar.

Oltre 330 ortopedici da tutta Italia hanno approfondito per due giorni le tecniche, le difficoltà e le possibili soluzioni di quella che è considerata la più grande sfida per i chirurghi del settore: l’intervento di revisione di protesi articolare (ginocchio, anca e spalla), necessario quando il primo impianto deve essere sostituito a causa dell’usura del dispositivo o dell’osso, per infezione o per mobilizzazione della protesi stessa.

A fare gli onori di casa il presidente del congresso, dottor Claudio Zorzi, direttore dell’Ortopedia e traumatologia dell’IRCCS di Negrar, affiancato alla vicepresidenza dai colleghi Paolo Avanzi e Antonio Campacci responsabili rispettivamente della Chirurgia della spalla e di quella dell’anca. Alla cerimonia di apertura del 7 marzo sono intervenuti anche il presidente dell’AIR, professor Giuseppe Solarino, quello della Società Italiana Ortopedia e Traumatologia, dottor Alberto Momoli, l’amministratore delegato dell’IRCCS di Negrar, Claudio Cracco, il direttore generale per la ricerca con delega all’Università sempre del Sacro Cuore, Mario Piccinini, e il sindaco di Verona, Damiano Tommasi.

Negli ultimi 20 anni si è assistito a una crescita esponenziale del numero degli impianti di protesi delle maggiori articolazioni: in Italia solo nel 2022 sono stati 235mila, 20mila in più rispetto al periodo pre-covid. Un trend in crescita dovuto a una popolazione sempre più anziana che chiede una condizione fisica performante a prescindere dall’età e a un aumento di pazienti sotto i 60 anni. Ma le protesi non sono eterne: in media hanno un’emivita di circa 15-20 anni, dopo di che devono essere sostituite. Quindi è ipotizzabile che nei prossimi anni gli ortopedici si troveranno di fronte a un boom di interventi di sostituzione, circa il 10% degli impianti effettuati.

da sinistra: il professor Giuseppe Solarino, presidente AIR, il dottor Alberto Momoli, presidente SIOT,il dottor Claudio Zorzi, il dottor Paolo Avanzi e il dottor Antonio Campacc

Quella di revisione protesica è una chirurgia complessa, spesso accompagnata da trapianto di osso, e rappresenta la più grande sfida per i chirurghi ortopedici in quanto l’obiettivo di restituire al paziente la piena autosufficienza viene perseguito operando su un osso il più delle volte compromesso dal primo impianto. Il successo dell’intervento richiede centri ad alta specializzazione e chirurghi esperti che si auspica aumentino in tutta Italia alla luce dell’incremento esponenziale delle revisioni. Una eventuale carenza rischia di creare migliaia di disabili, se la revisione fallisce, con importanti oneri per il Servizio Sanitario Nazionale. Non a caso durante la due giorni scientifica, sono state riservate alcune sessioni agli specializzandi, gli ortopedici del futuro.

L’Ortopedia dell’IRCCS di Negrar si occupa di revisione protesica da circa 20 anni e proprio per l’eccellenza in questo campo è tra i centri con la più alta casistica in Italia e struttura di riferimento regionale per revisione di ginocchio e anca. All’anno l’équipe del dottor Zorzi effettua complessivamente più di 1.700 impianti protesici di cui 200 interventi di revisione.


Infezioni ortopediche: quando i batteri aggrediscono le protesi (ma non solo)

 All’IRCCS di Negrar opera un’unità semplice per la prevenzione e la cura delle infezioni ortopediche, la cui responsabile è l’infettivologa dottoressa Stefania Marocco che lavora a stretto contatto con l’Ortopedia. I  pazienti che hanno dispositivi protesici devono sempre allertarsi nel caso di infezioni urinarie, tonsilliti, polmoniti o in generale di febbre elevata, perché l’infezione potrebbe intaccare la protesi se non viene curata prontamente. Tuttavia, proprio nel caso delle protesi articolari, capita spesso che l’infezione sia sostenuta da batteri meno aggressivi e pertanto non si manifesta con sintomi sistemici, come la febbre elevata, ma con dolore, problemi di tipo meccanico e mobilizzazione della protesi stessa. 

Da sinistra: dr.ssa Stefania Marocco, dr. Leonardo Motta e dr. Andrea Tedesco

All’IRCCS di Negrar opera un’unità semplice per la prevenzione e la cura delle infezioni ortopediche, la cui responsabile è l’infettivologa dottoressa Stefania Marocco. Il team (composto anche dai dottori Leonardo Motta, Giulia Bertoli e Andrea Tedesco) lavora a stretto contatto con l’Ortopedia, reparto che ogni anno esegue oltre 4.000 interventi tra cui 1584 impianti di protesi delle maggiori articolazioni (dati 2023). Dal 2019, inoltre, il reparto, diretto dal dottor Claudio Zorzi, è Centro di riferimento regionale per la revisione delle protesi di ginocchio e anca, interventi (lo scorso anno oltre 200) necessari nel 20% dei casi a causa di infezioni che aggrediscono il dispositivo protesico.

 “Il nostro compito è innanzitutto quello di gestire in prevenzione tutte le tappe del pre-intervento per evitare lo sviluppo di infezioni post chirurgiche, anticamera delle infezioni protesiche – spiega la dottoressa Marocco -.  In particolare, tutti i pazienti vengono sottoposti a tampone nasale per la ricerca dello Stafilococco aureus, uno dei principali fattori di rischio di infezione della ferita post chirurgica. Inoltre effettuiamo lo studio dei pazienti che devono essere sottoposti a revisione protesica, per escludere, ed eventualmente curare, in collaborazione con gli ortopedici , la presenza di infezioni quale causa della revisione stessa”.

Dottoressa Marocco, cosa si intende per infezioni ortopediche?

Si suddividono in due grandi famiglie: le infezioni primitive e quelle post chirurgiche. Le prime vengono definite ‘ematogene”, cioè provocate da un batterio presente nel sangue – già causa di infezione urinaria, polmonite o mal di gola – che vanno a localizzarsi nell’osso. Possono verificarsi anche quando l’osso viene a contatto con i batteri, nel caso, per esempio, delle fratture esposte.

Mentre le infezioni post chirurgiche?

Le infezioni post chirurgiche più rilevanti sono quelle conseguenti alla presenza di mezzi di sintesi (placche e viti impiantate per fratture oppure per correzioni di difetti, come il ginocchio valgo e varo) o che si sviluppano dopo impianto di protesi articolari. In entrambi i casi il batterio può arrivare quale conseguenza dell’atto chirurgico (infezioni peri-operatorie) oppure per via ematica e  a localizzarsi sui mezzi di sintesi o sulle protesi. La discriminante è il tempo: se sono già trascorsi più di due anni dall’intervento senza che si siano verificati precedentemente problemi locali, si ritiene che sia un’infezione di origine ematogena.

Perché questo si verifica anche a distanza di tempo, nel caso della chirurgia protesica?

Sui dispositivi medicali, non solo le protesi ortopediche, in caso di infezione, i batteri sono in grado di formare il biofilm, una sorta di pellicola  dove si sviluppano e che li protegge dal sistema immunitario e dagli antibiotici.  Per questo tutti i pazienti che hanno dispositivi protesici devono sempre allertarsi nel caso di infezioni urinarie, tonsilliti, polmoniti o in generale di febbre elevata, perché l’infezione potrebbe intaccare la protesi se non viene curata prontamente. Tuttavia, proprio nel caso delle protesi articolari, capita spesso che l’infezione sia sostenuta da batteri meno aggressivi e pertanto non si manifesta con sintomi sistemici, come la febbre elevata, ma con dolore, problemi di tipo meccanico e mobilizzazione della protesi stessa. Da qui la necessità di un’indagine infettivologica prima dell’intervento (esami del sangue, radiografie e, quando è possibile, analisi del liquido articolare) per quantificare il rischio di infezione che può essere improbabile, possibile o certa.

Come si cura un’infezione ortopedica causa di revisione?

L’approccio integrato medico-chirurgico è quello che dà maggiori possibilità di risoluzione. La letteratura parla di guarigione nel 95% dei casi con la chirurgia in due tempi: espianto della protesi e collocazione di uno spaziatore impregnato di antibiotico. Quando l’osso è completamente guarito, in genere dopo 6-8 settimane, viene effettuato un nuovo impianto protesico. Le probabilità di guarigione invece diminuiscono (80%) con la chirurgia “in un solo tempo”, nel corso della quale la protesi infetta viene sostituita subito con una nuova protesi. Questo tipo di approccio presenta peraltro un vantaggio dal punto di vista funzionale e viene effettuata in pazienti con germi non resistenti agli antibiotici, che non hanno controindicazioni locali o particolari patologie concomitanti. E’ indicato anche per chi ha controindicazioni all’esecuzione di due interventi chirurgici, a causa di molteplici morbilità.  In entrambi i casi viene associata una terapia antibiotica prolungata, solitamente di 12-14 settimane.
La gestione dell’infezione protesica senza concomitante trattamento chirurgico ha una più bassa probabilità di guarigione (20% circa) e viene effettuata quanto l’intervento non è fattibile per motivi tecnici, quando il paziente è in età molto avanzata o affetto da gravi patologie o quando lo stesso rifiuta l’intervento.

Come si deve procedere, invece, nel caso di infezione conseguente ai mezzi di sintesi?

Nella maggioranza dei casi si procede cercando di controllare l’infezione tramite terapia antibiotica fino a che il consolidamento dell’osso sia tale da non aver più bisogno dei mezzi di sintesi, quindi si procede alla rimozione degli stessi. In caso di mancato controllo dell’infezione i mezzi di sintesi dovranno essere rimossi/sostituiti subito.

Ci sono accorgimenti a cui il paziente deve sottostare per prevenire infezioni che possono compromettere la protesi?

Nulla di particolare, in quanto il paziente è seguito nella fase post chirurgica per la medicazione della ferita. Naturalmente deve evitare, se la ferita non è del tutto guarita, il contatto con l’acqua o occasioni di infezione come i bagni in piscina, solo per fare un esempio. Importante, come ho già detto, nel caso di infiammazione della ferita o mancata chiusura della stessa, bisogna giungere nel minor tempo possibile alla soluzione per evitare che i batteri vadano ad intaccare la protesi.