Tumori, all’IRCCS di Negrar simposio internazionale sulla radioterapia di ultra-precisione
Dal 19 al 20 febbraio esperti europei e statunitensi hanno tracciato lo stato dell’arte sull’utilizzo di Unity, l’acceleratore lineare integrato con Risonanza Magnetica ad alto campo. Il professor Alongi: “Al “Sacro Cuore” su mille pazienti sottoposti al trattamento con Unity, confermata l’elevata tollerabilità alla terapia con poche rilevanti complicanze. Molte le risposte complete e parziali già ai primi controlli dopo il ciclo di sedute. Con il “gating automatico” possiamo garantire un un’ulteriore precisione con minimo coinvolgimento dei tessuti sani anche per quei tumori che colpiscono organi che si muovono a causa del ritmo respiratorio”
L’IRCCS di Negrar si conferma centro di riferimento internazionale per la radioterapia oncologica. Per due giorni, dal 19 al 20 febbraio, esperti europei e statunitensi hanno tracciato lo stato dell’arte dell’impiego di Unity, l’acceleratore lineare integrato con Risonanza Magnetica ad alto campo (1,5 Tesla), che consente trattamenti radioterapici di ultra precisione, tali da colpire il tumore, salvaguardando il più possibile i tessuti sani.
La multinazionale produttrice di Unity, la svedese Elekta, ha scelto il “Sacro Cuore Don Calabria” per l’incontro internazionale, in quanto centro che per primo in sud Europa e quindi in Italia – era il 2019 – si è dotato dell’innovativa tecnologia, sviluppando in pochi anni un significativo know how. Attualmente Unity è presente in tre ospedali italiani e in 74 in tutto il mondo, di cui, adesso, 30 in Europa
Il simposio in sala Fr. Perez ha visto la partecipazione di 120 iscritti, 45 dei quali stranieri di cui una decina provenienti dagli Stati Uniti. Tra i relatori il professor Martijn Intven del Centro Medico Universitario di Utrecht (Olanda), dove è stato trattato il primo paziente al mondo con Unity nel 2018, il professor Daniel Hyer dell’Università dell’Iowa e la professoressa Michela Buglione degli Spedali Civili di Brescia.
L’apertura dei lavori è stata affidata a Filippo Alongi, direttore della Radioterapia Oncologica Avanzata di Negrar e professore ordinario all’Università di Brescia, che con i suoi colleghi di Dipartimento – il dottor Michele Rigo, radioterapista oncologo, e il dottor Ruggero Ruggeri, fisico medico – hanno illustrato l’attività svolta con Unity sui primi mille pazienti per un totale di oltre 8mila sedute, Gli stessi dati saranno presentati dal professor Alongi al congresso nazionale di Radioterapia Oncologica del Giappone, che si tiene a Tokyo dal 28 febbraio al 2 marzo.
“Il 53% di questi mille casi ha riguardato tumori della prostata, il 25% metastasi, fino a un massimo di 5 lesioni linfonodali e/o ossee. I restanti pazienti erano affetti da neoplasie addominali, come quelle del pancreas o del rene”, sottolinea Alongi. La precisione di trattamento, garantita dall’ottimale definizione delle immagini della Risonanza Magnetica ad alto campo incorporata all’acceleratore lineare, consente di irradiare il tumore ad alte dosi, riducendo così il numero di sedute di trattamento.
“Lo scorso anno abbiamo pubblicato sulla rivista Journal of Personalized Medicine uno studio sui primi 100 pazienti affetti da tumore alla prostata clinicamente localizzata trattati in solo 5 sedute, contro le 20 necessarie solitamente con la radioterapia convenzionale. A 18 mesi in media dalla conclusione del trattamento, abbiamo registrato un solo caso di complicanza degna di nota ,(problematica urinaria) e in più del 90% il PSA (il marcatore biochimico che indica patologie della prostata, tra cui il tumore) si è normalizzato, in linea con le migliori serie di pazienti riportate dalla letteratura scientifica”.
Lo scorso autunno Unity è stato implementato con un software (il “gating automatico”) che consente di sincronizzare il fascio di radiazioni con il respiro paziente, in modo tale da erogare il trattamento solo quando la lesione tumorale è perfettamente nel “mirino”. “Dopo i primi due casi al mondo, con questo sistema avanzato ed integrato di monitoraggio e gestione del movimento, abbiamo trattato più 60 pazienti, Il ‘gating automatico’ è particolarmente indicato quando il tumore colpisce alcuni organi del torace e dell’alto addome. Il pancreas, il fegato e i polmoni – prosegue il professor Alongi – si muovono anche in conseguenza del ritmo respiratorio e ciò modifica la posizione della lesione tumorale e degli organi sani circostanti durante la seduta: queste continue incertezze di movimento riducono, nella radioterapia convenzionale, la possibilità di usare dosi di raggi più intense ed efficaci. Grazie al ‘gating automatico’, invece, il fascio di radiazioni viene sincronizzato con il respiro e viene istantaneamente bloccato se il tumore esce dalla traiettoria del fascio di radiazioni”.
L'IRCCS di Negrar primo centro formatore ERAS in Italia per la chirurgia colo-rettale e bariatrica
Il protocollo chirurgico ERAS si basa su un approccio innovativo e multidisciplinare che mette al centro il paziente anche nella fase pre e post-operatoria del suo percorso. Elementi chiave del protocollo sono oltre alla scelta di un approccio chirurgico mini-invasivo, l’utilizzo ridotto di cateteri e drenaggi e la gestione ottimale del dolore e della nausea che permette la precoce ripresa della mobilizzazione e dell’alimentazione dopo l’intervento chirurgico. Tutto ciò consente un migliore e più rapido recupero funzionale del paziente grazie all’abbattimento delle complicanze mediche, con la conseguente riduzione dei giorni di ricovero da 8,5 a 4,6 per gli interventi al colon-retto e dimissioni entro 48 ore per la chirurgia dell’obesità.
L’IRCCS di Negrar “fa scuola” in Italia e in europa: dopo solo un anno dalla certificazione di centro qualificato, raggiunge un ulteriore e prestigioso traguardo nell’applicazione del protocollo chirurgico ERAS (Enhanced Recovery After Surgery), un percorso di cure che ha come obiettivo la migliore e più rapida ripresa del paziente dopo l’intervento. Il Dipartimento di Chirurgia Generale ha infatti ricevuto la certificazione internazionale di centro formatore ERAS (ERAS® Training Center) per la chirurgia colo-rettale e per il trattamento dell’obesità, che consente alle componenti delle due équipe chirurgiche di formare altri centri europei ed italiani in merito all’applicazione e implementazione del protocollo ERAS che, grazie all’adozione di percorsi-pazienti virtuosi e specifiche tecniche chirurgiche ed anestesiologiche nelle varie fasi peri-operatorie permette di abbattere le complicanze e quindi la durata del ricovero.
“Grazie ad Eras, all’IRCCS di Negrar, infatti, la degenza media è passata da 8,5 giorni a 4,6 per quanto riguarda la chirurgia colo-rettale, mentre per quella bariatrica la media attuale è di 2 giorni contro i 4 prima dell’applicazione del protocollo – afferma il dottor Giacomo Ruffo, direttore della Chirurgia Generale -. In calo significativo anche le complicanze post-intervento che sono passate dal 33 al 19,5%. Rilevanti anche i dati relativi al dolore e alla nausea dopo l’operazione, il cui controllo è fondamentale per la ripresa della mobilizzazione e dell’alimentazione precoci: si è passati rispettivamente dal 12% al 2% e dal 4% all’1,5%”.
“La certificazione di centro formatore è il risultato di un lavoro complesso di più specialisti, non solo chirurghi, che ha portato ad un’adesione al protocollo superiore al 95%, grazie alla quale sono stati ottenuti significativi miglioramenti a vantaggio di tutti i pazienti, ma in particolare per quelli fragili e per coloro che subiscono interventi ad alta complessità – continua Ruffo -. Il prossimo obiettivo è il riconoscimento di centro di eccellenza, di cui si avvalgono una trentina di ospedali in tutto il mondo, raggiungibile con il mantenimento dei risultati ottenuti e implementando ulteriormente il protocollo Eras con percorsi virtuosi, come l’attivazione di un centro antifumo e un percorso peri-operatorio per il paziente anziano”.
Il protocollo Eras è stato adottato ufficialmente dalla chirurgia colo-rettale nel settembre 2021, quando sono stati inseriti i primi pazienti aderenti al percorso sulla piattaforma mondiale della società scientifica. Oggi i pazienti sono 713, ai quali si aggiungono i 228 della chirurgia bariatrica, che ha iniziato il percorso nel 2021.
“Secondo Eras il miglior recupero dopo l’intervento è raggiungibile solo se in ognuna delle tre fasi del protocollo vengono rispettate specifiche linee guida. Di fondamentale importanza è la fase pre-operatoria che si basa sulla preparazione ottimale del paziente attraverso un piano nutrizionale e un percorso di preabilitazione appositamente creati dal nutrizionista e dal fisiatra – spiega la dottoressa Elisa Bertocchi, chirurgo colo-rettale -. Diagnosticate eventuali carenze, viene integrata l’alimentazione con specifici integratori e in caso di anemia, cercata e corretta la causa della stessa”.
La fase operatoria non si limita alla chirurgia mini-invasiva, ma a una serie di procedure anestesiologiche, come la somministrazione di pochi liquidi e l’uso limitato di farmaci oppioidi. “Dalla sala operatoria il paziente esce privo di cateteri e drenaggi, e già nelle ore successive inizia a bere, ad alimentarsi e a muoversi anche grazie a terapie per il controllo del dolore e della nausea – prosegue -. Tutto questo richiede collaborazione da parte dell’équipe multispecialistica e l’adesione attiva e consapevole da parte del paziente a tutto il percorso. Adesione supportata da una un’APP (IColon) che stimola continuamente il paziente ad essere aderente al protocollo e che rappresenta una sorta di diario digitale che consente al medico di monitorare a distanza il paziente dopo le dimissioni e al paziente di rimanere sempre in contatto con il medico”.
“Nella chirurgia bariatrica, ERAS facilita la gestione del paziente, molto spesso giovane e con l’esigenza di tornare al più presto alle attività quotidiane – afferma la dottoressa Irene Gentile, chirurgo bariatrico -. Inoltre, il coinvolgimento attivo è ancora più importante per il paziente affetto da obesità grave per quanto riguarda l’aspetto dell’alimentazione e dell’attività fisica: il calo ponderale è fondamentale sia per la candidabilità all’intervento sia per la buona riuscita dello stesso”.
Una vita libera dalle sigarette: il Centro antufumo dell'IRCCS di Negrar
Attivo presso il Centro Diagnostico Terapeutico di via San Marco 121, il Centro antifumo dell’IRCCS di Negrar. Un percorso prevalentemente psicologico, per migliorare il proprio stato di salute presente e futura e la qualità di vita. Per prenotare un colloquio: telefonare al numero 045.6014844 oppure 045.6013257 (tasto 2) dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 oppure scrivere all’indirizzo e-mail: centroantifumo@sacrocuore.it.
Smettere di fumare: un percorso fondamentale migliorare non solo la salute ma anche la qualità di vita. Tuttavia non si tratta di un cammino facile, e, se fatto in solitudine, può diventare molto spesso impervio. Un aiuto per coloro che vogliono dire addio alle sigarette arriva dal Centro antifumo dell’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria con
sede presso il Centro diagnostico terapeutico in via San Marco 121 a Verona. “Il percorso che proponiamo è di carattere prevalentemente psicologico, basato sulla terapia cognitivo comportamentale di terza generazione”, spiega il dottor Giuseppe Deledda, responsabile della Psicologia clinica dell’IRCCS di Negrar. “Questa forma di terapia psicologica mira a modificare pensieri, emozioni e comportamenti attraverso la rottura di automatismi che sono legati all’abitudine di fumare”.
IL CENTRO ANTIFUMO
Il percorso consiste in 10 sedute di gruppo tenute da uno psicologo, a cui se ne aggiungono altre quattro di follow up. Per prenotare è necessario telefonare al numero 045.6014844 oppure 045.6013257 (tasto 2) dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 17 oppure scrivere all’indirizzo e-mail: centroantifumo@sacrocuore.it. Il percorso è a carico dell’assistito.
“Dopo un breve contatto telefonico, viene fissato un colloquio durante il quale la persona interessata deve rispondere a un questionario per quantificare il grado di tabagismo”, spiega ancora Deledda. “Dove lo si ritenesse necessario, è previsto anche un supporto farmacologico all’interno di un percorso di prevenzione del tumore al polmone”.
PSICOLOGI E MEDICI
L’équipe del Centro antifumo, infatti, è composta oltre che da due psicologici – il dottor Deledda e la dottoressa Anastasia Zocca – anche dal responsabile della Pneumologia, dottor Carlo Pomari, e dal direttore della Chirurgia toracica, dottor Diego Gavezzoli
PERCHE’ DIRE STOP AL FUMO
“E’ noto ormai a tutti che il 90% dei tumori al polmone sono causati dal fumo e che le sigarette aumentano il rischio di contrarre patologie oncologiche in generale poiché la nicotina provoca alterazioni all’interno del Dna della cellula – spiega ancora lo psicologo – Inoltre il tabagismo favorisce l’insorgenza di patologie cardiovascolari e polmonari, Ma non tutti coloro che praticano questa abitudine sono consapevoli che smettere di fumare incide positivamente non solo sull’aspettativa di vita, ma anche la qualità della stessa”.
QUESTIONE ANCHE DI QUALITA’ DI VITA
Per esempio è provato che dopo due giorni dall’“ultima sigaretta” migliora il gusto e l’olfatto alterati dalla nicotina; dopo due settimane i denti e le unghie perdono quell’aspetto giallognolo poco piacevole alla vista, come acquistano più luminosità pelle e capelli. Dopo un mese la capacità polmonare cresce, come il vigore fisico, e per coloro che vogliono diventare genitori smettere di fumare aumenta la capacità di concepimento. Senza scordare che dire no al fumo significa rispettare l’ambiente e risparmiare nell’arco di 10 anni circa 20mila euro.
“Le ragioni per smettere quindi sono tante. Molto spesso la forza di volontà non è sufficiente, ma è necessaria una guida che aiuti a compiere una scelta di valore, qual è una vita libera da fumo” conclude il dottor Deledda.
"Che dolore alla schiena!". Ma l'ernia del disco è spesso silente e l'intervento solo in alcuni casi
L’ernia del disco è responsabile solo di una quota limitata di episodi di mal di schiena. Inoltre, spesso l’ernia è asintomatica e si risolve spontaneamente: l’intervento chirurgico è indicato solo per casi selezionati”, precisa il dottor Gerardo Serra, responsabile del Servizio di Terapia Antalgica. “Casi per cui sono disponibili interventi mini-invasivi, totalmente rispettosi dell’anatomia della colonna”, come la discectomia di cui dell’IRCCS di Negrar si effettuano circa 200 procedure all’anno
Un colpo di tosse, il sollevamento di un peso, ma a volte anche spontaneamente, ed improvvisamente ecco comparire un dolore alla schiena e alla gamba. La diagnosi tanto affrettata quanto popolare è presto fatta: ernia del disco. E la prospettiva dell’intervento chirurgico è già all’orizzonte.
“E’ importante sottolineare che l’ernia del disco è responsabile solo di una quota limitata di episodi di mal di schiena, essendo la patologia vertebrale generalmente complessa e multifattoriale. Inoltre, spesso l’ernia è asintomatica e si risolve spontaneamente: l’intervento chirurgico è indicato solo per casi selezionati”, precisa il dottor Gerardo Serra, responsabile del Servizio di Terapia Antalgica. “Casi per cui sono disponibili interventi mini-invasivi, totalmente rispettosi dell’anatomia della colonna”.
Dottor Serra, ma cosa si intende per ernia del disco?
La nostra colonna vertebrale è costituita da ossa (vertebre), separate da cuscinetti che fungono da ammortizzatori: i dischi vertebrali. Quest’ultimi sono formati da una parte interna morbida (nucleo polposo) avvolto da una corona fibrosa resistente (anulus fibroso). Quando l’anulus si rompe, una piccola porzione del nucleo fuoriesce nel canale spinale, determinando la cosiddetta “ernia del disco”.
Quali sono i sintomi?
Nella maggior parte dei casi non compaiono sintomi. Tante persone scoprono casualmente di avere una o più ernie discali senza mai aver sofferto di alcun dolore. Quando si manifesta con segni e/o sintomi questi sono l’espressione di infiammazione o compressione di una radice nervosa. Il dolore può manifestarsi nel territorio di innervazione del nervo sciatico (lombosciatalgia) coinvolgendo il gluteo e la parte posteriore della coscia e postero-laterale della gamba fino alla caviglia o il territorio di innervazione del nervo crurale (lombocruralgia) coinvolgendo la regione antero-laterale della coscia.
Di fronte ad una sciatalgia, come si deve procedere?
Un’accurata visita medica serve a riconoscere eventuali segni e sintomi indicativi di malattie sistemiche, infiammatorie, neoplastiche, infettive e neurologiche. Escluse queste cause, il corretto modo di procedere è di attendere almeno 4-6 settimane dall’insorgenza dei sintomi prima di eseguire esami radiologici. La Risonanza Nucleare Magnetica della colonna lombosacrale deve essere prescritto dopo solo 4-6 settimane di trattamento farmacologico, in pazienti con sintomi e segni di compressione radicolare sufficientemente gravi da far considerare la possibilità dell’intervento chirurgico.
Per quanto riguarda la terapia?
E’ importante mettere in atto delle strategie terapeutiche che permettano, controllando adeguatamente il dolore, di mantenere una vita attiva. La terapia conservativa prevede quindi l’utilizzo di farmaci antinfiammatori, steroidi e analgesici. Estremamente efficace si rileva l’iniezione di corticosteroidi per via epidurale. Con guida radiologica si inietta una miscela di farmaco anestetico e cortisone in prossimità della radice nervosa infiammata. Questa procedura è eseguita quotidianamente presso il nostro Centro. Una-due infiltrazioni, nell’80 per cento dei pazienti, sono sufficienti a risolvere la sintomatologia dolorosa radicolare.
Quando è indicato l’intervento chirurgico?
A parte la rara situazione in cui l’ernia del disco comprimendo e danneggiando le radici nervose della cauda determina deficit neurologici gravi (Sindrome della cauda), che quindi richiede un trattamento chirurgico urgente (24-48 ore), viene considerato l’intervento chirurgico nei seguenti casi: durata dei sintomi superiore a sei settimane; dolore persistente, non rispondente al trattamento farmacologico, e comparsa di deficit motorio progressivo.
L’intervento in cosa consiste?
Dallo storico intervento di laminectomia eseguito il 31 dicembre del 1932 da William Mixter, di strada ne è stata fatta parecchia, passando dagli interventi di discectomia standard alla microdiscectomia con microscopio alla più recente discectomia endoscopica. Il concetto è quello di evitare il più possibile di alterare l’anatomia della colonna e di creare esiti cicatriziali (fibrosi) con dissezioni chirurgiche. L’intervento di discectomia endoscopica è quello praticato maggiormente. Il Servizio di Terapia Antalgica dell’IRCCS di Negrar effettua circa 200 procedure all’anno
Cos’è la discectomia endoscopica?
La discectomia endoscopica trans-foraminale è sicuramente la procedura chirurgica meno invasiva per rimuovere l’ernia del disco lombare. Eseguibile in anestesia locale, permette con approccio mini invasivo endoscopico la rimozione del materiale erniato. Il chirurgo, servendosi di strumentazione specifica entra in contatto con il materiale erniato passando attraverso un foro anatomicamente già esistente, il forame di coniugazione, evitando quindi di dover lesionare strutture ossee e muscolari.
Quali sono i vantaggi del trattamento endoscopico?
Prima di tutto il trattamento mini invasivo percutaneo mantiene la totale integrità della strutture anatomiche della colonna, non creando instabilità ed evitando formazioni di dolorose esiti cicatriziali spinali (aderenze post operatorie). E’ possibile, inoltre, trattare pazienti già operati con tecnica tradizionale (recidiva di ernia) e il dolore post operatorio è inesistente, permettendo una dimissione precoce (24 ore). Infine la possibilità di eseguire la procedura in anestesia locale consente di trattare anche pazienti con gravi patologie concomitanti (malattie respiratorie, cardiovascolari, grandi obesi).
Mentre quali sono i limiti?
Come tutti gli interventi chirurgici esistono dei limiti all’esecuzione della procedura. Gravi deformazioni anatomiche, quali la spondilolistesi e la stenosi del canale spinale, ernie L5 S1 con migrazione craniale o con creste iliache “alte” sono contronidicano l’utilizzo di questa metodica.
I centoquattro anni di Rosa, una dei primi operatori sanitari del Sacro Cuore
Classe 1920 e occhi ancora accessi di curiosità. Rosa Mazzi, ospite di Casa Nogarè, ha festeggiato i suoi 104 anni, circondata dalla sua famiglia, nipoti e operatori e ospiti della casa di riposo dove vive. La sua lunga vita si è intrecciata anche con quella di San Giovanni Calabria. Era infatti assistente di poltrona di Bartolomeo Bacilieri, il dentista di Don Calabria, uno dei primi medici che hanno esercitato al Sacro Cuore.
Il tempo ha lavorato sul suo corpo, ma, tra un ricamo e l’altro, ha risparmiato gli occhi che sono rimasti profondi, luminosi e accesi di curiosità. Forse la stessa curiosità di quando saliva i sentieri delle sue amate montagne o di quando il Maestro le porgeva lo spartito di un nuovo brano. Quelli di Rosa Mazzi sono occhi che hanno visto 104 anni di vita e di storia, festeggiati a Casa Nogarè lo scorso 1° febbraio. Oltre un secolo, durante il quale l’umanità ha toccato le vette più alte del progresso ed è precipitata negli abissi più profondi dell’odio.
A raccontarci di Rosa è la nipote Maria Bacilieri. Della zia dice che è sempre stata una donna dalla forte personalità, ma nello stesso tempo molto gentile e buona, sempre disposta ad aiutare gli altri. Anche qui si distingue per la sua bontà”.
Originaria di Lugagnano, Rosa è la quarta di sei fratelli. La più “piccola” delle sorelle compirà 101 anni il prossimo maggio (vive ancora da sola), mentre la più grande, Annunciata, era la mamma di Maria.
“La zia non si è mai sposata. Per molti anni ha vissuto anche in casa con noi insieme alla sua mamma, mia nonna, ed è stata assistente di poltrona di mio papà che faceva il dentista”. E qui la storia di Rosa si intreccia con quella di San Giovanni Calabria e dell’ospedale Sacro Cuore. Perché quel dentista, il dottor Bartolomeo Bacilieri – nipote dell’omonimo cardinale, vescovo di Verona dal 1900 al 1923 – era il dentista di don Calabria, colui al quale il Santo “chiese di esercitare a Negrar due volte alle settimana – racconta Maria –. Mio padre lo fece dal 1953 per 27 anni, con Rosa accanto, curando i pazienti gratuitamente e assistendo ai primi passi dello sviluppo dell’ospedale. Don Calabria nella nostra famiglia è sempre stato una presenza costante: ricordo quando da bambina si recitava in famiglia il Rosario. Ogni volta mia mamma diceva: “Diciamo ‘un Pater, ave e gloria’ per don Calabria e per tutta l’Opera. A noi bambini l’espressione divertiva, ma era come rivolgersi al Signore per proteggere un amico”.
Una vita piena quella di Rosa, fatta di lavoro, famiglia e fede, e anche caratterizzata da due passioni: la montagna e il canto, che è riuscita a fondere come soprano nello storico coro La Negritella, la compagine tutta al femminile che dal 1952 propone canti della tradizione alpina. “Cantava anche nel “Coro dei concerti spirituali della Cattedrale di Verona”, diretto dal maestro Luigi Lucchi. Un coro raffinatissimo di brani di musica medioevale, rinascimentale, barocca e di autori classici e moderni. La zia aveva una bellissima voce”.
Dopo aver vissuto da sola fino a 92 anni, da dodici Rosa è entrata a far parte della famiglia di Casa Nogarè, coccolata anche dai nipoti che la vengono a trovare regolarmente. L’augurio del direttore dei Servizi Socio Sanitari della Cittadella della Carità, Paolo Ferrari: “Grazie Rosa per il suo stile discreto e silenzioso, per accettare con umile sorriso ogni giorno che il Signore le dona. Da parte mia e di tutti i collaboratori di Casa Nogarè i più cari auguri di salute e di tanta serenità”.
La scuola di metodologia della ricerca clinica compie dieci anni
Undici giornate distribuite in sei moduli, con lezioni frontali e lavori di gruppo per imparare a impostare una ricerca e per saper valutare in modo critico una pubblicazione scientifica. Sono strumenti indispensabili per la pratica clinica di ogni giorno quelli offerti dalla scuola di metodologia della ricerca clinica dell’IRCCS di Negrar, giunta quest’anno alla decima edizione.
Ha preso il via lo scorso 26 gennaio la decima edizione della Scuola di Metodologia della Ricerca Clinica, iniziativa promossa dall’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria per offrire a medici, infermieri e operatori delle varie professioni sanitarie gli strumenti per fare ricerca clinica e per leggere criticamente le pubblicazioni scientifiche. Nel tempo sono stati oltre 500 i professionisti formati da questa scuola, provenienti da tutta Italia e da molti dei più importanti ospedali presenti sul territorio nazionale. La scuola può contare inoltre su autorevoli patrocini tra cui Alleanza Contro il Cancro, il più grande network di ricerca oncologica in Italia.
L’edizione 2024, dopo il primo modulo di formazione di base tenuto il 26 e 27 gennaio, proseguirà con altri cinque appuntamenti (vedi programma). I moduli si svolgono con alternanza tra lezioni frontali e lavori di gruppo. Sono autonomi e frequentabili singolarmente. Il corso si tiene al Centro di Formazione dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria e l’iscrizione può essere fatta on line al sito web http://formazione.sacrocuore.it/Index.aspx.
Nel video qui sotto le immagini del primo incontro e le interviste alla dottoressa Stefania Gori, responsabile scientifico della scuola e direttore dell’Oncologia Medica del Sacro Cuore, al dottor Giovanni L. Pappagallo, responsabile della segreteria scientifica, a Mario Piccinini, direttore generale della ricerca dell’IRCCS di Negrar e al prof. Emilio Bria, oncologo del Policlinico Gemelli e docente della scuola di metodologia.
Giornata mondiale contro il cancro: ancora troppi tumori dovuti agli stili di vita, a cominciare dal tabagismo
Il 4 febbraio è la Giornata mondiale contro il cancro. Aumentano le nuove diagnosi, ma aumenta anche il numero di persone che sopravvivono a lungo dopo una diagnosi di tumore e quelle che guariscono, mentre diminuiscono i decessi. Il fumo rimane ancora uno dei maggiori alleati del cancro. A breve sarà operativo il Centro antifumo dell’IRCCS di Negrar con un’équipe multidisciplinare per aiutare l’assisistito a spegnere l’ultima sigaretta.
Il 4 febbraio ricorre la Giornata mondiale contro il cancro (Word Cancer Day), indetta 24 anni fa dalla UICC – Union for International Cancer Control – con il sostegno dell’Organizzazione mondiale della sanità al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica e i governi sulla patologia oncologica con l’obiettivo incentivarne la ricerca, la prevenzione e garantire a tutti le stesse possibilità di cura.
Il cancro è una malattia in costante crescita. Lo studio condotto dall’American Cancer Society e dall’International Agency for Research on Cancer ha analizzato i dati relativi a 26 tipologie di tumori in 185 Paesi nel mondo: nel 2020 sono stati 19,3 milioni i nuovi casi e circa 10 milioni i decessi.
In Italia nel 2023 sono state diagnosticate 395mila nuove diagnosi, 18.400 in più rispetto al 2020 (dati Aiom). Si stima che nei prossimi due decenni, il numero assoluto annuo di nuove diagnosi oncologiche nel nostro Paese aumenterà in media ogni anno dell’1,3% negli uomini e dello 0,6% nelle donne. Un incremento dovuto al progressivo invecchiamento della popolazione. In particolare, la fascia di età in cui i tumori sono i più frequenti comprende un’ampia fetta di popolazione, quella dei baby boomer che oggi hanno dai 59 ai 78 anni.
La buona notizia è quella che oggi di cancro si guarisce sempre di più e si muore sempre meno. In Italia delle 3.6 milioni di persone con diagnosi di cancro, circa 1 milione sono da considerarsi guarite. Fino a 20 anni fa il termine guarigione non era nemmeno contemplato.
In 13 anni, sono stati stimati negli uomini 206.238 e nelle donne 62.233 decessi in meno rispetto a quelli attesi. Il dato più eclatante riguarda la mortalità per cancro del polmone. Negli uomini, il 36,6% delle morti oncologiche evitate nel periodo 2007-2019 è legato ai progressi nella lotta al tabagismo, oltre che alle migliorate pratiche diagnostico-terapeutiche. Nelle donne, invece, proprio per il crescere del tabagismo, si rileva un eccesso di 16.036 morti per cancro polmonare, il 16% in più dell’attesa.
Sul fronte degli stili di vita, quindi, c’è ancora da fare molto se si considera che circa il 40% dei tumori potrebbero essere evitati con il controllo dell’alimentazione, con una costante attività fisica, un moderato consumo di alcol e soprattutto eliminando il fumo di sigaretta.
Il fumo è responsabile dell’85% dei casi di tumore del polmone, del 20-30 % dei tumori della vescica, reni e pancreas, del 40-50% dei tumori della bocca e dell’esofago. In chi fuma, il rischio di ammalarsi di tumore del polmone è aumentato di 25 volte rispetto a chi non fuma ed è proporzionale al numero di sigarette fumate ogni giorno e al numero di anni da cui si fuma. In genere, il cancro si manifesta dopo 15-20 anni ed il rischio può considerarsi cessato solo 13-15 anni dopo aver smesso di fumare.
Uno studio recentemente pubblicato su Science Advances dai ricercatori dell’Ontario Institute for Cancer Research (OICR, Canada) hanno collegato il fumo di tabacco ad alterazioni del DNA che imprimono uno stop forzato soprattutto ai geni soppressori tumorali, incaricati di codificare proteine che riparano il DNA danneggiato o sopprimono la crescita delle cellule tumorali non appena si presentano. Quando queste proteine non vengono prodotte, le cellule anomale sono libere di moltiplicarsi. Ciò permette al cancro di diffondersi più facilmente. Gli scienziati sono arrivati a dimostrare che più una persona fumava, più alto era il numero di alterazioni dannose accumulate nel DNA.
Non fumare è quindi un investimento di salute e benessere. Lo è anche smettere di fumare, ma farlo senza un sostegno può diventare un’impresa. Fra breve sarà operativo il Centro antifumo dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria (Cacer Center OECI), caratterizzato dalla presenza di un’équipe multidisciplinare che accompagnerà l’assistito in un percorso psicologico ed, eventualmente, medico.
Le malattie tropicali neglette: un'emergenza che ci riguarda
Il 30 gennaio è il giorno a livello mondiale dedicato ad accendere i riflettori sulle malattie tropicali neglette, definite così perché dimenticate dalla ricerca e dalle agende sanitarie degli Stati. Sviluppare la ricerca, la diagnosi e la cura di queste malattie è un imperativo in primo luogo etico, perché per tutti, indipendentemente dalle zone di nascita, vi è un diritto alla salute. Inoltre viaggi di merci e persone coniugati al cambiamento climatico aumentano il rischio che alcune patologie diventino endemiche anche i Paesi non tropicali. Alcune già lo sono, altre lo potrebbero diventare come la dengue e il chikungunya in Italia. L’appello degli esperti del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali, Centro collaboratore dell’Oms per le neglette: è fondamentale aumentare la sorveglianza.
Nel 2023, in Italia sono stati 82 i casi autoctoni di dengue, la “febbre spaccaossa”, e 280 quelli importati da viaggiatori tornati da luoghi in cui la malattia è endemica; 7 i casi di chikungunya; 600 i casi diagnosticati di malattia di Chagas dal 1998, e centinaia i positivi alla strongiloidosi, una forma di parassitosi, diffusa soprattutto tra gli over 65. Questi sono i dati che riguardano solo alcune delle 12 patologie, che hanno trasmissione sul territorio italiano, delle 21 che compongono il mosaico delle malattie tropicali neglette (NTDs) di cui il 30 gennaio si celebra la Giornata mondiale
L’IRCCS di Negrar dal 2014 è centro collaboratore dell’Organizzazione mondiale della Sanità proprio per queste patologie e grazie a un esperienza ultra trentennale oggi è punto di riferimento internazionale per la diagnosi, la cura e la ricerca delle NTDs.
Le malattie tropicali neglette sono un gruppo eterogeneo di patologie, molte delle quali a carattere infettivo, causate da virus, batteri, funghi e tossine, come, tra le altre, la scabbia, l’echinococcosi e la leishmaniosi. Sono tutte accomunate dall’essere più diffuse in zone povere, specialmente tropicali, con scarse risorse e trascurate – per questo neglette – dall’agenza politica, dalla ricerca scientifica e invisibili all’opinione pubblica.
“A livello globale sono quasi 1,7 miliardi le persone che richiedono interventi sanitari per queste malattie, con più di mezzo milione di morti l’anno. Circa 4000-5000 le persone colpite nel nostro Paese dove, in particolare la dengue, secondo i dati della sorveglianza dell’Istituto Superiore di Sanità, ha fatto registrare nel 2023 il record europeo per casi autoctoni”, spiega Federico Gobbi, direttore del Dipartimento di Malattie infettive e tropicali dell’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona) e professore associato di malattie infettive all’università di Brescia. “La diffusione delle ‘neglette’ è sottostimata e in continua crescita, non solo a livello globale, ma anche da noi – sottolinea –. L’Italia è un osservato speciale, complice il cambiamento climatico che ha determinato la diffusione della zanzara tigre su tutto il territorio nazionale. A destare preoccupazione – prosegue – è il rischio endemico di dengue e anche di chikungunya, i cui casi potrebbero aumentare con l’arrivo della primavera”.
ATTENZIONE ALLA DENGUE E ALLA CHIKUNGUNYA
“È importante focalizzare l’attenzione sulla dengue e sulla chikungunya, in quanto in Italia è presente il ‘vettore’, la zanzara tigre (Aedes albopictus) che può acquisire questi virus pungendo viaggiatori infetti, di ritorno da Paesi endemici, e trasmettere l’infezione. Nascono così le epidemia autoctone”, puntualizza Gobbi. “In Italia questa zanzara è giunta per la prima volta nel 1990 dagli Stati Uniti. Laddove è presente un vettore, vi è il rischio di trasmissione di tutte le patologie connesse al vettore stesso. Nel 2020 in Veneto, in provincia di Vicenza, si è verificata la prima epidemia autoctona di dengue in Italia con 11 casi e nel 2023 si sono registrati tre differenti cluster indipendenti tra loro: uno in Lombardia nella provincia di Lodi e due nel Lazio, a Roma e nel Circeo, arrivando a 82 casi autoctoni nel 2023”. I sintomi dell’infezione sono mal di testa, manifestazioni cutanee e, soprattutto, fortissimi dolori osteoarticolari. “Tuttavia poiché nella maggior parte degli individui la dengue è asintomatica o molto lieve, molti casi passano inosservati e si può quindi ipotizzare che l’incidenza sia molto più alta di quanto non emerga dalle statistiche di sorveglianza”.
CAMBIAMENTI CLIMATICI, TURISMO E GLOBALIZZAZIONE
“Dobbiamo prepararci a epidemie autoctone di dengue e chikungunya sempre più importanti, in quanto insieme alle merci e alle persone, viaggiano anche i vettori. In un mondo sempre più interconnesso, interconnesse saranno anche le patologie”, sottolinea Gobbi. Ad accentuare il fenomeno e i contagi, il cambiamento climatico che, provocando un innalzamento delle temperature crea le condizioni ideali per la proliferazione delle zanzare tigre. “L’Aedes albopictus prospera a temperature comprese tra i 15 e i 35 gradi, ma – aggiunge Gobbi – può tollerare anche inverni generalmente caldi come quello che stiamo vivendo, la cui temperatura non uccidendo le larve favorisce un aumento di zanzare in primavera”.
È quindi importante attuare una sorveglianza attiva dei casi di importazione, per evitare che da pochi episodi limitati si generino epidemie estese. “È urgente mettere in atto maggiori misure contro questo problema di salute pubblica – conclude il prof. Gobbi -. La mancata attenzione nei confronti delle patologie infettive ‘dimenticate’, aumenta il rischio che anche i paesi non endemici ne siano interessati”.
Per eliminare la lebbra serve un approccio globale
Domenica 28 gennaio si celebra la 71ma Giornata Mondiale dei malati di lebbra, patologia per la quale l’IRCCS di Negrar è centro di riferimento regionale. Nel 2023 c’è stato un solo caso diagnosticato al “Sacro Cuore”, mentre a livello nazionale il numero si conta sulle dita di una mano. Eppure, nonostante sia perfettamente curabile, a livello globale i casi sono in aumento e la lebbra continua a rappresentare un serio problema di salute pubblica in molti Paesi.
Nel 2023 c’è stato un solo caso di lebbra diagnosticato presso l’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria. Inoltre due pazienti hanno concluso il trattamento per questa malattia che era stata diagnosticata in precedenza. Numeri piccoli, ma che sono significativi se si considera che in Italia le diagnosi della malattia nota anche come morbo di Hansen sono meno di dieci all’anno. Si tratta di casi che arrivano a Negrar perché l’ospedale calabriano è centro di riferimento regionale per le malattie infettive rare, tra cui appunto la lebbra, di cui domenica 28 gennaio si celebra la 71ma giornata mondiale.
“In Italia e in generale nei Paesi con climi temperati i casi di lebbra sono pochissimi e tutti di importazione – sottolinea il dottor Andrea Angheben, responsabile clinico del Dipartimento di Malattie Infettive e Tropicali – tuttavia la malattia continua a rappresentare un serio problema di salute pubblica in diversi Paesi dell’area tropico-subtropicale”. Stando all’ultimo rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i contagi a livello mondiale nel 2022 sono stati più di 174.000 con un aumento del 24% rispetto all’anno precedente. I Paesi con il maggior numero di nuove diagnosi sono l’India, il Brasile e l’Indonesia.
“Per un lungo periodo le campagne promosse dall’OMS hanno permesso di ridurre in modo significativo i contagi. Tuttavia negli ultimi dieci anni il numero di nuovi casi si è stabilizzato sui 200.000 all’anno, diminuendo solo durante la pandemia COVID-19 per effetto della mancanza di rilevazione”, prosegue Angheben. Nel 2022 la trasmissione della lebbra ha riguardato anche molti bambini (5,9% del totale), mentre il 12,8% dei nuovi casi diagnosticati presentava disabilità gravi. “Quando ci sono disabilità gravi significa che la diagnosi è tardiva perché se presa in tempo la lebbra è perfettamente curabile – prosegue l’infettivologo – il problema è che nella fase iniziale essa si presenta con sintomi lievi, come piccole lesioni cutanee e molto spesso nelle zone povere non si va da un medico finché i sintomi non diventano più pesanti. Ma siccome la lebbra aggredisce i nervi, oltre alla pelle, i ritardi possono portare a disabilità permanenti”.
La lebbra è una delle cosiddette malattie tropicali neglette. E’ provocata da un micobatterio come accade per la tubercolosi e l’ulcera di Buruli. Il batterio si annida nei punti più freddi del corpo, soprattutto nella pelle e nei nervi delle parti periferiche. Con il tempo, se non curata, provoca problemi sempre più gravi portando a deformità e disabilità, con conseguenze che in molti Paesi sono tuttora fonte di povertà e sono alla base di un vero e proprio stigma sociale. Eppure dalla lebbra si può guarire con apposita terapia e dopo aver iniziato il trattamento un malato non è più contagioso. “Per combattere la lebbra è fondamentale avere un approccio globale che punti a migliorare le condizioni culturali e socio-economiche della popolazione nelle aree colpite. Inoltre dal punto di vista strettamente sanitario per interrompere la catena del contagio è molto importante il lavoro di screening nelle zone endemiche. Solo una diagnosi precoce permette da un lato di trattare tempestivamente il malato e dall’altro di mettere in sicurezza chi vive a stretto contatto con lui grazie a una profilassi antibiotica che risulta molto efficace nel prevenire lo sviluppo di nuovi casi” fa notare il dottor Angheben.
Come centro di riferimento regionale per la lebbra, il Sacro Cuore è dotato di tutti gli strumenti necessari per la diagnostica della malattia, dalla biologia molecolare agli esami microscopici che permettono di individuare il germe nei prelievi di linfa raccolti ad hoc nei pazienti con sintomi sospetti.
In caso di positività viene iniziata immediatamente la terapia in ospedale, con una combinazione di farmaci forniti dall’OMS. Tuttavia non è previsto come un tempo un prolungato isolamento del malato, in quanto dopo l’inizio del trattamento il paziente non è più contagioso. In seguito la terapia prosegue per vari mesi con controlli periodici in ospedale. Contemporaneamente le persone che vivono a stretto contatto con il malato vengono sottoposte a visita medica e a un test sierologico (PGL-1) e in caso di positività devono seguire l’apposito trattamento. Ai contatti stretti di un caso di lebbra in fase contagiosa viene raccomandata la profilassi come da indicazione dell’OMS.
Obesità: l'IRCCS di Negrar Centro di eccellenza SICOB per la chirurgia bariatrica
L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria ha ricevuto dalla Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità (SICOB) la certificazione di centro di eccellenza, il massimo riconoscimento della qualità raggiunta per quanto riguarda la chirurgia bariatrica. Il prestigiooso riconoscimento arriva solo dopo quattro anni dai primi interventi.
L’IRCCS Sacro Cuore Don Calabria ha ricevuto dalla Società Italiana di Chirurgia dell’Obesità (SICOB) la certificazione di centro di eccellenza, il massimo riconoscimento della qualità raggiunta per quanto riguarda la chirurgia bariatrica.
Un prestigioso traguardo che la Chirurgia generale, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, ha ottenuto in pochi anni. I primi interventi su pazienti fortemente a rischio di gravi patologie a causa del forte sovrappeso sono stati eseguiti dall’équipe bariatrica guidata dal dottor Roberto Rossini nel 2017. Nel 2021 è arrivato il primo riconoscimento SICOB, quello di centro accreditato, e ora, solo dopo 4 anni, la certificazione di centro di eccellenza.
“I riconoscimenti SICOB si basano su criteri condivisi dalla comunità scientifica internazionale e quindi sono prima di tutto un certificato di garanzia per i pazienti che si recano nel nostro centro”, spiega il dottor Rossini. “Il primo criterio per la certificazione di eccellenza riguarda la presa in carico del paziente in base a un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (PDTA) formalizzato”, spiega il dottor Rossini. “Noi aderiamo al PDTA della Regione Veneto che prevede la presenza di un’équipe multidisciplinare formata, oltre che da chirurgi, anche da gastroenterologi, psicologi e dietisti, figure fondamentali sia per la preparazione ottimale all’intervento sia per il post intervento, quando è necessario che il paziente rispetti nel tempo uno stile di vita che porti al calo ponderale”.
Fondamentale è il criterio del volume degli interventi che negli ultimi due anni sono stati 228, un numero superiore ai 100 all’anno stabilito dalla Società scientifica. Il 20% proviene da fuori regione e rilevante è anche la percentuale dei cosiddetti Re-Do Surgery (10%), cioè pazienti, giunti da altri ospedali, che si sono rivolti a Negrar per un secondo intervento, a causa di complicazioni dovute alla prima procedura chirurgica o per fallimento nella perdita di peso. In generale la gran parte di coloro che si rivolgono al Centro bariatrico di Negrar sono donne con un’età media di 39 anni. L’intervento è indicato solo in presenza di un indice di massa corporea (BMI) superiore a 40 o superiore a 35 se ci sono patologie.
“I re-interventi sono compresi nelle quattro procedure chirurgiche che un centro deve effettuare per essere di eccellenza – prosegue il chirurgo -. Pratichiamo inoltre la sleeve gastrectomy, una metodica ampiamente utilizzata a livello mondiale. Si tratta dell’asportazione laparoscopica di buona parte dello stomaco, che assume la forma di un tubo collegato al duodeno. Il risultato è un maggior senso di sazietà, non solo per la riduzione dello spazio di contenimento del cibo, ma anche perché viene recisa quella parte dello stomaco che produce la grelina, il cosiddetto ormone della fame. Le altre due metodiche da noi praticate – il bypass ed il mini bypass gastrico – vengono utilizzate in casi selezionati ed hanno un ruolo importante nel trattamento di alcune complicanze. Sempre eseguite mediante tecnica laparoscopica, entrambe vanno a creare, in maniera differente, una piccola sacca gastrica collegata direttamente al piccolo intestino”.
La SICOB prevede poi che l’Ospedale disponga di terapia intensiva e che la casistica operata dal Centro sia interamente registrata nel date base nazionale della Società come il follow up dei pazienti. “Il 70% dei nostri pazienti effettuano nel primo anno tutti i controlli periodici contro il 50% stabilito dalla Società. Poi nel tempo la percentuale si abbassa fisiologicamente sebbene rimanga soddisfacente”, precisa il chirurgo.
Nella foto l’équipe della Chirurgia bariatrica: da sinistra la dottoressa Maria Paola Brunori (gastroenterologa), dottoressa Eleonora Geccherle (psicologa), dottor Roberto Rossini (chirurgo), dottoressa Alessandra Misso (dietista) e dottoressa Irene Gentile (chirurgo)