Cancro al seno: diagnosi più accurate con l'Ecografia 3D

Si chiama ABVS e a differenza dell’Ecografia tradizionale acquisisce le immagini tridimensionali dell’intero volume della mammella, in modo oggettivo, cioè indipendentemente dall’esperienza del medico, fornendo maggiori informazioni diagnostiche

Da alcuni mesi la Sezione di Senologia del Servizio di Diagnostica per immagini dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal dottor Giovanni Carbognin, dispone di un sistema ecografico volumetrico, noto come ABVS (Automated Breast Volume Scanner) o ecografia robotica.

Una risorsa importante per lo studio del tumore alla mammella, in grado di aumentare la accuratezza diagnostica e fornire informazioni preziose al chirurgo che deve eseguire l’intervento.

“Rispetto ai sistemi ecografici tradizionali – spiega il dottor Carbognin – l’ABVS agisce come un’indagine TC, quindi trasforma l’ecografia da metodica soggettiva, cioè dipendente dall’esperienza dell’operatore, a metodica oggettiva”.

Si tratta di un apparecchio dotato di braccio robotizzato con sonda ad alta risoluzione che viene appoggiata sulla mammella e acquisisce con tre scansioni in pochi minuti, indipendentemente dal medico, un volume che può essere visualizzato come singole immagini in tutti i piani dello spazio attraverso monitor dedicati.

“La risoluzione delle immagini è decisamente migliore – prosegue il medico radiologo – di conseguenza lo sono le informazioni diagnostiche ottenibili. Il processo è simile a quanto viene già ottenuto con i mammografi tridimensionali con Tomosintesi, da tempo in dotazione nella nostra Sezione di Radio-Senologia”.

Ma quando viene impiegata l’ecografia tridimensionale? “L’ABVS è indicato in generale nelle donne, quasi sempre giovani, con seno denso, e innanzitutto per pazienti affette da carcinoma mammario al fine della stadiazione locale – risponde il dottor Carbognin – in particolare nelle lesioni complesse o in quelle in cui non sia chiara la sede o l’estensione della lesione tumorale nell’esame ecografico tradizionale”.

L’ecografia robotica viene utilizzata anche per una migliore valutazione della cicatrice nelle donne operate al seno, soprattutto nei casi dubbi di una possibile recidiva della malattia.

Si dimostra molto efficace come ‘seconda opinione’ quando dalla Risonanza Magnetica delle mammelle emerge qualche elemento di sospetto, ma anche nelle donne molto giovani che presentano mammelle con numerosi fibroadenomi (la forma di tumore al seno benigna più diffusa e più frequente nelle donne sotto i 30 anni, ndr), per consentirne un più accurato follow up. Infine, come ‘second-opinion’ grazie alla possibilità di invio e revisione dei volumi acquisiti da parte di un altro specialista“, conclude il dottor Carbognin,

L’ecografia tridimensionale completa l’offerta diagnostica della Sezione di Radio-Senologia, che dispone anche di due mammografi digitali con Tomosintesi. La mammografia digitale con Tomosintesi consente, a differenza di quella eseguita dai mammografi tradizionali (o bidimensionali), l’acquisizione in 3D delle immagini mammografiche, sezionando, come una TC, in strati sottilissimi, il volume della mammella.

Secondo studi più recenti – spiega ancora il primario – questa metodica è in grado di incrementare significativamente sensibilità ed accuratezza diagnostiche nelle neoplasie non palpabili. Inoltre, i mammografi sono dotati di Stereotassi con Tomosintesi, sistema che consente di ‘guidare’ le procedure interventistiche mini-invasive della mammella, come il centraggio preoperatorio o come il sofisticato prelievo di tessuto mammario con tecnica ‘vuoto assistita’, in modo molto più veloce e preciso”.

L’esame senologico all’ospedale di Negrar prevede di routine anche l’ecografia grazie alla disponibilità di due apparecchi di alta fascia tarati specificatamente per la senologia. Vi accedono tutte le donne dopo aver effettuato la mammografia o come primo esame per quelle giovani (sotto i 30 anni) che non presentano sintomi.

La Sezione di Senologia ha, inoltre, accesso a tre apparecchi di Risonanza Magnetica ad alto campo (1,5 Tesla).

Nel 2016 sono state seguite circa 15mila donne e sono stati condotti: 13mila esami senologici completi, 655 aghi aspirati, 365 prelievi con tecnica “vuoto assistita” (con guida Ecografica, Tomografica o di Risonanza Magnetica), e 350 indagini RM delle mammelle con mezzo di contrasto

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Il Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica di Verona e Rovigo presenta la sua attività

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Giovedì 7 dicembre il Comitato Etico delle due province venete e il Nucleo di Ricerca Clinica si confrontano in un convegno con tutti gli attori della sperimentazione clinica

L’attività del Comitato Etico per la Sperimentazione Clinica (CESC) delle province di Verona e Rovigo sarà presentata giovedì 7 dicembre in un convegno all’ospedale Sacro Cuore Don Calabria(vedi programma allegato). L’incontro rientra tra le iniziative di formazione in materia di sperimentazione clinica promosse dai Comitati Etici e destinate agli operatori sanitari e si propone di presentare le procedure e le modalità di lavoro del CESC e del Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar. L’obiettivo dell’incontro è quello formulare proposte condivise di miglioramento – a partire da un confronto aperto tra sperimentatori, promotori e Regione Veneto – sulle criticità nell’iter autorizzativo di una sperimentazione.

I componenti dei CESC sono tecnici/specialisti (medici, farmacisti, bioeticisti, statistici, solo per citarne alcuni), ma anche rappresentanti dei malati. E sono proprio i pazienti ad essere al centro dell’interesse dei Comitati Etici per la Sperimentazione Clinica, come viene sottolineato dal decreto ministeriale di istituzione dei CESC, secondo il quale i Comitati Etici sono “organismi indipendenti che hanno la responsabilità di garantire la tutela dei diritti, della sicurezza e del benessere delle persone in sperimentazione e di fornire pubblica garanzia di tutela”. Tutelano quindi i malati che entrano in uno studio clinico sperimentale, ma anche tutti noi come possibili fruitori in futuro di quel farmaco o di quel dispositivo medico, quando approvati.

Ogni nuovo farmaco per essere immesso in commercio deve superare quattro fasi di valutazione clinica, ognuna delle quali necessita di specifici protocolli di sperimentazione che devono essere presentati e approvati dai Comitati Etici. Si inizia dalla prima fase su volontari sani o su categorie mirate di pazienti che richiedono una certa terapia (oncologici o patologie rare), per passare alla seconda e alla terza fase che riguardano l’efficacia e la sicurezza dell’impiego del farmaco. La fase conclusiva, la quarta, viene definita “post-marketing” e consiste nel monitoraggio del farmaco sulla popolazione generale per evidenziare eventuali effetti non riscontrabili in popolazioni mirate.

Il parere del CESC è vincolante e si basa sulla garanzia che i pazienti vengano informati sui rischi e sui benefici a cui potrebbero andare incontro con la partecipazione agli studi clinici sperimentali. Ma esso mira anche a far comprendere che la corretta rilevazione dei dati e la precisa interpretazione dei risultati da parte degli sperimentatori possono portare a vantaggi che vanno oltre il singolo individuo, ma coinvolgono l’intera società.

La valutazione dei CESC può riguardare protocolli non solo su farmaci ma anche su dispositivi medici o nuove procedure terapeutiche.

I protocolli sperimentali o osservazionali, una volta approvati dal CESC, richiedono un monitoraggio che viene svolto prevalentemente dagli sponsor degli studi e dai Nuclei per la Ricerca Clinica (NRC), presenti a Verona presso l’ULSS9, l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona e l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

Compito del NRC è verificare la correttezza del protocollo di sperimentazione, coordinarsi con gli sperimentatori sulla stesura del protocollo e completezza della documentazione, presentare gli studi al CESC, monitorare la sperimentazione nel tempo e formalizzare i contratti con gli sponsor degli studi clinici.

La segreteria del CESC, invece, verifica tutta la documentazione, struttura l’istruttoria per i componenti del comitato, tiene i contatti con gli enti regolatori (AIFA, ISS, Ministero della Salute),con gli sponsor e con i NRC, redige i verbali che danno avvio alla sperimentazione.

Nel corso del 2016 il “Sacro Cuore Don Calabria” si è collocato al secondo posto tra i centri afferenti al CESC delle province di Verona e di Rovigo dopo l’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona. A novembre del 2017 sono 81 gli studi su cui ha lavorato il Nucleo per la Ricerca Clinica di Negrar per la presentazione al CESC.


Quando la disabilità arriva all'improvviso

In occasione della Giornata internazionale della disabilità, che si celebra il 3 dicembre, siamo andati nel reparto di Riabilitazione Intensiva dove vengono ricoverati per lunghi mesi i gravi lesionati midollari e le persone colpite da trauma cranico.

Il reparto di Riabilitazione Intensiva dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria è abitato da uno dei tanti volti della disabilità. Quella che una persona non porta con sé dalla nascita, ma arriva all’improvviso per un evento traumatico o per una patologia neurologica acuta. Un fulmine che trasporta repentinamente l’individuo da uno stato di benessere e di piena autonomia alla parziale o totale dipendenza.

La struttura è costituita dall’Unità Gravi Cerebrolesi e dall’Unità Spinale, dove afferiscono le persone con lesioni midollari. Giungono a Negrar, circa 110 all’anno, dalla Terapia Intensiva Neurochirurgica o dalla Neurochirurgia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Verona con l’obiettivo di raggiungere la migliore qualità di vita in relazione alle mutate condizioni di salute.

Sono soprattutto giovani vittime che presentano danni neurologici acuti dovuti a traumatismo o eventi ischemici, emorragici, tumorali, infiammatori, infettivi o per mancanza di ossigeno a causa di infarto. Il lavoro di riabilitazione è una salita che dura in media quattro e sette mesi rispettivamente per i lesionati midollari paraplegici e quelli tetraplegici e tre mesi per i pazienti cerebrolesi.

L’attività dei medici di reparto – ne fanno parte un internista, un neurologo, due neurochirurghi e due fisiatri – è quella di, in stretta collaborazione con il personale infermieristico e di supporto, ricercare una stabilizzazione clinica del paziente affinché possa utilizzare al meglio le capacità residue per ridurre la dipenza.

La presa in carico del paziente è multidisciplinare: un’équipe composta da psicologa, fisioterapista del motorio e del cognitivo, infermiere, assistente sociale, medico, logopedista, arteterapeuta favoriscono la creazione di un programma personalizzato non solo dal punto di vista riabilitativo, ma per il reinserimento in famiglia, nella scuola e nel mondo del lavoro. In altre parole per aiutare il paziente a “nascere” una seconda volta, ad avere una vita completa nonostante la disabilità.

Un traguardo in generale non facile da raggiungere in un mondo in cui le barriere fisiche e sociali stentano a cadere, come viene ribadito ogni anno il 3 dicembre in occasione della Giornata internazionale delle persone con disabilità.

“Per comprendere di cosa hanno bisogno le persone affette da una disabilità acquisita di cui io mi occupo – spiega il dottor Giuseppe Armani, direttore del reparto – è necessario focalizzarsi sia su cosa queste persone hanno perso. La loro vita e quella delle loro famiglie è stata improvvisamente sconvolta. I risvolti psicologici sono enormi, ma spesso ci si dimentica di quelli pratici che se non risolti comportano delle ripercussioni importanti sul paziente e sul suo nucleo familiare”.

Il problema si presenta soprattutto al momento delle dimissioni dall’ospedale.

“I più giovani quasi sempre fanno ritorno a casa – prosegue -. Ma spesso i genitori sono anziani e, a causa della mutazione storica della famiglia, non sono supportati da una rete parentale allargata. Lo stesso problema si presenta al coniuge. Ancora più difficile è la situazione di chi vive da solo”. A tutto questo si aggiunge l’impegno economico per riadattare la casa alle nuove esigenze o addirittura per trasferirsi in un alloggio più adatto.

“Come ospedale “Sacro Cuore” siamo collegati con il Centro Polifunzionale Don Calabria di Verona – spiega ancora il dottor Armani – che comprende un Presidio di Riabilitazione extraospedaliera realtà del Dipartimento Riabilitativo, di cui facciamo parte e diretto dal dottor Renato Avesani. Qui diversi nostri pazienti, una volta dimessi, proseguono la riabilitazione dal lunedì al venerdì, ritornando nelle loro case solo nel fine settimana. Sicuramente è un elemento di sollievo per le famiglie e offre al paziente la possibilità di consolidare il recupero motorio e cognitivo ed apprendere autonomie elevate”.

E i pazienti anziani? “Per loro le dimissioni coincidono spesso con l’ingresso in casa di riposo – continua il medico -. Ma il passaggio non è semplice a causa della quota sanitaria che talora rimane a lungo a carico del paziente. E’ una situazione che mette in serie difficoltà le famiglie e un costo inutile per il Servizio sanitario nazionale. Questi pazienti talora rimangono impropriamente in ospedale anche se il loro percorso riabilitativo si è concluso e, come sappiamo, un posto letto ospedaliero pesa sul bilancio molto di più che l’inserimento in una casa di riposo. Bisognerebbe prevedere l’erogazione di quote sanitarie per il ricovero in strutture protette in relazione alle effettive richieste sul territorio”.

I diritti delle persone disabili rimangono quindi ancora sulla carta? “Lavoro da 27 anni in questo ambito – risponde il dottor Armani – e ho visto un’evoluzione culturale di inclusione della persona disabile. Tuttavia molto resta da fare. Ad iniziare da un sistema che faciliti fisicamente l’accesso e la permanenza in ospedale, nei reparti e ai servizi. Sul piano ancora del reinserimento o ricollocamento lavorativo. O nella scuola dove dovrebbero essere implementate figure di sostegno e di assistenza. E infine nel supporto alle famiglie. Noi aiutiamo le persone a riprendere la maggiore autonomia possibile, ma fuori dall’ospedale ci devono essere le condizioni perché sia pienamente realizzata”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Nella foto parte l’équipe del reparto di Riabilitazione Intensiva: da sinistra Anna Scarpa, dottoressa Silvia Richelli, dottoressa Marcella Rossi, Caterina Sartori, dottor Giuseppe Armani, dottoressa Monica Baiguini, dottor Mauro Menarini, Debora Zanotti, Mariangela Fracaroli, Veronica Hasford, Simone Bajardo, dottor Luigino Corradi

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Sessualità e oncologia: è ora di parlarne

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Il cancro e le terapie per combatterlo spesso si insinuano nella sfera più intima del paziente oncologico, minandone il benessere psicologico. Un convegno al “Sacro Cuore” mette in rilievo quanto il problema meriti l’attenzione di medici e psicologi

A Carla è stato diagnosticato un tumore al seno. Non ha ancora affrontato l’intervento e le successive cure, ma già pensa che ci saranno gravi conseguenze sul suo essere donna e sulla sua vita di coppia, nonostante il marito manifesti nei suoi confronti un atteggiamento rassicurante e protettivo.

Il nome della paziente è di fantasia, ma non la storia. Si tratta di una tra le tante che il dottor Giuseppe Deledda, responsabile del Servizio di Psicologia Clinica, raccoglie durante i suoi colloqui al primo piano dell’ospedale Don Calabria. Storie di vita che dimostrano quanto quella sessuale sia una sfera in cui il cancro si insinua, anche se non colpisce direttamente organi interessati a questa funzione.

“Il tema della sessualità relativa al paziente oncologico è da sempre poco affrontato nonostante sia molto importante – spiega il dottor Deledda – . La persona malata di cancro durante i suoi percorsi oncologici vive forti ripercussioni in ambito sessuale e inevitabilmente li vive la coppia. Come qualsiasi perdita, anche quella della salute mette in discussione la nostra identità. Provoca cambiamenti nell’immagine corporea, quindi mina la fiducia di piacere all’altro. Tutto questo si ripercuote sulla sessualità e viceversa, perché non essere più in grado o avere difficoltà nei rapporti intimi ha conseguenze sull’identità e su come viene visto il proprio corpo. La sessualità è una sfera non secondaria della nostra vita – sottolinea -. Se subentrano problemi in questo ambito, ne risente tutto il benessere psicologico che per un paziente oncologico è ancora più importante al fine di affrontare la malattia”.

Di sessualità ed oncologia si parlerà lunedì 4 dicembre al “Sacro Cuore Don Calabria” in occasione del convegno organizzato dal Servizio di Psicologia Clinica di Negrar con la Società italiana di Psico-oncologia (Sezione Veneto Trentino Alto Adige), di cui il dottor Deledda è coordinatore, e con la collaborazione e il contributo dell’Ordine degli Psicologi del Veneto e di Trento. (vedi programma)

“La mattinata si aprirà con un’esposizione generale delle varie teorie sull’immagine corporea e della sessualità – illustra il dottor Deledda -. Teorie che poi verranno calate nell’ambito della psiconcologia. La seconda sessione, invece, avrà come protagonisti i medici, oncologi e chirurghi che ci spiegheranno l’impatto dei trattamenti per la cura del tumore sulla sessualità anche alla luce dei farmaci oncologici innovativi e delle tecniche chirurgiche conservative. Si parlerà di neoplasie che colpiscono specificatamente l’uomo e la donna, ma anche di altre forme di cancro – sottolinea -. Infatti spesso le cure farmacologiche provocano cambiamenti fisici, come, per esempio, il gonfiore provocato dal cortisone, o cutanei. Credo che sia molto importante che anche gli psicologi siano informati sull’aspetto medico, per meglio comprendere le ripercussioni psicologiche delle terapie sul paziente”.

Così come, prosegue lo psicologo, “è bene che il medico conosca i disagi psicologici che derivano dagli effetti relativi alla cura della malattia per non fare l’errore di considerarli secondari e per trovare, in collaborazione con lo psiconcologo, le strategie che meglio si adattano a ogni paziente per superarli”.

La giornata avrà come relatore d’eccezione Mary Hughes dell’Anderson Cancer Center di Houston (Texas), infermiera specializzata nell’ambito della sessualità, che terrà una lezione magistrale sulla sessualità e l’intimità dopo il cancro, illustrando le modalità da mettere in atto per il benessere del paziente e quindi della coppia.

Il convegno si concluderà con il conferimento dell’onorificenza SIPO alla dottoressa Eleonora Capovilla, responsabile dell’UOS di Psicologia dell’Istituto Oncologico del Veneto, fondatrice nel Veneto della Società Italiana di Psicologia Oncologica.

elena.zuppini@sacrocuore.it

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Cancro al retto: crescono sopravvivenza e qualità di vita con l'innovazione chirurgica

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Venerdì 1 dicembre a Verona i maggiori specialisti italiani e alcune personalità a livello internazionale faranno il punto sulle più innovative tecniche chirurgiche per la cura del tumore al retto, tra cui l’asportazione del cancro per via transrettale

Sono oltre 15mila (circa 1.300 nel Veneto) i nuovi casi di tumore al retto stimati per il 2017 in Italia (dati Associazione Italiana di Oncologia Medica). Sempre secondo stime saranno 250 le nuove diagnosi nella provincia di Verona nell’anno in corso.

Ma la neoplasia che colpisce la parte finale dell’intestino fa meno paura. In Italia la sopravvivenza media a cinque anni ha infatti raggiunto la percentuale del 62% (dati AIOM) anche per gli stadi più avanzati, con risultati leggermente superiori in Veneto. E i trattamenti chirurgici sono sempre meno invasivi, consentendo al paziente una buona qualità di vita.

L’obiettivo nei prossimi anni di tutti gli specialisti coinvolti nella diagnosi e nella cura di questo tumore (oncologi, endoscopisti, radioterapisti e chirurghi) è quello di promuovere la prevenzione, la diagnosi precoce e di trattare questa patologia con un approccio multidisciplinare nell’ottica di aumentare ulteriormente sopravvivenza e qualità di vita, anche grazie all’evoluzione delle tecniche chirurgiche.

Sullo “Stato dell’arte nel trattamento delle Malattie del retto. Approfondimenti di tecnica chirurgica” si confronteranno venerdì 1 dicembre alla Gran Guardia i maggiori specialisti italiani di chirurgia e personalità di rilievo internazionale (vedi video-intervista di presentazione).

Ad organizzare il congresso, giunto alla seconda edizione, è la Chirurgia Generale dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, che ha sviluppato negli anni metodiche chirurgiche laparoscopiche e robotiche di eccellenza.

Relatore illustre del simposio sarà Roel Homps dell’Oxford University Hospital, uno dei massimi esperti al mondo di un’innovativa tecnica chirurgica, eseguita da pochi centri specializzati, tra cui quello di Negrar, che consente l’asportazione del tumore per via transrettale.

Interverranno anche i professori Eric Roullier e Joel Leroy, esponenti della maggiore scuola europea di laparoscopia, che si trova a Strasburgo.

Inoltre saranno presenti l’oncologa Stefania Gori, presidente dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica e direttore dell’Oncologia di Negrar; Francesco Corcione e Paolo De Paolis, rispettivamente past president e presidente eletto della Società Italiana di Chirurgia; Claudio Bassi, direttore della Scuola di specialità in Chirurgia dell’Università di Verona; Pierluigi Marini presidente ACOI (Associazione Chirurghi Ospedalieri Italiani); Gianandrea Baldazzi, presidente SICOP (Società Italiana Chirurgia nell’Ospedalità Privata, e Paolo Del Rio presidente SICO (Società Italiana Chirurgia Oncologica).

Ma il 1° dicembre non si parlerà solo di chirurgia. Una sessione sarà dedicata ai protocolli ERAS (Enhanced Recovery After Surgery), un nuovo approccio multidisciplinare all’intervento chirurgico che ha come obiettivo una migliore ripresa del paziente dopo l’operazione grazie anche a una particolare attenzione della fase pre-operatoria. L’utilizzo intensivo della chirurgia mini-invasiva abbinato ai protocolli ERAS porta la degenza del paziente da 10 a 5 giorni, con notevoli vantaggi per il paziente stesso e una riduzione dei costi sanitari.

Ma il tumore al retto non è solo chirurgia, ma anche prevenzione e diagnosi precoce. Nel video il dottor Giacomo Ruffo risponde alle domande su questa neoplasia,


L'Opera Don Calabria compie 110 anni

La sera del 26 novembre 1907 i primi sette orfani raccolti da don Calabria si trasferivano in una Casa vicino alla chiesa di San Giovanni in Valle. Iniziava così l’Opera del sacerdote veronese, oggi diffusa in undici Paesi e quattro continenti

Dopo aver recitato il rosario e ricevuto la benedizione di don Calabria nella sacrestia di San Benedetto al Monte, un gruppetto di ragazzi, infreddolito e imbacuccato, ciascuno con un suo fagottello di biancheria in spalla, si incammina verso la nuova sede. Con semplicità, senza inaugurazioni né nastri da tagliare, inizia l’Opera dei «Buoni Fanciulli». È la sera del 26 novembre 1907“. (M. Gadili, San Giovanni Calabria, Edizioni San Paolo, 1999)

 

Quei ragazzi imbacuccati, sette in tutto, erano i primi orfani raccolti da don Calabria. E la nuova sede dove si incamminavano era una casa di Vicolo Case Rotte, vicino alla chiesa di San Giovanni in Valle, a Verona. Fino a quel momento i ragazzi erano stati ospiti a casa di don Calabria, grazie all’aiuto della mamma del sacerdote, la signora Angela Foschio. Ma la sera del 26 novembre 1907, esattamente 110 anni fa, finalmente don Calabria aveva potuto affittare una casa tutta per loro. Era l’inizio di quella che oggi è chiamata “Opera Don Calabria”.

 

Il giorno dopo il Fondatore scriveva queste parole in una lettera all’amico don Pio Vesentini:

Mio caro don Pio, in tutta confidenza e amicizia ti do una confortante notizia, il cavolo è piantato, ieri a San Giovanni in Valle fu aperta la piccola casetta. Iddio fino adesso ha condotto bene le cose; là ci sono sette ragazzi, e con loro abita il curato locale don Diodato Desenzani…“.

 

Ben presto il numero di ragazzi iniziò a crescere. Dopo pochi mesi erano già una ventina. Fu così che meno di un anno dopo, nel novembre 1908, l’intera comitiva si trasferì in una casa ben più grande, acquistata grazie all’aiuto del conte Francesco Perez: era la casa di San Zeno in Monte. E poi l’Opera continuò a svilupparsi, con l’apertura di filiali dapprima in Veneto, poi in Italia, infine nel mondo. Tra queste filiali anche l’ospedale di Negrar, che venne affidato a don Calabria nel 1933 e che tuttora fa parte dell’Opera.

 

Oggi le Case calabriane sono presenti in 11 Paesi e in quattro continenti: Italia, Romania, Portogallo, Angola, Kenya, India, Filippine, Brasile, Argentina, Paraguay e Uruguay.

 

I 110 anni di fondazione dell’Opera, in questa domenica 26 novembre, saranno celebrati nella Casa Madre di San Zeno in Monte alle 10,30 con una S. Messa presieduta dal vescovo di Verona mons. Giuseppe Zenti, con la partecipazione del Casante padre Miguel Tofful.

DIDASCALIE:

In copertina: Buoni Fanciulli a S. Zeno in Monte nel 1908

Foto 01: la prima Casa Buoni Fanciulli

Foto 02: Don Calabria e i Buoni Fanciulli nel 1908

Foto 03: I primi ragazzi insieme a un giovanissimo Luigi Adami (con la barba al centro)

Foto 04: Don Calabria e don Desenzani

Foto 05: Angela Foschio, mamma di don Calabria


Il "Sacro Cuore" è vicino a Verona, anche senza auto

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Da quasi otto anni è attivo un servizio di bus urbano con fermata davanti all’ospedale di Negrar. Un prezioso collegamento anche per i numerosi pazienti che provengono da fuori città o regione con il treno o l’aereo. Ecco tutte le informazioni

Scriveva il quotidiano “L’Arena”: “… durante i primi sei mesi di sperimentazione i cittadini potranno dimostrare il loro gradimento”. Era il 19 gennaio dl 2010. Il giorno prima era stato inaugurato il prolungamento della linea 21 degli autobus urbani fino al Negrar, il paese della Valpolicella veronese dove ha sede l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria.

Considerando che ormai sono trascorsi quasi otto anni e soprattutto il numero degli gli utenti che ogni giorno giungono con i mezzi pubblici all’ospedale di Negrar, si può affermare che il gradimento è salvo. La linea 21 è infatti un prezioso collegamento per i veronesi con l’ospedale che si trova a circa 13 chilometri dal centro, ma anche per i numerosi pazienti che giungono da altre città con il treno o con l’aereo: circa il 25,5% di coloro che scelgono di curarsi al “Sacro Cuore” provengono da fuori regione.

La linea 21, infatti, collega direttamente la Stazione ferroviaria di Porta Nuova con Negrar. La Stazione è anche la fermata di partenza e di arrivo della navetta di collegamento con l’areoporto Catullo di Villafranca (ogni 20 minuti).

La durata del percorso con il 21 da Porta Nuova (marciapiede D2) al “Sacro Cuore Don Calabria” è di circa 45 minuti, mentre la frequenza tra una corsa e l’altra è di circa 40. Il biglietto (Tariffa 3, euro 2,80 per una durata di 90′) può essere acquistato anche a bordo. Gli orari si possono trovare qui allegati, facendo attenzione alle variazioni del sabato. La domenica subentra il numero 93 (frequenza ogni ora, marciapiede D2, orario allegato).

Da Negrar fino alla Stazione transita anche un servizio extraurbano (ma il biglietto e il costo sono gli stessi), il 104 con frequenza più rada (orario allegato). Per altre informazioni www.atv.verona.it


Il difficile accesso ai farmaci per le malattie tropicali in Italia

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Crescono i casi di patologie d’importazione nel nostro Paese, ma i farmaci per curarle devono essere richiesti all’estero per ogni paziente. Un congresso a Verona dove si confronteranno gli specialisti e le istituzioni per trovare possibili soluzioni

Sono 17 le malattie che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha classificato come neglette. Rientrano nello stesso elenco non tanto perché sono clinicamente simili, ma perché godono di “scarso interesse”. Da parte dei ricercatori, delle autorità politiche e sanitarie competenti, di chi sovvenziona la ricerca e l’innovazione.

 

 

Crescono i casi di Malattie Tropicali

Sono patologie che gravitano nel Sud del mondo o meglio gravitavano solo nel Sud del mondo, perché con l’incremento dei viaggi internazionali e l’intensificarsi del fenomeno migratorio, si moltiplicano anche in Occidente i casi di patologie d’importazione. E l’Italia non fa eccezione.

 

Ma in Italia non ci sono i farmaci

Eppure, nonostante il quadro epidemiologico nel nostro Paese sia fortemente cambiato, in Italia (ma la situazione è simile anche in altri Paesi europei), i farmaci per la cura di queste patologie non godono dell’autorizzazione per l’immissione in commercio. Si tratta di farmaci dichiarati “essenziali” dall’Organizzazione Mondiale della Sanità ma non fanno parte dei farmaci che nel prontuario nazionale sono a disposizione dei cittadiniIl che significa che per curare un paziente è necessario importare il farmaco dall’estero. La normativa lo permette, ma l’iter non è semplice e la tempistica non è di certo breve. Così a cimentarsi sono i più importanti centri di Malattie Tropicali o Infettive, per i piccoli ospedali è molto più complicato.

 

Gli specialisti in un congresso a Verona

L’accesso ai farmaci essenziali per le malattie tropicali in Italia, è il tema sul quale i maggiori specialisti di Medicina Tropicale si confronteranno a Verona con le istituzioni sanitarie in un convegno promosso dal Centro per le Malattie Tropicali dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria, diretto dal professor Zeno Bisoffi. L’appuntamento è per lunedì 27 e martedì 28 novembre(vedi programma in allegato).

Le proposte alle istituzioni del farmaco

Ci rivolgiamo al ministero della Salute, all’Istituto Superiore della Sanità, all’AIFA e ai Servizi di Assistenza Farmaceutica Regionali, che sono stati invitati al convegno, avanzando delle possibili soluzioni – afferma il professor Bisoffi -. La soluzione migliore rimane l’autorizzazione dell’immissione in commercio di questi farmaci. Poiché oggi la richiesta può essere fatta solo dall’Azienda produttrice, chiediamo venga resa possibile anche al singolo medico o ad altre istituzioni sanitarie. In alternativa siano autorizzati alcuni Centri per l’approvvigionamento, la detenzione e la distribuzione dei farmaci. Oppure, infine, il tutto sia affidato all’Istituto Farmaceutico Militare di Firenze“.

Ivermectina, “wonder drug”

Il titolo della due giorni veronese è emblematico:” Invermectin days”, dal nome del farmaco che due anni fa valse il Nobel della Medicina all’irlandese Campbell e al giapponese Omura, ma che in Italia non è registrato, nonostante sia indicato per molte malattie, tanto da essere definito “wonder drug”.

La strongiloidosi, endemica in Italia

Tra queste la strongiloidosi diffusa in area tropicale, ma endemica anche in Italia. E’ dovuta a un parassita presente nei terreni agricoli prima che fosse proibito concimarli con feci umane. Si stima che solo nelle regioni del Nord siano migliaia i casi presenti nella popolazione anziana nata dopo la seconda guerra mondiale e che era solita camminare a piedi scalzi nell’infanzia. A questi si sommano i casi dei giovani migranti che arrivano in Italia. La strongiloidosi può essere asintomatica o presentare sintomi banali, come il prurito, ma quando per qualsiasi motivo le difese immunitarie vengono compromesse favorendo la proliferazione del parassita, la malattia, se non viene trattata correttamente, è quasi sempre mortale.

La scabbia, basterebbe una pillola…

L’Ivermectina è efficace anche contro la scabbia: è sufficiente una sola dose, ripetuta sue volte per debellare la banale, ma contagiosa infestazione della pelle. Attualmente vengono usate delle lozioni cutanee, di difficile gestione in ambienti come i centri di accoglienza dei migranti, dove la scabbia, per questioni igieniche, è particolarmente diffusa.

La schistosomiasi, 80 casi all’anno a Negrar

Ma il problema non riguarda solo l’Ivermectina. Non è registrato in Italia il Praziquantel per la cura della schistosomiasi, patologia di cui al mondo soffrono 240 milioni di persone. Da essa non è indenne nemmeno il viaggiatore che incautamente si bagna in fiumi o in laghi nelle regioni tropicali. In queste acque vive un parassita che una volta penetrato nel corpo del malcapitato continua a liberare uova che vengono espulse con le feci e con le urine, irritando gravemente gli organi interessati. Il Centro di Negrar negli ultimi sette anni ha seguito circa 500 casi di schistosomiasi, un’ottantina all’anno. “Solo il 10% sviluppa complicanze molto gravi – afferma il dottor Andrea Angheben della segreteria scientifica del convegno – Ma si tratta nella forma complicata, di ragazzi anche giovanissimi che si ritrovano con un cancro alla vescica o con un quadro simile alla cirrosi epatica. Malattie altamente invalidanti e costose per il sistema sanitario nazionale“.

L’Artesunato più efficace del Chinino per la malaria grave

Capitolo a parte gode l’Artesunato. Non interessa una malattia negletta, ma è il farmaco per eccellenza della malaria grave, quando cioè vi è un coinvolgimento cerebrale o un alto livello di parassitosi. L’Artesunato rispetto al Chinino abbatte il rischio di mortalità del 20% come dimostrano diversi studi di efficacia. Eppure non solo non è registrato in Italia, ma anche in altri Paesi europei in quanto l’Artesunato, prodotto solo in Cina, non riporta la certificazione di Good Manufacturing Practice (GMP) che attesta l’avvenuta produzione secondo determinati criteri vigenti a livello internazionale. Questo induce molti medici a non utilizzarlo, per non esporre il paziente ad eventuali rischi, esclusi tuttavia dalla letteratura medica. Alla malaria sarà dedicata un’intera sessione del congresso anche alla luce dei recenti casi.

“La normativa che consente l’importazione dall’estero – specifica Bisoffi – non risponde alla domanda in termini disponibilità, tempestività e diffusione del farmaco. Infatti il farmaco può essere richiesto unicamente per ogni singolo paziente sotto assunzione di responsabilità da parte del medico e a totale carico dell’ospedale richiedente. Un iter a cui si sottopongono i centri più importanti che vedono centinaia di casi all’anno di queste patologie. Ma è molto complicato per un piccolo ospedale. Inoltre là dove non è disponibile il farmaco, c’è poca sensibilità per la malattia e molti casi non vengono riconosciuti”.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Una giornata dedicata alle mamme e a coloro che lo diventeranno

Ritorna per il secondo anno consecutivo l’Open Day di Ostetricia. L’appuntamento è per sabato 25 novembre dalle 10 alle 17 al Centro Diagnostico Terapeutico di via San Marco a Verona

Un’intera giornata dedicata alle future mamme e a tutte le donne che da poche settimane vivono la grande avventura della maternità. Ma l’invito è esteso anche ai papà e a coloro che presto lo diventeranno. Sabato 25 novembre, il Centro Diagnostico Terapeutico di via San Marco 121 a Verona ospiterà, dalle 10 alle 17, la seconda edizione dell’Open Day di Ostetricia.

Le ostetriche della Ginecologia e Ostetricia, diretta dal dottor Marcello Ceccaroni, e le infermiere della Sezione Neonatale di Pediatria, diretta dal dottor Antonio Deganello, saranno a disposizione per illustrare il Punto Nascita dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria e i servizi offerti in via San Marco a supporto della mamma e del bambino.

Si parlerà anche di parto indolore con l’anestesista dottor Leonardo Bianciardi: alle 11 e alle 15 il medico risponderà alle domande delle gestanti.

Durante la giornata sarà offerto un buffet ed sarà accessibile uno stand con una consulente di “portare i bimbi in fascia”

Al termine dell’evento, Zhannat Akmetova e Giza Group si esibiranno nella danza del ventre i cui movimenti hanno effetti benefici in gravidanza.

Per informazioni: 045.6014844/32.57-ostetriche.sanmarco@sacrocuore.it

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Dalla ricerca genetica e sulle staminali le nuove frontiere della cura del diabete

In occasione della Giornata mondiale del diabete, il diabetologo Luciano Zenari ci illustra le ricerche che potranno dare una vera e propria svolta alla cura della malattia

Sono 235 milioni le persone che nel mondo soffrono di diabete. In Italia i dati parlano di 4 milioni di ammalati e nel Veneto di circa 300mila. Sono i numeri che vengono snocciolati ogni anno, il 14 novembre, in occasione della Giornata mondiale del diabete, dimostrando che malattia è in continua espansione (si stima che nel 2030 i diabetici nel mondo raggiungeranno i 438 milioni), sia nei Paesi cosiddetti ricchi sia in quelli in via di sviluppo. Infatti in quest’ultimi assistiamo ad una progressiva urbanizzazione della popolazione, che comporta sedentarietà e maggiore disponibilità di alimenti. Di conseguenza aumentano i casi di obesità e di diabete mellito.

 

Alimentazione ipocalorica, movimento, mantenimento del peso forma e intervento farmacologico (dove diventa fondamentale) restano i cardini per prevenire e curare una malattia che rimane tra le cause principali delle patologie cardiovascolari, le quali, a loro volta, vantano il triste primato di mortalità nel mondo.Ma è anche la prima causa non traumatica della cecità, dell’amputazione degli arti inferiori e di ingresso in dialisi.

“Il diabete è subentrato come causa di queste complicanze ad altre malattie che attualmente sono gestite in maniera ottimale. Come il glaucoma, che rendeva le persone cieche un tempo, o le glomerulonefriti infantili, che portavano all’insufficienza renale e quindi alla dialisi. Nonostante i progressi delle terapie moderne, il diabete rimane una patologia di difficile gestione“, sottolinea il dottor Luciano Zenari, responsabile del Servizio di Diabetologia del “Sacro Cuore Don Calabria, che ha in cura circa 5000 pazienti.

 

Il diabete richiede un impegno costante sugli obiettivi di cura che non tutti riescono a mantenere – prosegue -. Impegno nell’attività motoria, nell’attenzione a tavola, nel controllo sistematico della glicemia e di tutti i fattori di rischio associati. Inoltre è una delle poche malattie in cui il paziente, una volta istruito, deve gestire in autonomia la posologia della terapia”.

 

Quali sono le maggiori novità in campo farmacologico?

“E’ bene precisare che i farmaci vengono prescritti solo se il cambiamento dello stile di vita non porta a risultati soddisfacenti. Possiamo disporre da tempo di farmaci ipogligemizzanti orali. Di solito la terapia di partenza è la Metformina alla quale si possono associare svariate classi di farmaci, come quella, recente e sempre orale, dei Sglt2, che hanno come effetto la perdita di glucosio attraverso le urine e un conseguente calo ponderale. Un’altra classe di farmaci estremamente interessante è quella delle Incretine (GLP-1) che favoriscono l’abbassamento della glicemia e hanno nello stesso un’azione anoressante, inducendo un senso di sazietà. Le Incretine possono essere iniettate e ultimamente è possibile la somministrazione di una solo iniezione alla settimana, a domicilio”.

Quando questi farmaci non sono sufficienti si deve ricorrere all’insulina?

“Esattamente. La ricerca medica negli ultimi anni ha messo a disposizione insuline più lente e più stabili, che quindi abbattono il rischio della complicanza più importante durante la giornata di un diabetico: l’ipoglicemia, causa di assopimento, calo della vista, incapacità di concentrazione, fino alla perdita di coscienza. Sempre riguardo alla glicemia ci sono delle novità importati nella metodologia di determinazione”.

Quali?

“Si tratta di un ausilio dedicato prevalentemente alle persone colpite da diabete di tipo 1, la forma di malattia meno frequente che insorge in età giovanile e per cui l’insulina è un salva-vita. Dal primo agosto 2017 i pazienti possono avere gratuitamente dal Servizio sanitario regionale un sensore che registra, senza pungersi il dito, la glicemia ogni minuto e archivia i dati fino a un massimo di otto ore. Il sensore, delle dimensioni di una moneta da 2 euro, è dotato di una microfibra che si inserisce sottocute, attraverso un applicatore molto semplice. Per scaricare i dati e decidere in base ad essi quale posologia di terapia assumere è sufficiente passare davanti al sensore con un apposito lettore (vedi foto)”.

In un prossimo futuro saranno a disposizione infusori che misurano il valore della glicemia e automaticamente somministrano l’insulina necessaria?

“La tecnologia ha messo a disposizione microinfusori sempre più piccoli e tecnologicamente avanzati. Un passo definitivo sulla gestione completamente automatica non è stato ancora fatto, ma è un traguardo del prossimo futuro”.

Abbiamo parlato di sviluppo farmacologico e tecnologico. Per quanto riguarda il diabete ci sono anche novità nel campo della ricerca cellulare?

E’ già un fase di sperimentazione avanzata presso un’azienda di biotecnologie di San Diego (California) una ricerca per i pazienti affetti da diabete di tipo 1. A differenza del diabete mellito tipo 2 che ha una base genetico-familiare, quello di tipo 1 è una malattia autoimmune, cioè alcune persone producono, per cause sconosciute, anticorpi che aggrediscono le cellule beta del pancreas, quelle che producono insulina, L’azienda statunitense è riuscita a differenziare le cellule staminali da cordone ombelicale nelle 3 linee cellulari del pancreas, precisamente in alfa cellule, che producono glucagone, in beta cellule e in delta cellule che secernono somatostatina. Questi tre tipi cellulari collocati in un apposito contenitore dalle pareti porose, tali da impedire agli anticorpi, cellule molto grandi, di entrare e aggredire le cellule “pancreatiche” che invece possono vivere e liberare gli ormoni. Il contenitore ha per ora la grandezza di un mezzo bancomat e viene impiantato sottocute”

A che punto è la ricerca?

“Lo studio sul ratto e il cane è andato molto bene. Nel cane ad un anno di distanza le cellule avevano mantenuto il 110% della loro attività secretiva. Attualmente a San Diego è in corso una sperimentazione su 40 volontari, ma stanno partendo sperimentazioni anche in altre Università statunitensi e canadesi. Ricerche simili si stanno svolgendo in Europa utilizzando cellule staminali del pancreas o del midollo osseo. Credo che queste ricerche, se andranno a buon fine, entro 5 anni daranno una svolta alla cura del diabete di tipo 1, in quanto si tratta di una sorta di trapianto del pancreas“.

La speranza quindi è nella ricerca genetica.

“Nei prossimi dieci anni le terapie attuali per il diabete scompariranno, in quanto la componente genetica molecolare sta prendendo il sopravvento. Stiamo assistendo a questo scenario in oncologia, dove la terapia non può prescindere dalla tipizzazione genetica del paziente e del tumore. Eravamo convinti che, per un’anomalia genetica, nel diabete di tipo 2 l’insufficiente produzione di insulina fosse causata dalla degenerazione e dalla morte delle beta cellule. Invece la ricerca ha dimostrato che le beta cellule cadono in una sorta di letargo, in quanto non ricevono dai mediatori i ‘segnali’ per vivere, evolversi e produrre insulina. Il passo successivo ha portato a comprendere che i segnali che dovevano giungere alle cellule erano addirittura errati. Quindi le terapie del futuro si baseranno su anticorpi monoclonali, che non cureranno più la glicemia, ma la beta cellula, affinché produca in maniera ottimale l’insulina. Assisteremo nei prossimi anni, attraverso la tipizzazione genetica, anche ad una sostanziale revisione della attuale classificazione della malattia”.

elena.zuppini@sacrocuore.it

Nella foto di copertina l’équipe del Servizio di Diabetologia dell’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria: Anna Menegazzi (segretaria), dott.ssa Claudia Sorgato, dott. Roberto Tessari, le infermiere Maria Teresa Perlina e Barbara Maistri, Federica Scali (dietista), dott. Luciano Zenari, Loretta Tommasi (infermiera)