Malattie infiammatorie croniche dell'intestino: la diagnosi precoce è fondamentale

Il riconoscimento tempestivo di queste patologie permette di iniziare la corretta terapia prima di avere conseguenze gravemente invalidanti per il paziente. Se ne parla venerdì 13 settembre in un convegno organizzato dalla IBD Unit del “Sacro Cuore”

Aumentano in tutta Europa i casi di malattie infiammatorie croniche dell’intestino. L’Italia – con circa 150mila pazienti – è un Paese a media incidenza. Sotto accusa i fattori ambientali (alimentazione ed inquinamento), che in persone già predisposte geneticamente scatenano una reazione abnorme del sistema immunitario, causando un’infiammazione cronica dell’intestino. Poiché la causa di questo processo è sconosciuta, rendendo impossibile qualsiasi forma di prevenzione, diventa cruciale la fase diagnostica al fine di una scelta anticipata e corretta di alcuni tipi di terapie (come i farmaci biologici) che in passato venivano riservati solo a fasi avanzate e irreversibili di malattia con conseguenze gravemente invalidanti per il paziente.

 

IL CONVEGNO

Proprio la diagnostica endoscopica e radiologica sarà al centro del terzo focus annuale sulle malattie infiammatorie croniche dell’intestino (malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa) organizzato dall’IBD Unit (Inflammatory Bowel Disease) dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, di cui è responsabile il dottor Andrea Geccherle. L’appuntamento scientifico si terrà venerdì 13 settembre all’Hotel Leon D’Oro (viale Piave, 5-Verona) ed è rivolto a radiologi, endoscopisti, gastroenterologi, chirurghi e anatomopatologi, tutti specialisti coinvolti in una logica multidisciplinare nel trattamento delle IBD.

 

IL GRUPPO MULTI-SPECIALISTICO DEL “SACRO CUORE DON CALABRIA”

Le malattie infiammatorie croniche dell’intestino colpiscono tutto il tratto gastro-intestinale (malattia di Crohn) o solamente il retto o il colon (rettocolite ulcerosa). Sono caratterizzate principalmente da dolori addominali e diarrea, con perdita di sangue nel caso della rettocolite ulcerosa. Grazie ai farmaci biologici la qualità di vita dei pazienti è notevolmente migliorata, ma essendo patologie croniche alternano momenti di remissione a fasi di riacutizzazione. Per questo è importante che il paziente sia preso in carico da un gruppo multispecialistico in grado di rivalutare la terapia (con il passaggio da medica a chirurgica e viceversa) in base all’evoluzione della malattia. Come accade all’Ospedale di Negrar, la cui IBD Unit segue circa 2mila pazienti con una trentina di prime visite al mese. Il 12-13% dei pazienti è affetto da malattia moderata-severa che richiedono cure immunomodulatrici (farmaci immunologici e immunosoppressori).

 

L’IMPORTANZA DI UNA DIAGNOSI PRECOCE

“Nel nostro Centro arrivano ancora troppe persone in fase avanzata di malattia”, afferma la gastroenterologa Angela Variola che con i chirurghi Giuliano Barugola e Nicola Cracco, compone la segreteria scientifica del convegno. “Dai dati raccolti dalla rete provinciale dedicata allo studio di queste patologie emerge che in media la diagnosi di morbo di Crohn arriva dopo due anni e quella di rettocolite ulcerosa dopo 6-12 mesi. Questo riguarda in particolare i pazienti con meno di 50 anni per i quali, non essendo in un’età a rischio di tumore al colon-retto, anche in presenza di diarrea persistente accompagnata da perdita di sangue vengono procrastinati gli accertamento o scelti percorsi fuorvianti come quello della valutazione proctologica”.

 

Per questo diventa importante da un lato che i medici di medicina generale siano formati a riconoscere all’esordio i sintomi della malattia e dall’altro che siano effettuati precocemente gli esami diagnostici più appropriati, come la colonscopia o quando si parla di malattia di Crohn l’enterorisonanza magnetica e l’ecografia delle anse intestinali, che permettono di studiare anche tratti non raggiungibili con la comune endoscopia.

 

Ma questi esami non sono utili solo alla diagnosi, sono determinanti anche per la scelta della migliore terapia (medica o chirurgica) nel corso dell’evoluzione della malattia. “Grazie al perfezionarsi della tecnica radiologica – sottolinea la dottoressa Variola – ci stiamo dirigendo sempre più verso diagnostiche efficaci senza mezzi di contrasto a rischio per pazienti allergici e senza esposizione a radiazioni”.

 

“IBD NURSE”: UN’INFERMIERA SPECIALIZZATA NELLA PATOLOGIE INFIAMMATORIE CRONICHE DELL’INTESTINO

Al congresso si parlerà anche di malattia perianale, complicanza che si verifica spesso nei pazienti con IBD, grazie alla presenza del dottor Janindra Warusavitarne del St. Mark’s Hospital di Londra. Lo specialista di fama internazionale illustrerà quanto la realizzazione di modelli in 3D dell’anatomia del paziente consenta trattamenti chirurgici personalizzati per la cura delle fistole anali. Inoltre verrà illustrata – con l’intervento di Susanna Jaghult del Karolinska Istitutet di Stoccolma – la figura dell’ IBD nurse, un’infermiera, che grazie a una specifica formazione, all’interno del gruppo multidisciplinare diventa punto di riferimento del paziente. Quello di Negrar sarà uno dei primi centri italiani ad avvalersi di questo tipo di figura con le prerogative previste dalla ECCO (European Crohn Colitis Organisation).


Le manovre che salvano vite: corsi di rianimazione cardiopolmonare per tutti

Il 24 settembre si tiene il primo dei corsi di rianimazione cardiopolmonare di base tenuto dagli istruttori del “Sacro Cuore Don Calabria” aperto a chiunque abbia compiuto 18 anni

L’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria rinnova il suo impegno sul territorio nel diffondere le tecniche di base della rianimazione cardiopolmonare. Il 24 settembre si terrà il primo dei corsi per “laici” (cioè non professionisti della sanità) che i rianimatori del Centro IRC (Italian Resuscitation Council) del nosocomio di Negrar terranno anche nei prossimi mesi.

 

Nell’arco di una mattinata presso l’ospedale verranno insegnate le manovre di base da applicare nel caso si assista a un arresto cardiaco: massaggio, ventilazione e utilizzo del defibrillatore semiautomatico. Per parteciparvi è necessaria l’iscrizione presso l’Ufficio Formazione del “Sacro Cuore Don Calabria” (045. 6013208). E’ richiesto come unico requisito di aver compiuto 18 anni, in quanto i corsi BLSD (Basic Life Support and Defibrillation) sono alla portata di tutti.

 

 

“La letteratura scientifica è molto chiara in proposito: l‘avvio del massaggio cardiaco entro 10 minuti dall’arresto, non solo salva la vita della persona colpita, ma impedisce anche danni neurologici irreversibili”, sottolinea Marco Boni, medico di Pronto Soccorso e responsabile del Centro IRC di Negrar. Ne consegue l’importanza che un numero sempre più ampio di popolazione sia istruita alla rianimazione cardiopolmonare di base. “Si calcola – prosegue il medico – che ogni anno in Italia circa 60mila persone siano colpite da arresto cardiaco, ma solo nel 15% dei casi qualcuno dei presenti è in grado di iniziare la procedura di rianimazione, con la perdita di minuti preziosi in attesa dei soccorsi. Quante vite potremmo salvare, anche da sequele neurologiche senza ritorno, se la “cultura” della rianimazione fosse più diffusa?“.

 

 

A partire dall’insegnamento nelle scuole. L’IRC di Negrar, attivo dal 2009 e composto da 20 istruttori, ha formato negli ultimi quattro anni circa 400 alunni delle medie e delle superiori. Numero che va a sommarsi agli altri 400 ragazzi istruiti, in due anni, dai 24 studenti del liceo scientifico che hanno conseguito il brevetto di istruttori non sanitari BLSD in un programma di alternanza scuola-lavoro. L’anno scorso il Centro IRC ha effettuato, inoltre, 32 corsi, formando 293 persone, la maggior parte operatori dell’ospedale.

 

Ma cosa si deve fare quando si assiste a un arresto cardiaco? “Innanzitutto è necessario avvertire il 118 e contemporaneamente, se si è in grado, avviare il massaggio – risponde il medico -. Il massaggio deve essere effettuato fino all’arrivo dei soccorsi anche quando il defibrillatore automatico indica la presenza di attività elettrica cardiaca e per questo non deve essere impiegato”.


Papa Francesco nomina Cardinale un religioso di don Calabria

Il Santo Padre ha annunciato ieri la nomina nel Collegio Cardinalizio di monsignor Eugenio Dal Corso, vescovo emerito di Benguela (Angola), primo sacerdote calabriano a conseguire questa importante carica

Monsignor Eugenio Dal Corso, Povero Servo della Divina Provvidenza e vescovo emerito di Benguela (Angola), sarà cardinale. Lo ha annunciato Papa Francesco ieri dopo l’Angelus domenicale. Il Papa ha convocato un Concistoro per il prossimo 5 ottobre, quando nominerà 13 nuovi cardinali tra i quali appunto mons. Eugenio, originario di Lugo di Valpantena (Verona) e missionario da più di 40 anni dapprima in America Latina e poi in Africa. Monsignor Dal Corso è il primo Cardinale della Congregazione fondata da san Giovanni Calabria (vedi video con le parole del Papa). Anche il nostro ospedale si unisce alla gioia e alle congratulazioni a don Eugenio da parte della Famiglia calabriana e della Chiesa tutta.

 

BREVE PROFILO BIOGRAFICO

Mons. Eugenio Dal Corso, psdp – vescovo Emerito di Benguela. È nato il 16 maggio 1939 a Lugo, in provincia di Verona, secondo di sei fratelli. È entrato nella Casa dell’Opera Don Calabria di Roncà nel 1949 per poi continuare gli studi a Maguzzano (sul lago di Garda) e a Nazareth (sulle Torricelle). Ha fatto la sua prima professione religiosa nell’Opera calabriana l’8 settembre 1959. L’ordinazione sacerdotale è avvenuta a Verona il 17 luglio 1963.

 

Le sue prime esperienze di vita pastorale le ha fatte a Madonna di Campagna (Verona), a Roma e poi a Napoli. Nel 1975 ha cominciato la sua vita missionaria: la prima destinazione fu l’Argentina, a Laferrere provincia di Buenos Aires. Qui è rimasto undici anni per poi essere chiamato in Africa, precisamente in Angola. Si era in piena guerra civile e don Eugenio trascorse i primi anni angolani nella capitale Luanda, a fianco delle popolazioni più deboli. Il 15 dicembre 1995 è stato nominato Vescovo coadiutore di Saurimo fino al 15 gennaio 1997 quando è diventato Vescovo titolare della medesima diocesi. Il 12 febbraio 2008 è nominato vescovo di Benguela fino al 26 marzo 2018, quando Papa Francesco ha accolto la sua rinuncia per raggiunto limite d’età.

 

Dopo la rinuncia, don Eugenio ha deciso di restare in Angola e con grande umiltà si è messo a disposizione della Chiesa locale per fare servizio pastorale. Al momento si trova a prestare servizio nella sperduta diocesi di Menongue, dove c’è un grande bisogno di sacerdoti per l’ordinaria attività pastorale.

 

Il 1° settembre 2019 il Papa ha annunciato che mons. Eugenio sarà nominato cardinale il prossimo 5 ottobre.

 

IL COMMENTO DEL SUPERIORE GENERALE DELL’OPERA DON CALABRIA, PADRE MIGUEL TOFFUL

Per noi componenti dell’Opera è un grande onore la nomina di mons. Eugenio Dal Corso. Si tratta del primo Povero Servo della Divina Provvidenza a diventare Cardinale e questo mi porta alla mente un pensiero di don Calabria che diceva sempre che lo spirito dell’Opera è per i tempi attuali e nel tempo si diffonderà in tutto il mondo e nella Chiesa. Uno spirito basato sul servizio ai poveri e agli ultimi, proprio come ha fatto monsignor Dal Corso nei suoi tanti anni trascorsi in missione. Concludo facendo tante congratulazioni a don Eugenio. Lo accompagneremo con la preghiera, nella certezza che il suo servizio alla Chiesa proseguirà con la stessa dedizione e passione avute fino ad ora.


La vacanza ideale per il cardiopatico? Quella fatta con il buonsenso

Vacanze in montagna e malattie del cuore sono incompatibili? No, se si utilizzano le regole del buonsenso. “Ma anche per il mare e per le terme ci sono degli accorgimenti da adottare”, come spiega il cardiologo Guido Canali

Siamo agli sgoccioli dell’estate, un periodo ideale per fare una vacanza in montagna. Se per tutti quando si va in quota valgono le regole del buon senso, quest’ultime devono essere rispettate soprattutto da coloro che sono affetti da cardiopatie, come ci spiega il dottor Guido Canali, responsabile del Servizio di Emodinamica (nella foto sotto).

 

 

“E’ necessario innanzitutto fare una premessa – sottolinea il cardiologo -: non tutte le persone e non tutte le cardiopatie sono uguali. Prendiamo per esempio l’anziano: l’età anagrafica spesso non corrisponde a quella biologica. Possiamo avere ottantenni con una condizione fisica di un sessantenne e viceversa. Così per le cardiopatie: gli accorgimenti devono essere adottati anche in base alla gravità della malattia”.

 

 

“In generale – riprende il dottor Canali – ai pazienti che hanno subito un infarto o sono affetti da angina sconsiglio di intraprendere soggiorni montani sopra i 1.200 metri di altitudine, in quanto più si sale in quota maggiore è il rischio di sbalzi di pressione, con picchi ipertensivi“. Rischio che aumenta in maniera considerevole sopra i 1.700-2000 metri quando all’altitudine si somma la ridotta quota di ossigeno presente nell’aria.

 

 

Attenzione soprattutto ai cambiamenti repentini di quota. “Ai cardiopatici e agli ipertesi dico di evitare l’utilizzo di impianti di risalita che percorrono in un tempo breve dislivelli di una certa entità. Naturalmente un dislivello di 400 metri comporta un differente rischio di picchi ipertensivi se si parte da 1000 metri oppure da 2000, tuttavia è sempre importante dare all’organismo il tempo di acclimatarsi per alcuni giorni. E’ altrettanto importante, prima di intraprendere una camminata, informarsi sul dislivello da affrontare e sulla lunghezza che comporta il percorso, perché la quota insieme allo sforzo fisico possono fare brutti scherzi anche a coloro che, pur non soffrendo di patologie cardiache, non sono allenanti“, sottolinea il medico.

 

E per chi invece alla montagna preferisce il mare o le terme? “Le vacanze al mare non implicano particolari controindicazioni per chi soffre di cuore– risponde il cardiologo -. Tuttavia, regola che vale per tutti, è bene evitare di esporsi al sole nelle ore più calde ed è necessario idratarsi adeguatamente. In particolare gli anziani che hanno un ridotto stimolo della sete”. La disidratazione comporta, infatti, non solo problemi renali, ma anche cardiaci, perché può provocare alterazione degli elettroliti (potassio, cloro, sodio e magnesio) e, di conseguenza può favorire l’insorgenza di aritmie. Per questo i pazienti con cardiopatie che necessitano di diuretici dovrebbero assumere degli integratori di sali minerali, e mangiare molta frutta e verdura”.

 

“L”acqua termale non presenta controindicazioni specifiche per i cardiopatici. Particolare attenzione va posta invece all’utilizzo di bagno turco e sauna, soprattutto la finlandese che può raggiungere anche i 90 gradi. I pazienti cardiopatici, infatti, assumono frequentemente farmaci vaso-dilatatori il cui effetto, sommandosi alla vasodilatazione provocata dal calore, può portare al brusco abbassamento di pressione e quindi al verificarsi di una sincope“, conclude il dottor Canali.

 

elena.zuppini@sacrocuore.it


La chirurgia del carcinoma duttale del pancreas

A seconda della posizione del tumore sulla ghiandola pancreatica cambiano, oltre ai sintomi, anche l’approccio chirurgico. Ce ne parla la dottoressa Letizia Boninsegna, chirurgo del pancreas

 

L’adenocarcinoma duttale del pancreas è la forma più diffusa di carcinoma pancreatico, tanto che viene identificato come il tumore maligno del pancreas per eccellenza. Si stima che circa l’85% dei casi di neoplasia del pancreas in Italia (oltre 13mila nel 2018) riguarda proprio questo tipo di tumore. Colpisce con più frequenza nella fascia di età dai 50 agli 80 anni.

 

L’adenocarcinoma duttale del pancreas è una patologia molto aggressiva, relativamente alla quale, però, negli ultimi anni si sono fatti passi avanti sia in campo chirurgico sia in quello medico. Resta però tanta strada da fare, soprattutto nell’ambito delle conoscenze molecolari di questa forma tumorale che permetterebbero, una volta acquisite, la realizzazione di farmaci ‘su misura’ per ogni variazione genetica del tumore.

 

“La prognosi di sopravvivenza è ancora inferiore ai 5 anni, anche perché nella maggioranza dei casi la diagnosi avviene quando sono già presenti i sintomi e quindi il tumore è già a uno stadio avanzato”, afferma la dottoressa Letizia Boninsegna, chirurgo del pancreas. La Chirurgia generale, diretta dal dottor Giacomo Ruffo, in cui la dottoressa Boninsegna lavora, fa parte del gruppo multidisciplinare del pancreas dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria che comprende anche l’Oncologia, la Diagnostica per immagini, l’Endoscopia digestiva, l’Anatomia Patologica, la Medicina Nucleare, la Diabetologia e la Gastroenterologia. Questo consente una presa in carico nella stessa struttura del paziente affetto da tumore del pancreas a 360°, dalla diagnosi alla terapia.

 

Il pancreas è una ghiandola di forma allungata. La parte più voluminosa, vicina al duodeno, viene definita testa. Segue una parte centrale (corpo) e una finale (coda) attaccata alla milza. A seconda della posizione del tumore cambiano, oltre ai sintomi, anche l’approccio chirurgico. “Se il tumore è posizionato nella testa si procede con la duodenocefalopancreosectomia più linfoadenectomia (DCP). Se invece è compreso nel corpo-coda, viene effettuata la splenopancreasectomia”, riprende al dottoressa Boninsegna.

 

Qual è la differenza tra questi due interventi?

Per motivi di radicalità oncologica nella DCP si asporta, insieme alla testa del pancreas, anche il duodeno, l’ultimo tratto della via biliare, che è compresa in questa porzione di ghiandola, e tutti i linfonodi dell’area. Nel caso di adenocarcinoma duttale del corpo-coda, l’intervento comporta l’asportazione di questa zona insieme, per radicalità oncologica, alla milza.

 

Questo tipo di neoplasia è sempre operabile?

Solo alcuni anni fa, la risposta sarebbe stata negativa. Oggi grazie alla chemioterapia neoadiuvante (cioè prima dell’intervento) possiamo intervenire anche su tumori definiti borderline.

 

In cosa consistono?

Sono tumori per cui l’accertamento diagnostico effettuato tramite Tac o Risonanza Magnetica rilevano una posizione tale da lambire i vasi sanguigni importanti o altri organi vitali. Fino a poco tempo fa si procedeva chirurgicamente, ma senza la possibilità di eradicare completamente la neoplasia, col rischio di lasciare ‘in pancia’ un residuo macroscopico di malattia. Questo determinava, nonostante la chemioterapia post-intervento, una prognosi di pochi mesi. Attualmente, invece, disponiamo di chemioterapici che, riducendo la massa tumorale, creano un piano di distanza tra le strutture vascolari o l’organo confinante e il cancro tale da consentire un’asportazione radicale del nodulo.

 

Ci sono altri casi per cui è indicata la chemioterapia neoadiuvante?

Sì, quando il cancro è operabile, ma il marcatore tumorale CA19-9 è alto, indice di un’elevata attività moltiplicativa delle cellule tumorali. Intervenire in questi casi comporta un alto rischio di ripresa di malattia quasi immediato. Pertanto si procede con i farmaci chemioterapici, in modo da effettuare l’intervento a tumore ‘dormiente’.

 

L’intervento si avvale di tecniche tradizionali oppure viene effettuato in laparoscopia o con la robotica?

L’intervento può essere effettuato anche in laparoscopia e/o in robotica, ma in presenza di carcinomi importanti la sicurezza e la radicalità oncologica è data ancora oggi dalla chirurgia aperta. Uno studio internazionale ha messo a confronto la DCP in robotica e quella tramite chirurgia aperta, ma è stato interrotto per le grosse complicanze causate dalla prima metodica.

La DCP ma anche splenopancreasectomia sono interventi complessi, quali conseguenze hanno sulla qualità di vita del paziente?

Se il decorso post operatorio ha avuto un andamento regolare, il paziente riprende progressivamente e in breve tempo la sua quotidianità con una buona qualità di vita. A condizione, però, che conduca uno stile di vita sano dal punto di vista alimentare e dell’attività fisica. Questo fa sì che il paziente non debba ricorrere necessariamente alla somministrazione di insulina, se non era diabetico prima dell’intervento.

 

elena.zuppini@sacrocuore.it


Non tutte le punture d'ape sono uguali

Il direttore del Pronto Soccorso, dottor Flavio Stefanini, ci spiega cosa fare quando si è punti da un imenottero: il più delle volte non è necessario recarsi in Pronto Soccorso ma solo in determinati casi. Ecco quali

Non solo zanzare e zecche. La primavera e l’estate portano con loro la spiacevole presenza di altri insetti e con essi il rischio di punture dolorose, soprattutto da parte di imenotteri, famiglia a cui appartengono le vespe, le api e i calabroni.
Dal 1 gennaio di quest’anno ad oggi, sono stati 300 i pazienti che si sono recati al Pronto Soccorso dell’IRCCS Ospedale Sacro Cuore Don Calabria a causa di una puntura di insetto. In netto aumento rispetto al 2018, durante il quale in 12 mesi si sono verificati per lo stesso motivo 478 accessi.

Ma è sempre necessario recarsi al Pronto Soccorso per una puntura di un’ape o di un insetto simile?

 

Cosa fare in caso di puntura

“Nel 90% dei casi la puntura causa una banale reazione locale, che si risolve senza problemi”, spiega il dottor Flavio Stefanini, direttore del Pronto Soccorso di Negrar (nella Photo Gallery). “Infatti può insorgere dolore e arrossamento ai quali si può far fronte mettendo sulla zona del ghiaccio, che ha anche la proprietà non solo di calmare la sintomatologia dolorosa, ma anche di fermare la diffusione del veleno – sottolinea il medico -. Se il pungiglione è rimasto nella cute, è meglio toglierlo, servendosi di un ago sterile da siringa. Inoltre si può applicare una pomata cortisonica o antistaminica, se compare del prurito. Può anche capitare – sottolinea – che il gonfiore si estenda progressivamente oltre la sede della puntura: in questi casi il cortisone per via orale è la terapia più indicata e può essere prescritta dal medico di famiglia”.

 

 

Quando compare un’infezione

Agli antibiotici, invece, si deve ricorrere solo quando si manifesta un’infezione. “La sede della puntura si infetta il più delle volte perché si strofina la zona per alleviare il prurito, trascinando i normali germi della cute sulla ‘ferita’. L‘infezione è facilmente riconoscibile in quanto si manifesta talora con febbre, dolore, un forte arrossamento circostante la sede di iniezione. Puoò comparire anche una linfangite, cioè un cordone rosso sulla cute che si estende dalla puntura dell’insetto lungo l’arto interessato“.

 

 

Quando rivolgersi al Pronto Soccorso

Necessitano invece di cure del Pronto Soccorso, i casi in cui l’insetto punga sul collo o all’interno della bocca. “Soprattutto in soggetti particolarmente sensibili alle punture di insetti – precisa il dottor Stefanini – una puntura in quelle zone può comportare l’alto rischio di gonfiore e quindi di ostruzione delle vie aeree. E’ necessario rivolgersi al Pronto Soccorso anche quando si è punti da più insetti, perché la quantità di veleno inoculato può essere tale da provocare una reazione importante, anche se non si è allergici”. In tal caso si deve intervenire con somministrazione intra muscolare o endovenosa di cortisonici e antiistaminici.

 

Lo shock anafilattico: come agire

Un capitolo a parte merita lo shock anafilattico in persone allergiche al veleno degli imenotteri. “Sono eventi rari e purtroppo il soggetto viene a conoscenza della sua allergia solo una volta punto – prosegue il direttore del PS -. Se dopo una puntura insorge orticaria diffusa, copiosa sudorazione, ipotensione, difficoltà di respiro o senso di chiusura della gola è fondamentale chiamare 1l 118 o rivolgersi d’urgenza al Pronto Soccorso perché è in atto uno shock anafilattico”. In attesa dei soccorritori la persona deve essere stesa a terra con le gambe sollevate di circa 30 centimetri. Questo favorisce il ritorno venoso agli organi vitali.

“In genere a chi è a conoscenza di questa allergia, lo specialista allergologo prescrive un kit per l’autosomministrazione dell’adrenalina per via intramuscolare, ma il ricorso al Pronto Soccorso è sempre necessario”, conclude il medico.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Occhiali da sole per bambini: ecco come sceglierli

Gli occhiali da sole sono un’importante protezione per la vista del bambino, ma la scelta deve essere accurata e indicata dallo specialista, come spiega il dottor Giuliano Stramare

Bambini con occhiali da sole a specchio. Altri con lenti colorate. Ma per la salute degli occhi dei più piccoli, gli occhiali da sole sono indicati? Lo abbiamo chiesto al dottor Giuliano Stramare, responsabile del Servizio di Oftalmologia pediatrica (nella foto).

 

“Innanzitutto è fondamentale fare una premessa: l’eccessiva esposizione al sole può essere dannosa per chiunque, soprattutto per l’età pediatrica – spiega l’oculista -. Si consiglia, pertanto, di evitarla non portando all’aperto il bambino nelle ore di maggiore irradiazione solare, facendogli indossare un cappellino con visiera o, per i bambini più piccoli, utilizzando la tendina protettiva del passeggino. Gli occhiali da sole sono un’ulteriore forma di protezione e diventano fondamentali in quelle situazioni in cui l’esposizione è raddoppiata dal riverbero, come accade sulla neve o sugli specchi d’acqua”.

 

Quale occhiale da sole è quindi adatto per un bambino?
La scelta dell’occhiale da sole deve essere molto attenta. Il volto di un bambino in crescita, e in particolare lo sviluppo del naso, non sempre rendono confortevole il porto della montatura. Fortunatamente negli ultimi anni le aziende produttrici hanno investito molto nella creazione di occhiali ad hoc per la popolazione pediatrica e ormai quasi tutti gli ottici dispongono di una notevole varietà di modelli che possono venire incontro ad ogni necessità. Tali montature sono flessibili, prive di margini appuntiti o taglienti e costruite in materiali biocompatibili.Esistono modelli diversi per fascia di età fin dai primi mesi di vita. Per quanto riguarda le lenti dobbiamo ricordare che il colore e la montatura non incidono sulla loro capacità protettiva, l’importante è che siano munite di filtri solari e marchiate CE.

 

E se il bambino porta già occhiali da vista?

In questo caso è possibile ottenere una protezione sia prescrivendo occhiali da sole graduati che utilizzando le lenti fotocromatiche, lenti, cioè, che si oscurano alla presenza dei raggi solari. In caso di difetto di vista, il colore della lente può essere importante. E’ bene preferire il marrone/ambra per i soggetti miopi e l’azzurro-verde per gli ipermetropi.

 

Ci sono patologie oculistiche pediatriche per le quali l’occhiale da sole può essere particolarmente consigliato o sconsigliato?

Ci sono alcune patologie che richiedono l’obbligo dell’utilizzo di un occhiale da sole e sono l’albinismo oculocutaneo o altre forme di erodistrofie retiniche. In questo caso si devono utilizzare lenti con filtri particolari che non sono normalmente in commercio. A tali scopi esistono anche lenti a contatto con filtri, le quali, soprattutto, in età adolescenziale, garantiscono un’ottima qualità di vita al ragazzo. Anche nel caso di alcuni strabismi (soprattutto certe forme di strabismo divergente) è fortemente consigliabile l’uso di una lente oscurata per il sole. Particolari controindicazioni all’uso degli occhiali da sole non ve ne sono, salvo casi in cui lenti eccessivamente scure o lenti fotocromatiche un po’ troppo “lente” nel tornare a schiarirsi possano dare fastidio ad un bambino già ipovedente.

 

Per la scelta, è sufficiente rivolgersi ad un ottico, o è necessario sottoporre il bambino a una visita oculistica?

L’esperienza di un bravo ottico è fondamentale per la scelta di una corretta montatura di un occhiale da sole. Si ricorda, però, che la visita oculistica pediatrica è un evento imprescindibile che mai deve essere sottovalutato o ritardato. Anche quella che può essere ritenuta una banale prescrizione di occhiale da sole, deve essere considerata un atto medico, soprattutto in età pediatrica ed in copresenza di patologia oculare.

elena.zuppini@sacrocuore.it


Quando il mal di testa condiziona la vita

L’emicrania è al primo posto tra le patologie invalidanti prima dei 50 anni. Gli attuali farmaci per prevenire gli attacchi e la novità sul mercato di un farmaco biotecnologico

Non chiamatelo solo mal di testa. Sono 7 milioni, circa il 12% della popolazione, gli italiani che soffrono di emicrania. Si tratta di una forma di cefalea primaria – legata cioè alla natura dell’individuo e non un sintomo di altre malattie – che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha collocato al primo posto tra le patologie invalidanti, in termini di frequenza, prima dei 50 anni di età. Coloro che ne soffrono, infatti, sono afflitti da un numero variabile di attacchi al mese – quando superano i 15 per almeno tre mesi l’ emicrania viene definita cronica – che li costringono ad assentarsi dal lavoro e da tutte le altre attività quotidiane e cercare conforto nel proprio letto, al buio e nel silenzio assoluti.

 

 

“E’ una della patologie ‘anti-sociali’ per eccellenza: l’emicranico non solo è costretto ad una qualità di vita pessima, ma spesso non viene creduto o è considerato come un peso dai colleghi di lavoro, dagli amici e tavolta anche dai propri familiari. La cura del paziente cefalgico comporta quindi una presa in carico globale, anche psicologica, della persona”, spiega il dottor Fabio Marchioretto (nella foto), direttore della Neurologia e responsabile dell’Ambulatorio cefalee, dal quale all’anno passano circa 500 persone, tra prime visite e controlli.

 

 

Sono soprattutto donne (in un rapporto di 3 a 1 rispetto agli uomini) e il picco di prevalenza della patologia è tra i 30 e i 50 anni, l’arco temporale di massima progettualità individuale, familiare e lavorativa, che richiede impegno e non è certo priva di stress. Dopo i 50 anni l’emicrania come intensità di dolore e frequenza tende a diminuire sia per i cambiamenti ormonali nella donna (menopausa) sia, in entrambi i sessi, per la stabilità che solitamente subentra in tutti gli ambiti della vita.

 

 

Quindi lo stile di vita è un fattore di rischio?

“Data la costituzionalità emicranica, qualunque condizione di squilibrio psico-fisico più che un fattore di rischio è un un fattore scatenante”, risponde il dottor Marchioretto. “Tra i fattori scatenanti ci sono quindi il periodo premestruale nella donna; per entrambi i sessi l’insonnia ma anche il sonno prolungato; lo stress ma pure l’eccessivo rilassamento (la famosa ’emicrania del fine settimana’); i pasti abbondanti ma nello stesso modo anche il digiuno incide moltissimo. Pertanto la prima forma di profilassi dell’emicrania, per ridurne gli attacchi, è uno stile di vita sano ed equilibrato.

 

 

Quanto la familiarità è un fattore di rischio?

Per l’emicrania si riconosce una connotazione familiare. Più specificatamente l’emicrania è una patologia poligenica, cioè a determinarla vi concorrono più geni. Di conseguenza ogni emicranico possiede la ‘sua’ emicrania e a questo sottende la necessità di un differente e personalizzato trattamento farmacologico.

 

Come viene diagnosticata l’emicrania?

Anche la diagnosi non è semplice, in quanto non possiamo avere riscontri oggettivi né attraverso esami specifici né tramite elementi di tipo semeiologico o indagini strumentali (a differenza dei polmoni, per esempio, il cervello non si può auscultare). Per questo motivo negli anni Settanta, la International Headache Society (IHS), massimo riferimento a livello mondiale per quanto riguarda lo studio delle cefalee, ha diramato le prime linee guida diagnostiche della malattia. Ora siamo alla terza edizione.

 

Cosa contengono queste linee guida?

Innanzitutto la classificazione di tutte le forme di cefalea conosciute con i relativi criteri diagnostici che offrono la massima sensibilità e specificità per la diagnosi. Per esempio secondo l’IHS, la diagnosi di emicrania viene effettuata rispettando i seguenti criteri:

1) Intensità forte del dolore.

2) Durata dell’episodio doloroso tra le 4 e le 72 ore.

3) Almeno un criterio tra carattere pulsante del dolore e localizzazione unilaterale.

4) Almeno un criterio tra fotofobia, fonofobia, nausea e vomito.

5) Nella fase di stato, il dolore è accentuato dal movimento e dai cambi posturali.

 

 

In cosa consiste la terapia?

Come è stato detto, ogni emicranico possiede la ‘sua’ emicrania. Pertanto la terapia – sia quella preventiva sia quella al bisogno per controllare gli attacchi – è una sorta di ‘abito su misura’, realizzato adeguando e adattando il trattamento e la posologia in base alla risposta individuale. Attualmente per la profilassi abbiamo a disposizione quattro tipi di farmaci di prima linea: un betabloccante (cioè un vaso dilatatore); l’amitriptilina, un antidepressivo triciclico che alza la soglia del dolore; la flunarizina, un calcioantagonista; il topiramato, un antiepilettico. Tutti e quattro, con modalità diverse, intercettano il meccanismo eziologico dell’emicrania. Fondamentale è l’alleanza terapeutica medico-paziente: la cura dipende da un’ interazione positiva tra paziente e medico, ognuno deve fare la sua parte nell’intento comune di contrastare l’emicrania; il paziente è invitato a tenere un diario dove annotare la durata degli attacchi, il farmaco analgesico assunto durante l’attacco, l’efficacia di questo farmaco ed eventuali effetti collaterali, possibili fattori scatenanti, come cibi assunti o periodo mestruale… Se con questi farmaci di prima linea non si ottengono risultati soddisfacenti si passa al trattamento di seconda linea con la tossina botulinica riservata alle forme ad alta frequenza.

 

 


Come viene somministrata?

La tossina botulinica viene iniettata con delle piccole iniezioni sottocute a livello della fronte, dei muscoli delle tempie, dei muscoli posteriori e del collo. La tossina botulinica viene ripetuta ogni 12 settimane e il trattamento non ha importanti effetti collaterali, a fronte di una sensibile diminuzione degli episodi dolorosi. E’ indicata per l’emicrania cronica ed è messa a disposizione dal Servizio sanitario nazionale solo nel caso che i farmaci di prima linea non siano efficaci e il paziente non tragga beneficio nemmeno dagli antidolorifici, rischiando di cadere nell’abuso.L’azione antinocicettiva della Tossina botulinica e quindi l’effetto nel trattamento dell’ emicrania rimane ancora in grande parte sconosciuta: diversi dati ne suggeriscono una genesi multifattoriale con effetti sulle fibre muscolari per il blocco della giunzione neuro muscolare ma anche sulle fibre nervose autonomiche e dolorifiche

 

 

 

Ci sono delle novità dal punto di vista farmacologico?

Da poco abbiamo a disposizione sul mercato, ma non ancora convenzionato con il Ssn, anche un farmaco di terza linea. E’ un anticorpo monoclonale anti CGRP (Calcitonin Gene Related Peptide), un peptide che è implicato nel meccanismo fisio-patogenetico dell’emicrania. Si tratta di un passo avanti decisivo nella profilassi dell’emicrania, ma essendo biologico, è un farmaco ad alto costo e il suo impiego, all’interno del Ssn, sarà regolato da una serie di restrizioni

 


Dieci seminaristi al servizio di anziani e ammalati

In luglio e agosto due gruppi di studenti dell’Università della Santa Croce di Roma, provenienti da ben 9 Paesi diversi, prestano servizio in supporto ad educatori e operatori di Casa Nogarè, Casa Clero e Casa Perez

Dieci studenti provenienti da nove Paesi diversi. Sono i seminaristi del Collegio Sede Sapientiae di Roma che in questa calda estate 2019 hanno scelto di fare un’esperienza di servizio alla Cittadella della Carità di Negrar. Si tratta di una tradizione ormai ventennale che si rinnova nei mesi estivi e durante le vacanze di Natale e di Pasqua, quando ai giovani del Collegio viene data la possibilità di mettersi alla prova nell’assistenza ad anziani e ammalati a Casa Clero, Casa Perez e Casa Nogarè.

 

Nel mese di luglio hanno prestato servizio i primi cinque giovani, di età compresa fra i 19 e i 27 anni. I seminaristi sono impegnati in supporto agli educatori dalle 8.30 alle 17.30 dal lunedì al venerdì. Il resto del tempo lo trascorrono insieme alla comunità religiosa, seguiti in particolare dal vice presidente dell’ospedale don Waldemar Longo.

 

Sono tanti gli impegni e le mansioni da svolgere, sempre in accordo con gli educatori: trasporto degli ospiti che non possono muoversi da soli, allestimento delle stanze per attività ludico-ricreative, animazione dei momenti di preghiera, laboratori e momenti di svago, supporto durante i pasti…

 

Ma l’aspetto più significativo è il contatto con gli ospiti. “Gli ospiti spesso hanno voglia di raccontarsi e di ricordare e una parte importante del nostro lavoro qui è proprio l’ascolto – dice Federico, argentino, impegnato a Casa Clero – in queste settimane ho scoperto che tante delle persone qui hanno avuto incarichi importanti nella loro vita, sono stati parroci, professori, responsabili di seminari. Ed ora fanno un grande sforzo per adattarsi alla loro situazione di anziani e ammalati”.

 

A Casa Nogarè hanno prestato servizio Joel, indiano, e Jershom, filippino. Anche per loro il rapporto con gli ospiti è stato sorprendente. “Tra i nostri compiti c’era quello di curare la preghiera in filodiffusione che viene recitata alla mattina – raccontano – poi sono stati molto belli i momenti dei giochi. Ad esempio abbiamo scoperto il gioco delle bocce, che non conoscevamo, oltre alla briscola e la tombola”.

 

Infine ci sono Josè Angel, proveniente dal Messico, e Patrick, dal Ghana, che sono stati impegnati a Casa Perez. Tra i momenti particolari, qui, ci sono il laboratorio di falegnameria e le uscite al mercato del paese. “Gli ospiti, con il supporto degli educatori, fanno dei lavori di artigianato molto belli. Adesso stanno lavorando per allestire una mostra di presepi verso Natale“, dicono i due seminaristi. E poi c’è l’imperdibile appuntamento con la musica, ogni martedì… “Giuseppe che suona il basso, Sergio la batteria, Gianfranco che canta e le donne che ballano i ritmi degli anni Sessanta. Sono momenti intensi – sottolineano – che permettono di vincere la solitudine e trascorrere del tempo in serenità nonostante le difficoltà“.

Esaurito questo primo turno di servizio con il mese di luglio, in agosto è in arrivo il secondo gruppo di ragazzi. E ricomincia il giro del mondo. Ci saranno Dean dal Sudafrica, Luis Zambrano dall’Ecuador, Benito dal Venezuela, James dalle Filippine e Koa dal Vietnam.


Insonnia da caldo, come combatterla

Il caldo in estate è uno dei nemici del buon riposo, ma si possono adottare delle semplici regole per non alzarsi più stanchi della sera prima. E anche l’alimentazione ha la sua importanza come spiega il neurologo Gianluca Rossato

 

L’ insonnia da caldo è il nemico numero uno del riposo in estate. Le temperature elevate, e la sudorazione conseguente, rendono l’addormentamento un vero e proprio “incubo”. L’insonnia da caldo colpisce circa il 40% degli adulti italiani. È la prima causa di stanchezza e sonnolenza diurna perché disturba e interrompe l’abituale ritmo sonno-veglia.

 

“La melatonina, l’ormone che favorisce il sonno, viene prodotta dopo il tramonto con l’arrivo del buio ed è favorita da un’ottimale temperatura corporea: durante le ore notturne questa si abbassa di circa un grado, ma se la temperatura dell’ambiente in cui si dorme è più elevata, ecco che riuscire a prendere sonno diventa difficoltoso”, spiega il dottor Gianluca Rossato, responsabile del Centro di Medicina del sonno.
Cosa fare quindi per dormire bene nonostante l’afa estiva?

 

Attenzione alle temperatura della stanza e a cosa si mangia a cena

“E’ consigliabile fare una doccia tiepida prima di andare a dormire; abbassare la temperatura della camera, accendendo con un leggero anticipo il condizionatore o il ventilatore. Anche un’alimentazione adeguata è importante, evitando a cena cibi poco digeribili e optando invece per pietanze che possono stimolare la sintesi della serotonina come pasta, riso, orzo, ma anche lattuga, radicchio e cipolla. Infine è bene ridurre il consumo di carne (per la presenza di tirosina) e di spezie, ma soprattutto di caffè e di altre sostanze stimolanti come il fumo e l’alcol.

 

Con caffé, fumo e alcol non si dorme bene

“Infatti, se tutti sanno che il caffè ‘fa restare svegli’, pochi conoscono le proprietà stimolanti del fumo e molti hanno la convinzione erronea che l’alcol favorisca il sonno – precisa il dottor Rossato -. Il fumo di sigaretta contiene la nicotina, una sostanza stimolante per il cervello, che può indurre l’insonnia. Le bevande alcoliche, contrariamente al fumo, favoriscono l’addormentamento ma hanno l’effetto collaterale di indurre i risvegli precoci. In pratica si crolla sul letto immediatamente ma dopo 2-3 ore arriva l’insonnia”. La soluzione? “Smettere di fumare anche per gli altri effetti nocivi della sigaretta, e assumere alcol con moderazione, almeno non 3 ore prima di andare a dormire”, conclude il dottor Rossato.